Una svolta drammatica. Somiglianza ed empatia tra Medioevo e contemporaneità

 

 

Giovanni Zoda

Kairos, cm 90×100, olio su tela, 2007

Collezione privata, Catania

 

La cultura visuale del Medioevo: diversi approcci di metodo

 

Negli ultimi vent’anni gli studi internazionali sulla cultura medievale si sono occupati del significato della vista e dei dispositivi della rappresentazione, giungendo a ripensare radicalmente lo statuto dell’immagine e il suo rapporto con lo spettatore. In questa direzione si sono mossi tanto gli storici dell’arte (penso ai lavori di Charles Barber e Bissera Pentcheva sulle icone bizantine o a quelli di Jean-Claude Schmitt e Jean-Marie Sansterre sulle  immagini nell’Occidente cristiano), quanto chi si occupa di strutture compositive del testo (mi riferisco soprattutto all’indagine di Mary Carruthers su retorica e mnemotecnica) o di teatro (di particolare interesse sono i saggi di Jody Enders (Enders, 1992; Ead., 2011: 164-173) e di Thomas Lerud sulle matrici retoriche del dramma).

Sposando un metodo interdisciplinare e rileggendo in modo nuovo le fonti e i documenti, molti studiosi hanno parlato di immagini che agiscono e hanno messo in evidenza l’idea di visione performativa: nel Medioevo vedere è un’azione concreta e complessa nella quale sono coinvolti nello stesso tempo tutti i sensi del corpo (tatto, odorato, udito, gusto), un’azione che richiede una disciplina interiore ed esteriore, una postura psicofisica che determina diverse prospettive dello sguardo; vedere significa entrare in contatto con un’immagine e agirla o, meglio ancora, far parte di una scena sensibile dinamica e relazionale. Vedere è una performance (Starkey, 2004; de Nie, Morrison, Mostert, 2005; Brantley, 2007).

Non stupisce, allora, che l’editore Brepols abbia deciso di aprire una serie a sé stante dedicata agli Studies in the Visual Culture of the Middle Ages, ma è molto interessante che l’abbia catalogata sotto il più generale soggetto Fine arts and Performing arts e precisamente sotto la voce generale Arts history, in comune tra Byzantine art history e Medieval art history. Ciò significa che la comunità scientifica dei medievisti considera gli studi sulla cultura visuale un settore della ricerca storica che non può disgiungere arti figurative e performance, ma che riguarda prevalentemente gli studi sull’arte in generale, sia Bizantina (e dunque rimandando alla teoria dell’icona) che occidentale (con il passaggio dall’icona all’immagine artistica).

Entro gli studi di cultura visuale, alcuni studiosi quali Pamela Sheingorn (si veda inoltre: McConachie, Hart, 2006), Jill Stevenson ed Elina Gertsman prediligono un approccio cognitivo. Costoro si occupano del rapporto tra il pubblico e le forme della rappresentazione medievale (tanto quelle drammatiche – che sono il campo di indagine privilegiato di Sheingorn e Stevenson – quanto quelle più specificatamente plastiche e figurative – di cui si occupa invece Gertsman) e lo leggono attraverso la categoria di embodied experience, sostenendo che si tratterebbe di un rapporto non solo performativo ma più specificatamente fisico, incarnato appunto, che implica un coinvolgimento completo dello spettatore in un’esperienza fruitiva sensuale e soprattutto emozionale. In altre parole, il soggetto spettante instaura una relazione di reciprocità fisica con il manufatto artistico, il quale a sua volta funziona come un corpo vivo e agisce. In questo secondo approccio vengono usati spesso e a piene mani gli studi sulle neuroscienze ed in particolare gli scritti di Antonio Damasio e di Vittorio Gallese, resi noti alla comunità scientifica dei medievisti per tramite soprattutto dell’autorità di David Freedberg (si veda inoltre: Freedberg, Gallese, 2007: 197-203), che con i suoi lavori sulla storia della percezione delle immagini ha introdotto nuove categorie antropologiche negli studi sulla rappresentazione in genere.

Ed è proprio sull’approccio di Freedberg che il dibattito internazionale degli storici del Medioevo ha espresso alcune perplessità. Mi riferisco soprattutto al saggio con cui Jeffrey Hamburger apre il volume collettaneo The Mind’s Eye (Hamburger, 2006: 11-31). Qui Hamburger richiama l’attenzione degli studiosi sull’importanza del pensiero teologico per comprendere lo statuto ontologico dell’immagine medievale e prende le distanze tanto dalla lettura di Hans Belting, quanto da quella di Freedberg. Il primo aveva negato la rilevanza delle fonti cosiddette alte (quelle teoriche, teologiche ed esegetiche) per comprendere significato ed uso delle immagini in epoca medievale. A suo parere infatti il pensiero teorico non è solo troppo distante dall’aspetto funzionale delle immagini, ma non è neppure in grado si spiegare le prassi e la loro ricezione; al contrario può solo restituire un’idea sommaria ed appiattita, proprio perché formulato ex post e, dunque, in modo consuntivo e riassuntivo. Freedberg, invece, pur riconoscendo l’importanza della teologia per lo storico dell’arte, rischia di dimenticare la storia, preferendo proporre una teoria della percezione che sembrerebbe implicare la presenza di una reazione naturale connaturata nell’uomo – una reazione che Hamburger definisce a «Pavlovian reaction, prediscorsive, unreflective and nonverbal» (Hamburger, 2006: 13) -. È questo unico denominatore comune che Freedberg illustra attraverso la carrellata di esempi proposti nel suo celebre The Power of Images.

Tutt’altro, invece, il metodo di Hamburger: egli sostiene che i tratti della cultura visuale del Medioevo possano essere pienamente compresi solo rimandando ai solidi fondamenti epistemologici e ai cardini strutturali propri del pensiero teologico cristiano il quale, portando in sé un preciso concetto di immagine, può esser definito una teologia immaginale o immaginativa in senso proprio(Newman, 2003: 294-304). In altre parole, le argomentazioni teologiche risultano fondamentali per non commettere l’errore di intendere l’immagine medievale a prescindere dal suo essere tanto parte costitutiva di un pensiero su Dio e sull’uomo, quanto traduzione (rappresentazione) dell’ordine di quel pensiero. Dunque, se da un lato la teologia immaginale va intesa come una forma e un modo di pensare e di conoscere, dall’altro l’immagine ne è lo strumento argomentativo e dimostrativo; uno strumento al tempo stesso epistemologico e gnoseologico. Ne risulta che teologia ed esegesi sono importanti non tanto in riferimento ai contenuti delle immagini, quanto per le modalità della rappresentazione e della percezione: non è il significato veicolato dall’immagine (cosa significa un’immagine) a essere centrale, ma il modo di significare dell’immagine in sé (come significa). Non si tratta di cercare nella teologia la possibilità di un’arte, ma il fondamento della rappresentazione e della percezione. Tuttavia, i principi speculativo-teologici non vanno assunti in senso monolitico, ma nella loro dimensione storica: non è infatti possibile comprendere il farsi della cultura visuale del Medioevo prescindendo dalle diverse modalità con cui, lungo i secoli, quei principi si incarnarono entro il pensiero cristiano dell’Oriente e dell’Occidente, pervadendo tutte le forme della rappresentazione, siano esse messa in immagine o messa in azione, vale a dire immagini figurative, parole e azioni (Hamburger, 2006: 12-17).

Dal punto di vista storico e filologico Hamburger ha certamente ragione. È però evidente che tanto le caratteristiche performative ed empatiche della visione, quanto l’idea di immagine agente trovano sorprendenti pezze d’appoggio in un approccio funzionale e neuroscientifico, rendendo molto affascinanti le letture di Belting e Freedberg che, così, sono facilmente utilizzate dai medievisti. Ciò che intendo sottolineare in questa sede è un aspetto della teologia immaginale che credo non sia stato messo in luce dagli studi medievistici, e che invece ritengo fondamentale per comprendere sia la convergenza degli studi di cultura visuale sul performativo, sia l’attrazione dei medievisti verso le neuroscienze. Si tratta della rilettura dell’idea di immagine cristiana alla luce della concezione drammatica della conoscenza, impostata negli scritti patristici e teologici che a vario titolo hanno trattato del problema della rappresentazione. Cercherò di mostrare come dalla concezione teologica dell’immagine dipenda in modo diretto l’idea di immagine materiale intesa come impressione di somiglianza. Da entrambe, immagine teologica e materiale, consegue da una parte il considerare la visione alla stregua di un dispositivo memorativo-performativo e, dall’altra, intendere la rappresentazione come dispositivo drammatico. L’approdo è ad una modalità di conoscenza che ha le caratteristiche del processo responsivo-empatico e che si struttura attraverso meccanismi memorativi. Iniziamo, allora, dall’idea cristiana di immagine.

 

 

Immagine teologica e immagine materiale

 

Il cristianesimo ha due distinte idee di immagine, interdipendenti ma separate. La prima è l’idea di immagine perfetta, ontologicamente identica al proprio modello – detta consustanziale o coessenziale – e viene formulata durante il primo concilio di Nicea in relazione alla seconda persona della Trinità: il Figlio. È un’immagine che non si riferisce al campo del visibile ma a quello del logico (è il logos). È un predicato o meglio ancora, come dice Atanasio il Grande a cui se ne deve l’elaborazione, è l’unica predicabilità di Dio (Atanasio chiarì che l’idea trinitaria di Dio implica una perfetta comunione di essere, per cui il Figlio e il Padre sono una cosa sola: dire che il Figlio è immagine del Padre significa dire che il Figlio rivela il Padre, cioè che la paternità è una delle caratteristiche fondamentali della prima persona della Trinità e ci è rivelata dal Figlio. In altri termini, nell’eterna figliolanza di Dio si mostra l’eterna paternità di Dio (Atanasio di Alessandria, 1857-1866: 53C.). Questa è «una delle rare affermazioni positive che noi possiamo avanzare sulla prima persona, una di quelle che ci permettono di designarla. Prima di ogni inizio […], la prima persona è Padre del suo Figlio senza inizio e coeterno. Padre del Logos consustanziale. Ma dato che la qualità di Padre e di Figlio significa l’identità di essenza, ciò deve ripercuotersi sulla nozione di immagine» (Ozoline, 1987: 408). L’idea di immagine subisce una radicale correzione: a livello trinitario essa non va più intesa come analogica e frutto di una riproduzione (potremmo dire facta), ma diviene intrinseca e generata. L’immagine di Dio non è un’incisione esterna (exothen graphomene) ma lo stesso Dio ne è il generatore (ghennetes): «Il Padre è eterno, immortale, onnipotente, Dio, Signore, Creatore e produttore. Bisogna che questi caratteri si ritrovino nell’immagine perché sia vero che chi vede il Figlio vede il Padre (Gv 14, 9); se invece, come pensano gli ariani, il Figlio è prodotto e non eterno, non abbiamo una vera immagine del Padre» (Atanasio di Alessandria, 1857-1866: 56A). In tal modo, il rapporto tra Dio e Parola non è più quello che l’Uno plotiniano intrattiene con la sua prima emanazione e non si fonda su gradi di partecipazione dell’essere. Tra l’archetipo divino e l’immagine non c’è alcun dislivello di essere: l’immagine è homoousia, consustanziale, coessenziale al proprio modello (Atanasio di Alessandria, 1857-1866: 451C). Si esclude ogni gradazione della divinità e ogni concezione partecipativa, poiché l’immagine di Dio non partecipa di Dio, è Dio (Ivi: 784B) – «Se la Parola fosse Dio e immagine essenziale del Padre solo attraverso partecipazione (metaousia) e non in sé stessa, essa non potrebbe divinizzare altri, dal momento che esse dovrebbe venir divinizzata»-).

La seconda idea è quella di immagine somigliante. Essa è l’impronta dell’immagine perfetta che ne è, per così dire, la matrice: non ne condivide l’essenza (non è consustanziale), ma intrattiene con il suo prototipo un rapporto di somiglianza. Viene formulata in relazione all’uomo del quale si dice appunto che è fatto ad imaginem, ossia secondo l’immagine (Dio crea l’uomo imprimendogli la sua immagine, e l’immagine di Dio è il Figlio. Lo crea, dunque, a partire da se stesso, da ciò ch’egli è, dalla sua morphè, ma pienamente altro da sé. Il che significa che l’uomo, essendo creatura non è coessenziale a Dio, ma, portando in sé l’impressione dell’immagine di Dio, è in relazione con Dio: gli somiglia. Gregorio di Nissa è il teologo per eccellenza dell’uomo immagine e somiglianza, colui che fa di questo tema la chiave di volta della dottrina spirituale, il pezzo forte della sua speculazione teologica – si veda soprattutto l’opera De hominis opificio, in Patrologiae cursus completus… cit. A tal proposito si legga: Leys, 1951 -).

L’incarnazione è l’unione personale in Cristo di immagine perfetta (il logos) e immagine somigliante, vale a dire incarna e rende visibile la relazione di somiglianza: rivela quello che i Padri chiamano ratio veritatis.

 

[Estratto del saggio: C. Bino, “Una svolta drammatica. Somiglianza ed empatia tra Medioevo e contemporaneità”, in A. Rabbito (a cura di), La cultura visuale del XXI secolo. Cinema, teatro e new media, Meltemi, Milano, di prossima pubblicazione]

 

 

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Sitografia:

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