Nella cucina della teoria del cinema

 

 

 

0. Torte a strati e torte a piani: ricette teoriche fra destrutturazione e infra-strutturalità

 

Nella sua Postfazione a Teorie del cinema. Il dibattito contemporaneo (Raffaello Cortina Editore, 2017, 408pp.), Francesco Casetti usa un’immagine molto efficace per descrivere l’evoluzione storica e lo stato attuale delle teorie del cinema: una gustosissima torta a quattro strati. Lo strato di base è costituito dalle “teorie” fra virgolette, quel corpus di discorsi e riflessioni sorto già nel primo decennio del Novecento in forma di opinioni, notizie, commenti, articoli, racconti quasi anonimi pubblicati su quotidiani, rotocalchi illustrati o riviste letterarie. Un corpus sporadico e asistematico che tuttavia rispondeva alla necessità di «fornire un’immagine del cinema che ne faciliti la comprensione e l’accettazione da parte della società».

 

Poi arrivarono le teorie che oggi definiamo “classiche”: nel secondo strato della torta si trovano per esempio Balázse Arnheim (anni Venti-Trenta), la Filmologia (anni Quaranta-Cinquanta), ma anche Bazin e Morin (anni Sessanta). Assodata l’esistenza e la sua rilevanza sociale, bisognava conferire al cinema uno statuto artistico, enucleare dall’estetica un nuovo campo disciplinare, individuare i suoi principi di funzionamento e il suo specifico. Paradossalmente è già in questa fase che, aprendosi all’influenza di altre discipline come per esempio l’antropologia, la sociologia e la psicologia sperimentale, la teoria del cinema «lavora inconsciamente a un proprio superamento».

 

Il terzo strato è formato da tre ingredienti – psicoanalisi, semiotica, marxismo (siamo negli anni Settanta) – un mix che aveva l’obiettivo di mettere a nudo gli “effetti ideologici” che proprio la formalizzazione disciplinare e teorica avevano conformato. Un approccio che più tardi alcuni autori, come David Bordwell e Noël Carroll (uno psicologo cognitivista e un filosofo analitico), etichetteranno come “Grand-Theory”, a sottolinearne criticamente l’astrattezza, la pretenziosità, l’assiomaticità e il determinismo.

 

Alla Grand-Theory – siamo al quarto strato – doveva essere sostituito un approccio dalle pretese più modeste, dal campo più circoscritto e dal metodo più rigoroso. Una post-theory, insomma, che però – sottolinea Casetti – «finisce con il coincidere con l’apertura di un supermarket teorico dove ciascuno può trovare la merce che preferisce, e dove tutte le marche sono esposte sugli scaffali. In linea con lo spirito neoliberale dell’epoca, la teoria si confronta con il mercato».

 

Dunque quattro strati – “teorie”, teorie classiche, Grand-Theory, post-theory – che, per quanto distesi uno sopra l’altro, non sono da intendere come fasi diacroniche di una sostituzione progressiva, bensì come sedimentazioni sincronicamente presenti e attive. Gustare una fetta di torta oggi significa prendere tutt’e quattro le farciture assieme (magari distinguendo e apprezzando i diversi sapori). Il problema è capire se questa torta composita è una prelibatezza che segna la nuova vita della teoria del cinema oppure un “mappazzone” che ne decreta fatalmente il declino.

 

Se pensiamo a cosa è accaduto a partire dalla metà degli anni Novanta (quando cioè la post-theory ha cominciato a essere lo strato più richiesto della torta) dovremmo parlare di destrutturazione. Proprio come in pasticceria (e più in generale in cucina), le ricette tradizionali hanno cominciato a essere rivisitate e i diversi ingredienti del dolce a essere proposti in una struttura diversa, se non persino separatamente, lasciando a chi l’ha ordinato il compito di ricomporli direttamente nell’atto stesso del gustarli. Il destino di dispersione e frammentazione della teoria del cinema si scorgeva già in alcune influenti raccolte di saggi che attaccavano frontalmente la Grand-Theory, in particolare Post-Theory degli stessi Bordwell e Carroll (1996), Film Theory and Philosophy di Richard Allen e Murray Smith (1997) e Wittgenstein, Theory and the Arts curato da Richard Allen e Malcolm Turvey (2001).

 

Per descrivere lo stato attuale delle teorie del cinema (approssimativamente gli ultimi vent’anni) potremmo restare in pasticceria e mantenere la metafora della torta, stavolta però montandola su una di quelle strutture a più alzate, tipiche delle feste che seguono le celebrazioni importanti – in particolare, non a caso, i matrimoni. Non a caso perché in fondo si tratta di descrivere alcuni sodalizi, almeno tre, tutti molto appassionati, spesso tormentati. La questione della (impossibile, possibile, consigliabile o necessaria) sopravvivenza della teoria del cinema va letta infatti come il segnale di un fenomeno più profondo: alla fine degli anni Novanta la teoria del cinema cambia pelle e si riconfigura come pratica di dialogo tra specialisti del cinema e studiosi di altre aree.

 

Possiamo parlare (riprendendo un’idea che sviluppa John Durham Peters nel suo volume Marvelous Clouds del 2015) di un passaggio dal post-strutturalismo all’infra-strutturalismo: teoria non più come prodotto, ma piuttosto come processo, habitat persistente e rete di connessioni non sempre immediatamente visibile, che rende comunque possibili e fruttuosi la riflessione, il discorso, il confronto con altre discipline. Insomma una torta a più strati, ma disposta su piani diversi tuttavia a attraversati e sostenuti da un’impalcatura invisibile eppure fondamentale. In particolare riteniamo che un simile confronto sia stato esercitato circa in tre direzioni: verso la filosofia, verso le scienze sperimentali e verso la mediologia. Per ciascuna di queste aree un concetto si è imposto quale baricentro della discussione: rispettivamente l’esperienza, l’organismo e il dispositivo.

 

Nelle prossime righe forniremo una sintesi molto schematica di questo triplice incontro e per ognuno sceglieremo, a puro scopo rappresentativo, un brano estratto dai testi antologizzati.

 

1. Il dialogo con la filosofia

Il confronto tra teoria del cinema e filosofia ha ruotato attorno al tema dell’esperienza: esso evidenzia bene la volontà di coinvolgere nella riflessione alcune dimensioni della visione del film precedentemente trascurate, in particolare quella delle emozioni e della sensibilità corporea. Le aree del dialogo sono state sostanzialmente tre.

La prima riguarda la filosofia analitica e il cognitivismo: se già in precedenza era emersa un’indagine dell’esperienza dello spettatore come attività cosciente di comprensione del racconto filmico nel quadro del discorso teorico sulla Teoria della Mente (David Bordwell, Noël Carroll, Gregory Currie, Richard Allen), il dibattito integra alla “cold cognition” una “hot cognition” legata essenzialmente al ruolo delle emozioni filmiche e delle relazioni di simpatia o empatia con i personaggi. La seconda area del dialogo riguarda l’avvento (o la riemersione) di un approccio fenomenologico al cinema: in questo caso l’esperienza dello spettatore viene avvertita come primariamente e radicalmente incarnata, fondata sulle categorie del sentire corporeo immediato e sulle sue risonanze multi- e inter-sensoriali.

 

La principale autrice di questo orientamento, Vivian Sobchack, parla di uno spettatore “cinestesico”: ovvero sinestesico, cenestesico e cine-estesico. Infine, la terza area del dialogo con la filosofia si concentra sulla natura stessa della relazione tra il film e il pensiero, ovvero sull’idea di teoria del film come filosofia – o, più precisamente, sulla possibilità che l’esperienza filmica produca pensiero. Siamo di fronte non più solo a una lettura filosofica del film, bensì a una vera e propria “filosofia del film”, influenzata da autori peraltro molto diversi come Stanley Cavell e Gilles Deleuze, ciascuno con i suoi sviluppi.

Fra molti brani possibili, riportiamo l’incipit e un passaggio particolarmente intenso del saggio di Vivian Sobchack (siamo dunque nella seconda delle tre aree delineate sopra), “Quello che le mie dita sapevano. Il soggetto cinestesico, o della visione incarnata”, pubblicato in inglese nel 2006 nella raccolta Carnal Thoughts e incentrato sul film Lezioni di piano di Jane Campion.

 

Quasi ogni volta che leggo recensioni di film su giornali o riviste resto stupefatta dal divario che separa la nostra effettiva esperienza del cinema dalla teoria che noi studiosi costruiamo per spiegarla – o forse, più propriamente, per imbastire una spiegazione al riguardo. Prendiamo, per esempio, molte delle descrizioni di Lezioni di piano di Jane Campion (1993) apparse sulla stampa: “Ciò che più colpisce è la forza tattile delle immagini. L’aria salata può quasi essere assaporata, si può quasi sentire il morso feroce del vento”. Il film è “[u]n’incessante esperienza sensuale di musica e tessuti, di fango e carne”. “Si scriveranno poesie sulle curve delle natiche degli attori, disegnate dalla luce delle candele; sull’atmosfera che avvolge il loro liberarsi di ogni indumento; sull’immediato shock tattile nel momento in cui, in primo piano, la carne per prima tocca la carne.” […] Che cosa abbiamo a che fare noi, come teorici dei media contemporanei, con queste descrizioni dell’esperienza filmica così tattili, cinetiche, odorose, sonore e talvolta persino gustative?
[…]

A questo punto, data la mia critica piuttosto consistente dell’astrazione teorica e della sua noncuranza della nostra esperienza corporea del film, voglio fondare la discussione condotta finora “nella carne”. Di fatto nella mia carne – nella sua capacità di rendere significativamente conto e di comprendere un film concreto, Lezioni di piano. Per quanto intellettualmente problematico per via della sua politica sessuale e coloniale, il film di Campion mi ha colpito nel profondo, mobilitando i miei sensi e il senso che ho del mio corpo. Il film non soltanto mi ha “riempito” e spesso “soffocato” di sensazioni che hanno risuonato nel mio petto e mi hanno stretto lo stomaco, ma ha anche “sensibilizzato” la superficie della mia pelle – cos. come della sua – al tatto. Nel corso del film sono stata intensamente concentrata con il mio intero essere e, rapita com’ero dal mondo sullo schermo, ero anche avvolta in un corpo estremamente consapevole di se stesso e della sua fisica capacità sensuale, sensibilizzata, sensibile. (A questo proposito potremmo richiamare i critici che avevano parlato di “ininterrotta esperienza dei sensi, fatta di musica e tessuti, di fango e carne” e di “immediato shock tattile”.) In particolare voglio soffermarmi sulla mia esperienza dei sensi e di senso delle prime due inquadrature di Lezioni di piano – dal momento che proprio queste hanno generato il presente saggio. Nonostante la mia attenzione corporea fosse costantemente mobilitata e vigile nel corso di un film che non ha mai smesso di emozionarmi o toccarmi a livello carnale, emozionale e cosciente nei modi più complessi, queste prime due inquadrature hanno evidenziato il tema che abbiamo (è proprio il caso di dire) tra le mani: il nostro coinvolgimento sensuale non soltanto rispetto a questo singolo film ma, a gradi diversi, rispetto a tutti gli altri. Più esattamente queste inquadrature di apertura hanno evidenziato l’ambiguità e l’ambivalenza della relazione tra la vista e il tatto, che è stato evocato in senso sia letterale sia figurato. In termini visivi e figurativi, la primissima inquadratura cui assistiamo in Lezioni di piano propone in apparenza un’immagine non identificabile. […]

Lezioni di piano, Jane Campion, 1993.

Lezioni di piano, Jane Campion, 1993.

 

Quando ho visto la scena iniziale di Lezioni di piano – nel corso di quella prima inquadratura, prima di sapere che c’era un’Ada e prima di scorgerla dal mio lato della sua visione (ossia, prima di guardare lei e non la sua visione) – è accaduto qualcosa di apparentemente straordinario. Nonostante la mia “quasi-cecità”, la “nebbia indistinta” e la resistenza che l’immagine opponeva ai miei occhi, le mie dita sapevano cosa stavo guardando – e questo prima che il successivo controcampo oggettivo mettesse quelle dita al loro posto (ossia, le mettesse dove fossero visibili oggettivamente piuttosto che “attraversate da uno sguardo” corrispondente a una prospettiva soggettiva). Fin dall’inizio, infatti, quello che stavo vedendo non era un’immagine irriconoscibile, per quanto fosse confusa e indeterminata per la mia vista, per quanto i miei occhi non riuscissero a “leggerla”. Fin dal principio (nonostante io non ne sia stata conscia fino alla seconda inquadratura), le mie dita riuscivano a comprendere quell’immagine, ad afferrarla con un fremito quasi impercettibile di attenzione e di attesa e, lontane dallo schermo, “sentivano se stesse” come una possibilità nella situazione soggettiva e incarnata rappresentata sullo schermo. E ciò prima che io riformulassi la mia comprensione corporea nel pensiero cosciente: “Ah, sono dita quelle che sto guardando”. Inizialmente, infatti, prima di questo riconoscimento cosciente, io non consideravo quelle dita come “quelle” dita – ossia, come a distanza rispetto alle mie proprie dita e oggettive nel loro “trovarsi là”. Piuttosto, ho conosciuto in primo luogo quelle dita per via sensuale e sensibile come “queste” dita, collocandole ambiguamente al di fuori dello schermo e dentro di esso – soggettivamente “qui” come oggettivamente “là”, “mie” come dell’immagine. Perciò, anche se avrebbe dovuto, data la mia “quasi-cecità” rispetto alla prima inquadratura, il successivo e oggettivo controcampo di una donna intenta a sbirciare il mondo attraverso le sue dita aperte a ventaglio non ha affatto costituito una sorpresa o una rivelazione. Mi è sembrato invece un piacevole esito e una conferma di quello che le mie dita – e io, per riflesso e non per riflessione – già sapevano.

 

2. Il dialogo con le scienze sperimentali

Il confronto tra teoria del cinema e scienze dure affonda le sue radici nell’incontro con il cognitivismo celebrato alla fine degli anni novanta da Bordwell e Carroll. Nondimeno, i due studiosi non potevano sapere che di lì a poco il perfezionamento delle tecniche di indagine e in particolare di brain imaging avrebbe avviato una tendenza fisiologizzante delle discipline psicologiche, accedendo un dialogo sempre più serrato con quelle umanistiche all’insegna dell’idea di organismo, che non poteva non estendersi rapidamente all’esperienza filmica.

All’interno di questo campo di studi, attualmente in piena espansione, possiamo distinguere tre grandi tendenze. La prima è stata sviluppata da autori quali Tim Smith, Uri Hasson, Jeffrey Zacks ed è focalizzata sull’ideazione e la realizzazione di esperimenti mediante una varietà di strumenti empirici (eye tracking, risonanza magnetica funzionale, elettroencefalogramma, ecc.) per comprendere cosa avvenga nel cervello degli spettatori di fronte a brani di film stilisticamente diversi. La seconda tendenza consiste in una riflessione epistemologica sull’opportunità e l’eventuale utilità dell’integrazione dei metodi e dei risultati della ricerca empirica all’interno della teoria del cinema: troviamo i nomi di Raymond Bellour, Patricia Pisters e soprattutto Murray Smith. La terza tendenza infine intende giungere attraverso le neuroscienze a una nuova definizione dell’esperienza dello spettatore cinematografico, aggiornata alle tendenze embodied e enactive della neurofenomenologia più recente (riconnettendosi in tal modo ad alcuni aspetti filosofici sopra citati): si pensi per esempio al lavoro di Vittorio Gallese e Michele Guerra, di Torben Grodal, o anche degli autori di questo articolo.

Il saggio “Neurocinematica. La neuroscienza del film”, di Uri Hasson e colleghi apparso nel 2008 sulla rivista Projections, è forse il testo che maggiormente iconizza questo filone. Riportiamo alcuni stralci incentrati sull’analisi de Il buono, il brutto, il cattivo di Sergio Leone:

Vi sono due importanti implicazioni della scoperta che un film è in grado suscitare andamenti temporali dell’attività cerebrale simili in spettatori diversi. In primo luogo, alcuni film hanno il potere di “controllare” le risposte neurali degli spettatori. Per “controllare” intendiamo semplicemente che le sequenze di stati neurali suscitate dal film sono affidabili e prevedibili, senza formulare alcun giudizio estetico o etico sulla vantaggiosità di tali mezzi di controllo. In secondo luogo, assumendo che tali stati mentali siano strettamente correlati agli stati cerebrali (un’ipotesi ampiamente assunta come vera da molti neuroscienziati e filosofi), il controllo degli stati cerebrali degli spettatori è per i nostri scopi assimilabile al controllo dei loro stati mentali, come percezioni, emozioni, pensieri, atteggiamenti ecc.
[…]

Nel nostro primo studio sull’attività cerebrale durante la visione filmica abbiamo chiesto a cinque volontari di guardare i primi 30 minuti di Il buono, il brutto e il cattivo, noto film di Sergio Leone (1966), mentre la loro attività. cerebrale era analizzata con lo scanner della fMRI. I volontari erano distesi all’interno dello scanner. Immagini e suoni digitalizzati erano erogati tramite un computer. Il video era mostrato tramite un proiettore LCD su uno schermo collocato dietro la testa dei volontari e visibile attraverso uno specchio montato sopra i loro occhi. Il suono era trasmesso tramite cuffie ad alta fedeltà compatibili con la risonanza magnetica.

Il buono, il brutto, il cattivo, Sergio Leone, 1966

Il buono, il brutto, il cattivo, Sergio Leone, 1966

 

Ai volontari era richiesto semplicemente di mantenere immobile la propria testa, mentre potevano interrompere la visione del film e uscire dallo scanner in qualsiasi momento durante l’esperimento. I dati della fMRI sono stati elaborati registrando computazionalmente l’attività del cervello di tutti gli spettatori tramite il sistema di coordinate di Talairach, in modo che regioni corrispondenti di ciascun cervello fossero approssimativamente allineate alle altre, ripulendo i dati da eventuali errori residuali della registrazione e poi correlando i tempi di risposta in una data regione cerebrale. Nonostante il compito apparentemente non controllato (visione libera) e la natura complessa degli stimoli filmici, l’attività cerebrale degli spettatori è risultata simile. Nello specifico circa il 45% della neocorteccia […] mostrava una alta (e statisticamente significativa, p < 0.001) correlazione intersoggettiva durante la visione del film. La correlazione interessava molte regioni cerebrali diverse, incluse le aree visive nei lobi occipitali e temporali, le aree auditive nelle circonvoluzioni di Heschl, le regioni prossime al solco laterale note per essere essenziali per il linguaggio (conosciute anche come area di Wernicke), le regioni cerebrali implicate nelle emozioni e le aree multisensoriali nei lobi temporali e parietali. L’intensità della Correlazione Inter-Soggettiva può essere apprezzata ispezionando i tempi di risposta in ognuna delle regioni cerebrali. L’attività [nell’area facciale fusiforme (FFS)] cresce e decresce seguendo un tempo di risposta simile fra tutti gli spettatori durante la visione filmica. In altre parole, il film esercita un considerevole controllo sulle risposte di quest’area del cervello, producendo simili tempi di risposta.

 

2. Il dialogo con la mediologia

Sul fronte infine del dialogo con la mediologia, risulta ovviamente decisivo l’avvento del digitale: nel corso degli anni Ottanta il cinema perde i propri criteri distintivi “ontologici” di medium modernista, viene uniformato ad altri mezzi di comunicazione ugualmente digitalizzati, ed entra in quella che Rosalind Krauss nel 1999 ha definito L’era postmediale. A livello teorico questa nuova condizione produce due effetti opposti ma correlati.

Per un verso la teoria considera le forme di “rilocazione” del cinema all’interno di contesti un tempo anomali se non impossibili: sale di museo, installazioni artistiche, megaschermi urbani, mini o microschermi di tablet e telefonini, e così via. Si tratta in questi casi di capire cosa resta del cinema, e in che senso continuiamo a usare (in forma lecita) questa parola. Alcuni libri di riferimento sono La querelle des dispositifs di Raymond Bellour (2012), Tecnologie della sensibilità di Pietro Montani (2014) e La Galassia Lumière di Francesco Casetti (2015).

Per altro verso la teoria rilegge il passato del cinema inserendosi nel più ampio alveo dell’“archeologia dei media”: citiamo per esempio i numerosi volumi di Erkki Huhtamo e Jussi Parikka, come anche il recente Film History as Media Archaeology di Thomas Elsaesser (2016). In questo senso si inserisce anche la riscoperta nei paesi anglosassoni delle opere “tecnocentriche” di Friedrich Kittler pubblicate negli anni Ottanta e Novanta. Sintomatico il successo teorico in questa chiave dello schermo (pre)cinematografico, al centro oggi di numerosissimi studi (per esempio di Mauro Carbone, Erkki Huhtamo, Giuliana Bruno, Francesco Casetti e molti altri).

Esiste in ogni caso un aspetto specifico di collegamento tra ispezione o prospezione da un lato e retrospezione dall’altro: risulta centrale in entrambi i casi il concetto di dispositivo. Esso permette di affrontare direttamente tutti i nodi problematici sopra delineati attraverso una serie di domande chiave: cos’è un dispositivo e come connette saperi, pratiche e tecnologie? Da quali precedenti dispositivi deriva il cinema, e quali forme più o meno canoniche ha assunto nel tempo? Come si dissemina e si riloca oggi il dispositivo cinematografico, quali ambienti crea, quali trasforma? Come cambia insomma il cinema, come viene cambiato, e quali distruzioni oggi lo creano?

Riportiamo un frammento del saggio di Giuliana Bruno “L’architettura dello schermo. Arte e atmosfere della proiezione”:

In principio era la luce. La superficie dello schermo nasce da lì, dal desiderio di trasformare lo spazio mediante la luminosità e il gioco delle ombre. […] L’interessante etimologia evolutiva della parola schermo può cominciare a dirci qualcosa riguardo a questa diversa storia “elementare” e ambientale dello spazio proiettivo. Occupandoci di archeologia dei media, ci accorgiamo che l’idea dello schermo, e della sua visione luminosa, precede di molto l’invenzione del cinema. La parola schermo, in effetti, è stata usata per lungo tempo in relazione allo spazio prima di essere applicata all’arte della proiezione. Fece la sua comparsa durante il primo Rinascimento, evolvendo da una precedente radice germanica passata anch’essa alle lingue latine. In origine il termine indicava una varietà di mezzi, superfici e tipi di schermatura, perlopiù provenienti dal mondo dell’architettura. Come lo storico dei media Erkki Huhtamo ha mostrato, esso designava in particolare “un tipo di mobile che è ‘mobile’, consistente in un foglio di materiale leggero, spesso semitrasparente (carta, un qualche tipo di tessuto ecc.) teso su un telaio in legno (o su una serie di cornici pieghevoli connesse tra loro)”. Nel XIX secolo il suo significato si è esteso a comprendere la superficie della proiezione. Trasferito dallo spazio architettonico alla sfera dei media precinematografici, il lemma ha finito per definire un nuovo tipo di membrana traslucida, e una nuova forma di trama materiale: un tessuto che riflette la luce per la trasmissione di immagini luminose. È significativo notare che The Century Dictionary and Cyclopedia, la cui prima edizione risale al 1899, definisce lo schermo innanzitutto dal punto di vista architettonico, come “una struttura velata, divisorio o sipario…; per esempio, un paracamino; un paravento pieghevole; una persiana”, per poi includere in questa forma di metamorfosi spaziale “uno schermo su cui una lanterna magica può imprimere delle immagini”.
[…]

 

All’interesse contemporaneo per le proiezioni fantasmagoriche della modernità ha fatto da pioniere Anthony McCall, che descrive la sua installazione filmica del 1973 Line Describing a Cone con queste parole “è quello che definisco un film di luce solida. […] Questo film parla di una delle condizioni necessarie e irriducibili del cinema: la proiezione di luce”. In quest’opera un proiettore proietta – cioè rende visibile, effonde e trasmette – un cono di luce in un ambiente abbuiato, stimolando lo spettatore a percepire quel grado zero di cinema di cui abbiamo parlato. La luce viene percepita come un’entità materiale perché è ulteriormente filtrata dal fumo, che ne aumenta e ne rende più tangibile la densità. Trasformata in un volume dotato di corpo, questa solida superficie luminosa è percepita come una presenza scultorea e diventa uno spazio materiale con cui negoziare. Qui, come in un’altra opera di McCall, Long Film for Four Projectors (1974), lo spettatore è indotto a toccare il cono di luce, a maneggiarne la superficie e a girare intorno e in mezzo alla scultura-ambiente proiettiva.

3. Bruno (Anthony McCall, Line Describing a Cone, 1973)

Line Describing a Cone, Anthony McCall, 1973

 

L’idea di cinema di McCall è diventata ancor più ambientale nel suo recente ritorno ai film di “luce solida”, prodotti digitalmente a partire dai primi anni Duemila. Ancora una volta, finiamo per essere assorbiti nell’atmosfera luminosa di proiezioni pure, mentre condividiamo un’intimità pubblica. Utilizzando la tecnologia digitale per potenziare gli effetti materiali, questo lavoro recente restituisce la dimensione più atmosferica del cinema e, in tal senso, riprende alcuni aspetti delle prime performance ambientali dell’artista, per esempio Landscape for Fire (1972). L’“esperienza atmosferica” del cinema diventa la vera e propria materialità di superficie delle installazioni di McCall. L’“aria” della luce qui è resa tangibile, e avvertiamo la profondità insita nello spazio di superficie ambientale. Resi sensibili alla materialità dell’etere, ci ritroviamo avvolti da un mutevole, permeabile ambiente atmosferico, alla cui performance e permutazione siamo palpabilmente invitati a partecipare


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