Note sulla finzione identitaria del tribalismo urbano post-coloniale : la danza kalela

 

 

 

«L’uso pratico dell’identità si configura come una richiesta di sottrarsi alla competizione e alla contestazione, ovvero di raggiungere un tale livello di riconoscimento da rendere incontestabili, e garantite a livello indeterminato, le proprie aspirazioni e le proprie richieste.» (REMOTTI 2010, p. 35)

 

Questa citazione proveniente da L’ossessione identitaria scritto da Francesco Remotti, descrive involontariamente la messa in atto di alcune pratiche «tribali» tipiche della situazione urbana post-coloniale africana analizzate più nel dettaglio dal Rhodes-Livingstone Institute, primo istituto di ricerca teorica fondato in Africa.

Nello specifico, Clyde Mitchell – antropologo sudafricano facente parte della stessa équipe di studiosi – divenne celebre per la sua analisi situazionale di antropologia urbana effettuata più di sessant’anni fa intitolata Kalela dance. Aspects of social relationship among Urban Africans in Northern Rhodesia (1956), offrendo non pochi spunti di riflessione circa la questione identitaria (più che mai attuale) e soprattutto circa la ricostruzione etnico-culturale dei territori africani nel periodo post-coloniale, mediante studi di caso estesi.

 

Attraverso la descrizione di una danza popolare, la kalela, lo studioso avrebbe così sviluppato una concezione della struttura sociale urbana delle zone facenti parte della Copperbelt; in una struttura sociale diventata ormai stabile, emergevano sempre più frequentemente aspetti della vita sociale condivisa in cui gli individui – autoctoni e non – potevano compiere scelte reali interagendo mediante sequenze più o meno complesse.
Questo tipo di studio comprendeva una visione processuale delle relazioni sociali, astratte dal flusso infinito della vita, ottenendo un groviglio di diversi avvenimenti in cui i soggetti, veri protagonisti, si muovevano liberamente in una società composta da regole ambigue e conflittuali.

I cenni storici farebbero risalire le origini di questa danza intorno agli anni ’30 del Novecento, quando essa era inizialmente nota con il nome di mbeni. La kalela venne successivamente introdotta da un uomo chiamato Kaulu sull’Isola Chisi nei pressi del Lago Bangwelu, abitata allora dagli Ng’umbo. Egli, aggregandosi al reggimento della Rhodsia Settentrionale ebbe il permesso di portare con se tamburi e percussioni cosicché potesse continuare con le sue danze in un momento libero.

 

In quel frangente che formò un gruppo di danzatori capitaneggiato da lui stesso, che fortunatamente continuò a crescere in notorietà e dimensioni fino a diventare una vera tradizione e attività collettiva a partire dalla fine della guerra del Copperbelt, durata dal ’39 al ’45. Il contatto tra due gruppi di uomini e donne di provenienza geografica e locale molto diversa, l’uno egemone sull’altro, aveva prodotto una nuova danza dell’orgoglio – kalela appunto.
Nel compiere l’analisi della kalela, Mitchell dovette oltre che sulla mera rappresentazione e sul suo significato simbolico, concentrarsi anche sugli attori sociali coinvolti in essa mettendo in relazione la danza alle relazioni sociali in uso fra gli Africani della Copperbelt; nello specifico, sui rapporti fra bianchi e neri della Rhodesia tenendo in considerazione l’intero tessuto sociale del territorio.

La kalela dance veniva eseguita generalmente in un luogo pubblico all’interno delle aree residenziali dei nuovi contesti urbani africani, solitamente la domenica pomeriggio in un momento di rilassamento generale. Il gruppo di danzatori era composto da una ventina di persone molto giovani – tra i venti e i trent’anni – tutti però provenienti da ceti sociali bassi, appartenenti al mondo del lavoro manuale o poco qualificato, dai manovali, ai contadini, ai muratori.

 

Essi, vestiti di tutto punto, con magliette pulite, pantaloni lunghi, camice ben stirate e scarpe lucidate erano gli interpreti diretti di questa danza sfrenata. Tra questi si distinguevano due personaggi principali : il «dottore» ovvero colui che indossava una lunga tunica bianca, con una croce rossa sul petto (giusto per evidenziare la contaminazione simbolica in atto), il quale doveva assicurarsi dello stato di salute della danza, mantenendo sempre alto il ritmo e l’intensità della prestazione; e l’ «infermiera», unica donna facente parte dell’équipe performante, che si aggirava danzando, dimenandosi a ritmo di musica fra gli attori sociali, con uno specchio e un fazzoletto offrendo eventuali rapido ristoro per i giovani danzatori.

I temi trattati nelle canzoni improvvisate dal capo del gruppo riguardavano principalmente le caratteristiche della vita urbana, tuttavia molte inneggiavano alla diversità etnica, elogiando la bellezza del loro paese e le virtù delle tribù danzanti, non mancando di mettere in ridicolo gli altri gruppi etnici con i loro usi e i loro costumi.
Essa potrebbe anche essere concepita come un vero e proprio tentativo di «proto satira africana», cosa assolutamente inedita, indirizzata alla compagine coloniale europea che aveva da secoli cercato di soggiogare l’egemonia culturale autoctona imponendo un regime filo-occidentale rigoroso, nel tentativo di imbastire una «rieducazione antropologica».

L’introduzione di figure «occidentali» come il dottore, l’infermiera e il generale facevano di questa danza un autentico prodotto figlio del contatto con gli europei nella prima metà del XX sec. in Africa Orientale e Centrale.

 

Gli interpreti, preoccupati di non aderire al valore di prestigio di derivazione europea, per cercare il riconoscimento e l’incontestabilità delle proprie richieste, intendevano apparire eleganti. Gli operai sembravano desiderare una sorta d’identificazione con il modus vivendi più civile incorporato nelle azioni e nelle vesti dei colletti bianchi.

Ciò che ne usciva era quindi un tentativo di assimilazione identitaria da parte degli africani, soggetti all’influenza del potere coloniale che negli anni aveva perpetrato una maniera di concepire la vita sociale a immagine e somiglianza dell’ideale occidentale.

 

La danza kalela si inseriva dunque alla perfezione in questo meccanismo antropo-poietico (REMOTTI, 2013, p. 161) di creazione, di finzione umana auto-rappresentativa necessaria per l’uomo, al fine di orientarsi nel quotidiano mediante la costruzione della propria identità, sia individuale sia collettiva. Precisamente, questa cultura tribale era lo specchio dei valori e delle esigenze organizzative della comunità urbana legata alle attività minerarie, regolata dalle disposizioni degli europei alloctoni.

 

Non è un caso che in ambiente urbano si sia verificata uno scenario simile, perché è proprio la città ad essere – per antonomasia – luogo degli incontri e della ridefinizione di gerarchie sociali, prodotte del contatto di culture diverse. Nelle città le istituzioni tribali non funzionavano più come degli agglomerati sociali a forte coesione, con obiettivi, organizzazione sociale e «Weltanschauung» condivisi. Il ruolo cruciale occupato dalla kalela dance rimaneva quello di «definizione delle relazioni interetniche nelle città, relative al bisogno di conoscere valutare e trattare le persone secondo l’identità etnica» (HANNERZ, 1980, p. 257).

 

Il tribalismo, bisogno tipicamente urbano di classificare le persone nelle città e il metodo utilizzato nella zona della Rhodesia Settentrionale, attraverso la rappresentazione scenica della danza kalela e dello scherno; la presa in giro e della satira nei confronti dell’alterità etnica e culturale in loco, è soltanto uno degli espedienti antropo-poeitici di co-costruzione della realtà che ci circonda. L’essere afferrabile dell’identità, parimenti alla sua separatezza e distinguibilità da ciò che noi consideriamo «altro», sono finzioni illusorie i cui effetti e perversioni che sfociano in atti drammatici di violenza e intolleranza sono visibili a tutti.

 

Il modo sottile di sublimare la componente conflittuale che si cela dietro all’integrazione multiculturale in un milieu sociale – in questo caso urbano – della danza kalela, diretta espressione del «tribalismo» dovrebbe far riflettere sulle modalità e soprattutto sulle motivazioni in seno all’intolleranza culturale e all’etnocentrismo sfrenato che ha caratterizzato gran parte della storia occidentale moderna e contemporanea.
I tentativi di «de-tribalizzazione mediante urbanizzazione» del cittadino africano trovarono una sorta di resistenza nell’espressione etnica e culturale della danza cosiddetta «dell’orgoglio».

 

Seguendo la linea sociologica che vede la città come teatro, la rappresentazione della danza kalela può essere interpretata come uno sforzo compiuto dagli individui, più o meno consapevolmente, per presentare un’immagine di sé che sia vantaggiosa e credibile per gli altri. (GOFFMAN, 1969, p. 56). L’ossessione identitaria, che tormenta l’uomo sin dagli albori della sua esistenza e della sua creazione in quanto egli essere sociale, ha qui avuto un’ulteriore conferma dei propri limiti, poiché si configura come strategia difensiva nei confronti degli altri, del tempo e della natura. La sua pretesa di essere riconosciuta tout court collide con le pratiche di costruzione culturale dell’uomo, perennemente soggette a mutamenti nello spazio e nel tempo.

La danza kalela e tutte le sue apparenti contraddizioni interne, possono e devono essere considerate un paradigma antropo-poietico originale, perché nella lororappresentazione tragi-comica ribadiscono e smentiscono allo stesso la prevalenza di un gruppo etnico sull’altro in un contesto culturalmente labile come quello post-coloniale africano della prima metà del Novecento. Il tribalismo urbano è un veicolo di accettazione culturale di uno dei più grandi miti drammatici del nostro tempo, l’identità.

Le parole dello scrittore irlandese Samuel Beckett non fanno altro che confermare questa posizione : «Prima balla, poi pensa. È l’ordine naturale».


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