Dopo il postmoderno… il (ritorno del) post-rock? Intervista ai June of 44

 

 

A Dante,

con il quale è sempre

un piacere parlare di musica.

 

“C’era una volta il postmoderno” si potrebbe quasi essere tentati di dire alla luce di certi sviluppi recenti in campo filosofico e, più in generale, culturale… Ciò, perlomeno, se si intendono termini come “postmoderno” e “postmodernismo” in un’accezione per così dire ristretta, ossia limitata alla forma che tali fenomeni hanno assunto sul piano del pensiero e, dunque, al campo di quello che Maurizio Ferraris, per esempio, ha definito “l’attacco postmoderno alla realtà” (Manifesto del nuovo realismo, cap. 1), proponendo appunto il nuovo realismo come superamento del, o via d’uscita dal, postmodernismo filosofico. In un’accezione più ampia e non solo filosofica, “postmoderno” può far poi riferimento alla fisionomia complessiva o, se si vuole, allo Spirito di un’intera epoca: quella in cui secondo i teorici che, per l’appunto, credono a una tale visione generale della storia recente – saremmo entrati nella fase storica in cui si cessa di essere “moderni”, cioè nel periodo in cui i tratti caratterizzanti dello Spirito della modernità hanno smesso di essere vincolanti, venendo sostituiti da una costellazione di direttrici e tendenze diverse che, “pur non potendo venir ridotta a un semplice capovolgimento dialettico del moderno, costituisce pur sempre un’alternativa rispetto a esso” (G. Fornero, S. Tassinari, Le filosofie del ’900, p. 1186). Infine, secondo alcune prospettive più recenti e più specificamente incentrate su questioni estetiche, lo stesso postmodernismo sarebbe ormai irrimediabilmente invecchiato e saremmo entrati nell’epoca di un indifferenziato “post-post” (Y. Michaud, L’arte allo stato gassoso, cap. 2) o in quella dell’“estetica diffusa” come terzo stadio di sviluppo dopo il pop e, appunto, il postmoderno (A. Mecacci, Dopo Warhol, pt. III).

Naturalmente, queste considerazioni preliminari (1) non hanno alcuna pretesa di esaustività rispetto a un argomento che, come si sa, è enorme quanto alla sua ampiezza e portata, ma sono per l’appunto preliminari e dunque semplicemente introduttive; e poi (2) potrebbero sembrare un po’ bizzarre e fuori luogo, tenuto conto che, come accade di solito per i miei interventi su “Scenari” e come accade anche qui (e si vede fin dal titolo), l’argomento trattato non è di natura specificamente filosofica bensì musicale, e in particolare relativo alla musica “popular” o, se si vuole, “pop-rock”. La bizzarria e l’impressione di “fuori-luogo” o “fuori-contesto”, però, sono destinate a dissolversi non appena si tenga presente il nesso tra i due “post-“ citati nel titolo: postmoderno, per l’appunto, e post-rock. Come si legge infatti nel cap. 114 di E. Assante, G. Castaldo, Blues, jazz, rock, pop. Il ’900 americano, nella seconda metà degli anni ’90 “l’urgente problema del rinnovamento del rock alternativo” – dopo che esso era stato “ormai istituzionalizzato” dalle major “comprandolo, consumandolo, predisponendo sigle discografiche occasionali per dare credibilità ‘indipendente’ a formazioni create in vitro, secondo una politica a dir poco totalitaria, nella speranza di catturare i nuovi Nirvana” – trovò una parziale e di breve durata (ma non per questo effimera o insignificante) soluzione nell’avvento di “bassa fedeltà e post-rock”, là dove quest’ultimo avrebbe rappresentato “la rivalsa del postmoderno nel rock”.

Ora, l’applicazione meccanica ed eteronoma al rock di categorie ed etichette (come “postmoderno”) desunte da ben altri vocabolari e ambiti culturali può suscitare molte legittime perplessità, e ciò vale sia in generale, sia nel caso di un’equazione del tipo “postmoderno = post-rock”. Un’ equazione, quest’ultima, che si espone a dubbi per vari motivi, ad esempio perché: (1) di entrambi i fenomeni non è mai stata fornita una definizione chiara, univoca e condivisa da tutti, ragion per cui, estremizzando un po’, di ogni cosa e al contempo di nulla si potrebbe dire che sia postmoderno o post-rock; (2) stante una tale indefinibilità e indecidibilità di fondo, non a caso nel rock sono stati definiti “postmoderni” dischi o artisti quanto mai distanti dall’estetica del post-rock (per esempio, si narra che gli U2 del periodo Achtung Baby – Zooropa definissero se stessi come “rocker postmoderni”, e pensando alla frantumazione del senso della realtà prodotta dal caleidoscopio di immagini che bombardava gli occhi e la mente degli spettatori nel leggendario Zoo TV Tour del 1992-93, e comparando quel tipo di performance musicale radicalmente spettacolarizzante a certe tesi di Baudrillard sulla sparizione del reale e la sua sostituzione con un universo di meri simulacri, beh, sorge il sospetto che una coincidenza con almeno un tratto caratteristico del postmoderno effettivamente ci fosse). E, tuttavia, quantomeno per un paio di ragioni un accostamento tra postmoderno e post-rock può valere la pena di essere tentato, come ad esempio: (1) una certa tendenza al disordine temporale, all’abbandono della linearità, alla sperimentazione linguistica e alla mescolanza di stili, alla commistione tra forme diverse e a prima vista avulse fra loro; e soprattutto (2) un’incredulità di fondo nei confronti delle “grandi narrazioni”. Riprendendo infatti questo tema, com’è ovvio, da La condizione postmoderna di Lyotard, e applicandolo a una musica come il rock – che, come notava Simon Frith in Towards an Aesthetic of Popular Music, “dipende dal mito” e, dunque, proprio dalla costruzione di narrazioni, perlopiù incentrate su vicende eroiche, carisma auratico-spettacolare, senso (illusorio) del progresso e bisogno di autenticità (destinato peraltro a scontrarsi con la prosaicità dello show business e, nei casi delle personalità più fragili, solitamente tendente a generare gravi crisi per questo: si veda in tal senso l’enfasi posta sul caso-Cobain da Mark Fisher in Realismo capitalista, cap. 1) –, ne deriva la singolarità del post-rock, a suo modo postmoderno in questo. Ne deriva, cioè, il fatto che, dopo la sequenza ininterrotta di “grandi narrazioni” o, se si vuole, mitologie rock (fondate peraltro su un inscindibile connubio tra fattore propriamente musicale, stile d’abbigliamento e lifestyle in generale, come ben evidenziato da Elizabeth Wilson in Vestirsi di sogni. Moda e modernità, cap. 9) protrattesi per decenni, dai teddy boy ai mod agli hippie al country rock alla psichedelia all’hard rock al glam al progressive al punk all’heavy metal al pop fino ad arrivare al grunge, con l’estetica lo-fi e post-rock (che, come si diceva, reagisce fra le altre cose alla eroicizzazione coattiva degli schivi anti-eroi grunge da parte dell’industria culturale) si giunge infine a fenomeni scarsamente assoggettabili alla mitologizzazione; ovvero, a fenomeni difficilmente inseribili in una ennesima “grande narrazione”, poco tendenti a generare nuove mode e, sotto questo punto di vista, effettivamente “post-”.

Una sera di molti anni fa, in pieno periodo post-rock, mentre eravamo al pub il mio amico Leo se ne uscì con la seguente sparata: “Dopo Che Guevara ed Eddie Vedder non ci possono più essere eroi nel mondo”. Lì per lì io scoppiai a ridere e la presi appunto come una tipica sparata di Leo, dato che peraltro aveva bevuto diverse birre quella sera. Oggi, però, penso che con la sua geniale e un po’ delirante naïveté Leo avesse intuito qualcosa che io, concettualmente più solido e compatto di lui, e dunque anche meno immediato nell’approccio alla musica e alla vita in generale, non avevo colto. Ovvero, non il fatto che Guevara e Vedder possano essere in qualche modo paragonabili come figure (giacché ovviamente non lo sono), né il fatto che Vedder sia realmente in qualche modo un eroe, ma il fatto che, così come negli anni ’80 molti “aveva[no] creduto negli U2 […] in un’accezione quasi religiosa, essendo stata la voce di Bono, per molti giovani di quegli anni, una delle pochissime voci credibili che trasmettessero un messaggio autenticamente etico, di lotta coraggiosa con­tro il male, in un panorama culturale devastato” (D. Ferdori, La filosofia degli U2), allo stesso modo Cobain e Vedder abbiano svolto una funzione non identica ma comunque simile per chi era giovane negli anni ’90. Un’ultima generazione di figure mitologiche, dunque, di figure in grado di generare la costruzione di un’ultima “grande narrazione” ma al contempo altamente improbabili per il loro essere fondamentalmente dei loser, degli anti-eroi o meglio dei non-eroi “eroicizzati” loro malgrado, dopo i quali pertanto, se è vero che rock music depends on myth” come afferma Frith, non si poteva che entrare nell’età del post-rock.

Ora, una delle band di punta di questa scena un po’ bizzarra, o quanto meno particolare, così poco associabile a trend ben definiti eppure così capace di guadagnarsi la stima di un nutrito gruppo di estimatori e fan affezionati (sebbene sempre a un livello underground e mai mainstream, per così dire), furono senz’altro i June of 44. Quartetto americano originario di Louisville, Kentucky, attivi per un brevissimo ma altresì intensissimo periodo fra il 1994 e il 2000, i June of 44 furono (o meglio: sono, dato che ne parliamo qui per via del loro graditissimo comeback) costituiti da Jeff Mueller e Sean Meadows alle chitarre e voci, Fred Erskine al basso e Doug Scharin alla batteria, e produssero in rapidissima sequenza i seguenti prodotti discografici: Engine Takes to the Water (1995), Tropics and Meridians (1996), The Anatomy of Sharks (EP, 1997), Four Great Points (1998), Anahata (1999) e In the Fishtank 6 (live, 1999). Non essendo qui possibile addentrarsi in una disamina di tutti i loro dischi e nemmeno di tutte le caratteristiche stilistiche, mi limiterò a citare la seguente descrizione dalla voce “June of 44” di G. Rausa, Dizionario della musica rock, vol. II: “[la band] offre un panorama sonoro sconcertante, in quanto poche cellule motiviche vengono sviluppate entro spaventose cortine di suono distorto, nonché iterate a lungo senza sostanziali variazioni, dando voce per tale via ad una angosciosa poetica del disagio” che spicca però per “mezzi espressivi e strutture mature e sorprendenti”, come la capacità di “incanalare l’angoscia più devastante entro rigidi ed ‘equilibrati’ percorsi governati da un minimalismo improntato a schemi di tipo matematico” (tanto che, soprattutto in relazione all’elaborata parte ritmica della loro musica, si parlò anche di “math-rock”). In occasione del loro inatteso – ma, proprio per questo, più che benvenuto – ritorno sulle scene, coincidente con un breve tour proprio in Italia (paese nel quale, alla fine degli anni ’90, i June of 44 godettero di un ottimo seguito, al pari di band come Don Caballero, Karate, Shellac, Shipping News, Tortoise e gli italianissimi ma insieme internazionalissimi Uzeda), abbiamo colto l’occasione di intervistare Jeff dei June of 44, ponendogli qualche domanda sia sul comeback della band, sia sul senso generale della loro proposta musicale.

 

D: Allora, per prima cosa, bentornati cari June of 44! Vorrei avviare questa intervista con una sorta di contestualizzazione, cioè con qualche accenno al contesto in cui noi, qui in Italia, entrammo in contatto per la prima volta con la vostra musica e imparammo ad apprezzarla. Infatti, io – al pari di molti altri giovani della metà degli anni ’90 che ebbero l’opportunità di ascoltare i vostri dischi e vedervi dal vivo – ricordo piuttosto bene il senso di freschezza, novità e originalità portato alle nostre orecchie dalla musica registrata da voi e altre band analoghe in quel particolare periodo. Voglio dire: nel periodo che seguì immediatamente all’improvvisa dissoluzione della scena grunge (qualsiasi cosa significasse realmente “grunge” a quel tempo: ma questa è un’altra questione), che fu caratterizzato dalla completa trasformazione di varie tendenze indie-rock in mere mode o trend e dall’inevitabile commercializzazione di quasi tutta la musica rock “alternativa” o “indipendente”, e che perciò pose noi, ascoltatori giovani ma non più adolescenti né però ancora adulti, di fronte alla domanda: “E adesso cosa succederà?” Fu appunto allora che scoprimmo improvvisamente nuovi artisti e nuove band (come i June of 44 e poi altre) che, pur non diventando mai la nuova moda dell’epoca, fuano comunque capaci di condensare in sé e di trasmetterci un certo senso di unità e identità. Per prima cosa, quindi, lasciatemi chiedere com’era formare una band nel 1994, come ci si sentiva a far parte di una nuova scena che ben presto sarebbe stata categorizzata come “post-rock”.

 

R: Innanzitutto, molte grazie per la tua riflessività e per il tuo interesse; l’Italia è sempre stata un luogo in cui ci siamo sentiti protetti e fortemente benvenuti. Molte delle nostre persone preferite e secondo noi maggiormente piene di vita stanno lì. In un certo senso, a prescindere dalla distanza e dal tempo, siamo e saremo sempre insieme. Ci sono sempre stati negli USA legami tra band forti, cosmici, fra città come Chicago e Louisville, o come Louisville e Washington; e noi, che proveniamo tutti da posti diversi, abbiamo sempre sentito un legame forte del tipo “June of 44 e Italia”, insieme a qualche altro luogo bellissimo, incredibile e stimolante. Perciò, cara Italia, grazie a te. Accadevano molte, molte cose nel 1994, cose che separano quel periodo musicale rispetto ad altri… certamente per quel che riguarda le etichette indipendenti e gli artisti che rappresentavano. Band post-punk dei primi anni ’80 o della metà degli anni ’80, come Minutemen, Hüsker Dü, Gang of Four e The Ex, costituivano sotto molti aspetti una risposta al punk iper-stilizzato degli anni ’70: niente glam, i loro personaggi erano ridotti al minimo, aggressivi e fieramente fai-da-te nella composizione. Furono gli archetipi di ciò che sarebbero stati in buona parte gli anni ’90, creando network per i luoghi di incontro e scrivendo essenzialmente un po’ per volta una specie di guida su come andare in tour con furgoncini malconci e su come far funzionare le cose con poco, davvero poco. Al tempo in cui i miei progetti stavano cominciando a vedere la luce era tutto molto meno complicato. Era molto più semplice far parte di una band: etichette discografiche, agenti e promoter erano affamati, a caccia della next being thing. Il business della musica indipendente, come merce o prodotto remunerativo, era fiorente. E poiché nessuno dei tipici test di mercato o delle regole dell’industria musicale sembrava affidabile in termini di “Che cosa è valido? Che cosa venderà?”, più o meno qualsiasi cosa otteneva molta più attenzione di quanto non accadesse in precedenza. Le mie band, e molte band post-rock, si collocavano sempre ai margini dell’accessibilità. Non sono mai stato capace di capire appieno la definizione stessa di “post-rock”; perciò, se alcuni dei miei progetti vengono visti come pionieristici di quel genere, forse questo mi consente di avere un pochino di discrezionalità basata sull’esperienza. Ai miei occhi, la musica che ho realizzato non è stata tanto una reazione alle strutture esistenti, né un tentativo di ottenere qualcosa di più ampio rispetto alla somma delle parti. Quando ho composto musica si è trattato piuttosto della mia risposta personale agli elementi che andavo integrando in una canzone. Non avevo realmente un genuino interesse per il modo in cui si sarebbero sentite le persone per ciò che scrivevo, né avevo uno stile o degli arrangiamenti tipici. Ero catturato piuttosto dalle storie e dall’impressione che dava un certo verso nel momento in cui veniva incastrato con un altro… non si trattava realmente di suonare lo strumento, ma aveva piuttosto a che fare col colpirlo in modo sufficientemente dolce o duro per ri-sentire il momento in cui si erano realizzati un verso o un’emozione. Il boom di metà anni ’90 fu brusco, tonificante e rapidamente espropriato dagli studi di registrazione casalinghi e da Internet, che fecero da pionieri a un approccio fai-da-te completamente diverso al fare dischi e a come la gente doveva fruire di essi.

 

D: Allora, dopo aver chiarito almeno un po’ il senso e, soprattutto, il feeling e l’atmosfera che furono così pervasivi – tanto per gli artisti quanto per il loro pubblico – in quel particolare periodo e in quella scena musicale, vorrei chiedervi che cosa vi ha portato recentemente a riunire i June of 44 e a intraprendere questo tour, e quindi quali sono le vostre aspettative e i vostri progetti al momento.

 

R: Buona parte della nostra esistenza come band e del nostro successo sono stati dovuti, in una misura non piccola, a coloro che ci hanno sostenuto lungo il percorso… nel nostro periodo di attività, il nostro approccio all’andare in tour a livello internazionale è stato un po’ insolito. I June of 44 lavoravano sempre a contatto diretto con i promoter e con le agenzie di ciascun territorio che andavamo a visitare. Molte fra le persone contattate si sentivano sorprese e molto felici per il fatto di lavorare a così stretto contatto con la band… dal momento che era una cosa atipica. Molte fra queste persone erano esse stesse musicisti. Attraverso queste interazioni abbiamo sviluppato fantastici rapporti di amicizia. La nostra amicizia con Agostino e Giovanna degli Uzeda è una fra le amicizie più importanti, ispirate e belle che sono scaturite da questo tipo di etica lavorativa… sono persone eccezionali e il nostro amore nei loro confronti è immenso. Detto ciò, durante la nostra pausa di 19 anni abbiamo ricevuto proposte per suonare nei festival in ogni parte del mondo, ma non eravamo interessati a una reunion di tipo tradizionale. Questa non è una reunion tradizionale. Quando Agostino ci ha chiesto di andare a Catania per suonare in occasione delle celebrazioni per il 30° anniversario degli Uzeda, beh, semplicemente non potevamo dire di no, né lo avremmo voluto. Si tratta di un onore e siamo elettrizzati per la possibilità di partecipare a questo evento.

 

D: In alcuni articoli usciti su riviste musicali, o in certi capitoli di libri sulla storia della popular music, il genere noto come post-rock è stato associato al postmodernismo come fenomeno culturale più generale della nostra epoca (con varie ramificazioni in arte, letteratura, filosofia, politica, studi culturali, critica, storia, ecc.). In qualità di studioso di filosofia e, insieme, di ascoltatore entusiasta di musica rock, sono sempre stato incuriosito da questa associazione ma, al contempo, un po’ sospettoso o scettico verso di essa, nel senso che qualche volta (anche se non sempre) sembra che alla base di tale associazione ci sia solo il prefisso comune “post-”… Ad ogni modo, se è vero che alcuni fra i tratti definitori degli approcci postmoderni in ogni ambito comprendono l’ironia e l’irriverenza, il mettere in discussione discorsi e valori tradizionali, e un genuino pluralismo unito alla capacità di mescolare prospettive e stili differenti: bene, se questo è vero, allora mi domando se ciò non trovi qualche corrispondenza o perlomeno qualche analogia nel post-rock (originariamente definito dal critico Simon Reynolds come un modo di “usare la strumentazione del rock per scopi che non sono quelli del rock”). Cosa ne pensate?

 

R: Hai presente il libro Fearless di Jeanette Leech? Mi ha fatto una domanda simile, è interessante. Penso di avere sfiorato l’argomento già prima, quando ho detto qualcosa sul tentativo di definire il genere. Sono curioso e insieme dubbioso nei riguardi di qualsiasi critico che affermi che è possibile far rientrare ordinatamente in una sola sezione o in un solo genere così tanti stili, tecniche ed emozioni differenti. Indipendentemente dall’approccio cerebrale o accademico adottato da qualcuno per tentare di mitigare una relazione con così tanti colori diversi e trovare un pennello unico su cui collocarli tutti in modo pulito, il termine mi è sempre sembrato fiacco, vuoto e noioso. Per essere chiari, personalmente non mi ci identifico, e perciò, a questo scopo, forse non sono la persona più indicata a cui chiedere un parere!

 

D: Il mio ultimo articolo su questa rivista, “Scenari”, si intitolava “La libertà è una forma di (in)disciplina”, cioè di una disciplina che è insieme un’indisciplina, e riguardava quella che mi piace chiamare “L’estetica dei King Crimson”. Ora, ascoltando i June of 44 devo dire di avere sempre avuto un’impressione per certi versi analoga, vale a dire quella di una presenza costante e, in effetti, di un vero e proprio intreccio di entrambi questi aspetti. La vostra musica, cioè, mi ha sempre colpito per il fatto di suonare molto rigorosamente costruita e “disciplinata” (per esempio, da un punto di vista ritmico) ma, al tempo stesso, molto espressiva, libera e “indisciplinata” (per esempio, dal punto di vista del vostro uso del rumore, del feedback, di elementi improvvisativi, ecc.). Quanto vi sembra accurata o, viceversa, inaccurata un’interpretazione di questo tipo?

 

R: Sì, direi che è molto, molto accurata. In molti brani dei June off 44 io e Sean tiravamo fuori insieme (lett. “sbattevamo insieme”; “bang together”) qualche tipo di arrangiamento alle chitarre, come punto di osservazione o punto di partenza, cosicché dopo, quando ci trovavamo insieme in sala con Doug e Fred, potevamo avere una prospettiva significativa a partire dalla quale lavorare. A partire da lì, si limavano le parti e si costruiva la canzone per intero come band. Sono un musicista espressivo, le mie parti hanno perfettamente senso per me, sono chiare, ma da un punto di vista ritmico spesso sono rigide e difficili da decifrare. Nel completare i brani, senza una sezione ritmica riflessiva, tecnica e, come dici tu, “disciplinata”, come quella composta da Fred e Doug, molte delle sfumature e delle tessiture interne alle strutture delle parti chitarristiche si sarebbero perse o sarebbero risultate squilibrate.

 

D: Infine, dopo avere esaminato il passato, lasciate che vi chieda qualcosa riguardo al presente e magari anche al futuro. Quali sono le vostre impressioni riguardo alla scena rock contemporanea? Per esempio, viviamo in una specie di epoca post-post-rock? Viviamo in un’età in cui tutti gli stili sono stati rimescolati e confusi insieme, creando una sorta di pastiche universale e onnicomprensivo, oppure scorgete ancora tendenze ben definite? E, da ultimo, c’è qualche musicista contemporaneo o qualche band di oggi che vi ha particolarmente colpito e impressionato?

 

R: Sembra che sia meno difficile per le band affinare veramente il proprio stile: l’home recording consente grande crescita e sviluppo. Alla luce di ciò, forse la musica underground di oggi è più rifinita e specializzata, e rientra in un brand più facilmente definibile, rispetto a quanto avveniva un po’ di anni fa. Ciò non implica una scelta fra qui o là in termini di qualità, c’è un sacco di musica straordinaria che viene prodotta. Non sono neanche lontanamente sintonizzato come lo ero un tempo, mi dà un senso di frustrazione quando sento qualcuno dire con tono rassegnato: “Non ci sarà mai più un periodo come quello”, come se non vi fosse nulla che possa essere altrettanto buono quanto ciò che accadeva allora. La nostra esperienza è interamente relativa a un certo tempo e a una certa energia. In definitiva, è miope rivestire di perfezione il tuo piccolo pezzo di una qualsiasi cosa… e far sì che qualunque cosa venga dopo sembri pallido in confronto. Certo, quando vivevi qualcosa, e quando ci eri dentro, allora quello era di primaria importanza e non importava nient’altro; ma solo per il fatto che non vedi, ascolti, senti o sperimenti nuove direzioni e nuove estetiche nello stesso modo in cui lo facevi 20 anni prima, ciò non significa che le produzioni attuali siano di minor valore; significa solo che non comprendi o non elabori le cose nel modo in cui lo facevi quando stavi scoprendo tutte le forme e le dimensioni della metà degli anni ’90. Parlare in quel modo ti fa solo sembrare vecchio, burbero e obsoleto.



Scenari. Il settimanale di approfondimento culturale di Mimesis Edizioni Visita anche Mimesis-Group.com // ISSN 2385-1139