In anni che ora sembrano lontani, quando il numero degli immigrati presenti nel nostro Paese era ancora esiguo si guardava al fenomeno migratorio con un misto di disinteresse istituzionale e indifferenza sociale. A partire dai primi anni Novanta la situazione ha cominciato drasticamente a mutare e gli immigrati sono divenuti l’obiettivo di una crescente ostilità materiale e simbolica. A scatenare una reazione di rigetto alimentata senza sosta dall’imprenditoria (mediatica e politica) della paura, che ha reso fasce anche ampie della popolazione facile preda di un nazionalismo che sconfina nella xenofobia, ha contribuito il fatto che si è passati da immigrazioni temporanee a insediamenti durevoli, e in molti casi definitivi. Così, mentre in passato, con gli immigrati di prima generazione, ci si aspettava che prima o poi tornassero nei Paesi di origine, i ricongiungimenti familiari e l’arrivo di minori nati altrove da un lato, la nascita e la socializzazione di figli nati in Italia dall’altro, hanno portato in primo piano problemi che in precedenza potevano rimanere occultati o venire sostanzialmente rimossi.
Il passaggio da immigrazioni temporanee a insediamenti durevoli ha infatti dato luogo a una popolazione della quale si può persino discutere la stessa collocazione tra gli immigrati: si tratta delle cosiddette seconde generazioni, che forse sarebbe meglio definire come “giovani di origine immigrata”. Questi giovani sono spesso nati sul territorio nazionale, non sono mai immigrati, magari non conoscono neppure la lingua dei genitori e sanno poco del Paese di cui loro o i loro genitori sono originari. Sono parte della seconda generazione di immigrazione anche i figli di coppie miste, come quando uno è immigrato e l’altra è nativa o viceversa. La casistica può essere molto ampia. Un tentativo di cogliere le molte facce di questa situazione è offerto dalla classificazione decimale di Rumbaut: se la prima generazione di immigrati è la generazione 1.0, e la seconda generazione nata nel nuovo Paese è la generazione 2.0, a metà si trova la generazione 1.75 arrivata in età prescolare e quindi vicina alla generazione 2.0; una generazione 1.5 ricongiunta durante la scuola dell’obbligo; una generazione 1.25 arrivata durante l’adolescenza e quindi più vicina alla prima generazione. Queste seconde generazioni sono diventate una componente legittima del nostro Paese, ma vivono tra di noi come dei moderni meteci: condividono la nostra vita quotidiana, ma non la nostra cittadinanza. Sono figli di un dio minore perché sono costretti a scontare un vizio di origine, quello di non essere sangue del nostro sangue, ed è per questo che si vedono negato il diritto di cittadinanza.
Anche se la cittadinanza moderna è formalmente universale, è infatti lo Stato a prescrivere le regole dell’appartenenza: se prevale il territorio in cui si nasce o in cui si vive, vige lo ius soli, se prevale l’elemento della nascita, della cittadinanza dei genitori, vige lo ius sanguinis. Lo ius soli, che trae origine dalla tradizione di common law, implica una interpretazione territoriale della cittadinanza. Esso riconosce il diritto di ogni persona nata entro la giurisdizione di un determinato Stato di acquisire la piena ed eguale appartenenza a quella comunità politica. Lo ius sanguinis, invece, non innalza le particolarità del luogo di nascita a principio guida, ma conferisce l’appartenenza politica a seconda della discendenza: vale a dire, conferisce automaticamente i diritti ai figli dei membri di una comunità lo status di cittadini a pieno titolo. In generale e tranne poche eccezioni, nessuna comunità politica si basa esclusivamente su uno soltanto dei due principi, ma a prevalere è piuttosto una qualche combinazione di ius soli e di ius sanguinis.
In passato, quando lo Stato coincideva con la nazione, non vi erano grandi problemi: in genere, si nasceva in Italia da genitori italiani. Oggi però vivono nel nostro Paese individui considerati provenienti da culture, etnie o religioni diverse da quelle maggioritarie. Ma la prevalenza dello ius sanguinis crea una situazione in cui quotidianamente vivono, l’uno accanto all’altro, residenti cittadini e residenti non-cittadini, eguali nell’abbigliamento, nell’istruzione, nei consumi, ma non nei diritti, perché riconoscerli come con-cittadini equivarrebbe a snaturare la nostra identità nazionale. Tuttavia, l’idea che ampliando i casi di acquisizione della cittadinanza attraverso quello che viene impropriamente definito come ius soli verrebbe alterata l’identità nazionale è semplicemente sbagliata. La nostra Costituzione è fondata sul lavoro e sui principi della democrazia, non su presupposti naturali o culturali, come potrebbe essere il sentimento di appartenenza etnico-culturale che si fonda sulla omogeneità della discendenza o della “forma di vita” e che dipende da criteri di ascrizione quali la nascita o la lingua.
Cosa prevede la legge? La legge prevede l’acquisizione della la cittadinanza se si è nati nel territorio italiano da genitori stranieri sempre che “almeno uno sia titolare del diritto di soggiorno permanente ai sensi dell’articolo 14 del decreto legislativo 6 febbraio 2007, n. 30, o sia in possesso del permesso di soggiorno UE per soggiornanti di lungo periodo di cui all’articolo 9 del decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286”. Questo è lo ius soli cosiddetto temperato nel senso che, diversamente da Paesi come gli Stati Uniti, non riconosce automaticamente la cittadinanza, ma la sottopone al parametro familiare. Vi è poi lo ius culturae, che si rivolge ai bambini nati all’estero da genitori stranieri, ma arrivati in Italia entro i 12 anni e che abbiano “frequentato regolarmente, nel territorio nazionale, per almeno cinque anni, uno o più cicli presso istituti appartenenti al sistema nazionale di istruzione o percorsi di istruzione e formazione professionale triennale o quadriennale idonei al conseguimento di una qualifica professionale”. Se si tratta di scuole elementari occorre la promozione. La cittadinanza può essere riconosciuta anche “allo straniero che ha fatto ingresso nel territorio nazionale prima del compimento della maggiore età , ivi legalmente residente da almeno sei anni, che ha frequentato regolarmente, ai sensi della normativa vigente, nel medesimo territorio, un ciclo scolastico, con il conseguimento del titolo conclusivo, presso gli istituti scolastici appartenenti al sistema nazionale di istruzione, ovvero un percorso di istruzione e formazione professionale triennale o quadriennale con il conseguimento di una qualifica professionale”. Come si vede, la legge non prevede alcun automatismo, ma condizioni molto precise, e persino restrittive.
Naturalmente, la tesi di chi avversa il riconoscimento della cittadinanza ai giovani di origine immigrata è che questi giovani sono stati socializzati a culture politico-sociali incompatibili con i valori che governano la nostra vita democratica. Il sospetto riguarda la loro lealtà civica: è come se si chiedesse loro non solo di condividere l’identità nazionale del Paese in cui vivono, ma di accettarla come prevalente rispetto a ogni altra affiliazione o a ogni altra appartenenza. Questo argomento ha però almeno due difetti. Il primo è di considerare le persone come rappresentanti delle supposte culture di appartenenza e di assimilare le strutture della coscienza individuale a identità collettive precostituite, quasi che gli individui non fossero che il microcosmo rappresentativo della loro presunta cultura originaria. Il secondo è di ancorare l’identità sociale alla logica monocolore di un processo a senso unico quando, invece, l’idea che ciascuno coltiva di se stesso deriva sia da una pluralità di identificazioni sia dalle influenze trasversali esercitate dalle varie affiliazioni. L’identità di ognuno è plurale e ogni forma di appartenenza si intreccia con molte altre – dalla classe sociale alla lingua, dalle opinioni politiche alla religione e così via. Imporre una identità nazionale esclusiva o schiacciante è come reagire alla crisi della globalizzazione rinunciando al libero scambio in nome di un ritorno al protezionismo, o come reagire al terrorismo sospendendo le libertà civili. Si tratta di una cura che può essere peggiore del male e che va bandita dall’arsenale della medicina preventiva. Al contrario, la lotta per la cittadinanza dei giovani di origine immigrata può essere una buona occasione per ridiscutere l’esercizio della cittadinanza nella prospettiva di chi ce l’ha già, e che però non ne fa esattamente l’uso migliore. Quando chi è cittadino pleno iure si trasforma in un apatico consumatore, finisce per assistere inerte allo svuotamento di valore e significato proprio della conquista che si ostina a negare a coloro che più ne avrebbero bisogno – oltre che, naturalmente, diritto.