Trust no one: il ritorno di X-Files e le sue suggestioni sociologico-filosofiche

 

 

X-files è stata una serie televisiva americana di grande successo prodotta negli anni Novanta e protrattasi per 9 stagioni dal 1993 al 2001: si trattava di una serie che miscelava, con una certa disinvoltura, tematiche di fantascienza con elementi thriller, drammatici, horror, paranormali, noir, polizieschi, fantasy, surreali, complottistici, paradossali. I protagonisti erano i due agenti dello FBI, Fox Mulder e Dana Scully  (ben impersonati dagli attori David Duchovny e Gillian Anderson), che, sullo sfondo di un complotto di una cerchia para-governativa, volto a occultare l’esistenza  di una invasione aliena, indagano su tutta una serie di casi inspiegabili (catalogati appunto come X-files) e si trovano a contatto con vicende, eventi, creature e individui palesemente fuori dal comune e inquietanti. Al di là della plausibilità delle situazioni iperboliche in cui gli agenti erano calati (tra UFO, demoni,  mostri, scienziati fuori controllo, devianti di vario tipo), la serie aveva un suo punto di forza  negli spunti di riflessione che suscitava, poiché poneva, sottotraccia, molte questioni legate alle possibilità della conoscenza, alle frontiere della scienza, alle evoluzioni della natura e della società, ai processi informatici e tecnologici, alle logiche del potere governativo: a problemi, in definitiva, che si possono considerare anche, in generale, ontologici e epistemologici, psicologici e sociologici.

X-files certamente rifletteva un certo Zeitgeist culturale, non vistosissimo, degli anni Novanta, un periodo sostanzialmente di transizione in cui ci si allontanava progressivamente dagli snodi ideologici classici del Novecento, per avviarsi al trionfo della globalizzazione dell’inizio del XXI secolo.  Indicativo in tal senso che, per tutte le 9 stagioni, rimandi a vicende storiche, politiche e scientifiche di periodi come quello del Secondo dopoguerra, degli anni Sessanta e Settanta, della Guerra fredda,  sono frequenti e influenti.

Ora, praticamente a 3 lustri di distanza dalla fine della nona stagione, X-files è stata rimessa in moto: una nuova stagione, la decima, è stata già trasmessa in 6 episodi (arrivati in chiaro in Italia proprio in giugno 2017 su RAI 4) e una undicesima è stata annunciata in lavorazione. La cosa più sorprendente è, forse, il fatto che tutti gli attori dei protagonisti principali riprendono i loro stessi ruoli a 15 anni di distanza: se, nella tv e nel cinema, soprattutto in ultimo ventennio, i ritorni e i remake non mancano, indubbiamente la ripresa di una serie dopo davvero così tanti anni con i medesimi attori, è certamente qualcosa di notevolmente inusuale.

In questa sede, non andiamo a considerare il valore o meno in sé di questa nuova mini-serie di episodi, praticamente una sorta di resurrezione: su questo aspetto possono esprimersi più opportunamente studiosi di scienze della comunicazione, di estetica dei prodotti mediatici e affini, anche perché non è ancora chiaro come questi “X-files reloaded” evolveranno nel tempo, e il numero limitatissimo di nuovi episodi della nuova stagione concentra notevolmente le piste  narrative che in passato avevano evoluzioni più ampie e cadenzate.

Indubbiamente, rivedere Mulder e Scully dopo 15 anni, dopo averli cioè lasciati giovani adulti trentenni di intelligenza brillante e rincontrarli come uomo e danna maturi ultracinquantenni carichi di ricordi,  volati (o sbalzati) dal tempo di VHS, cd-rom e banali cellulari a quello di smartphone e internet di massa,  può essere un po’ straniante. Ma al di là di questo, il punto su cui ci si può brevemente soffermare a riflettere è un altro: ha senso il ritorno di X-files? Sotto certi aspetti più pragmatici, forse, si tratta solo dell’ennesima sollecitazione di nostalgia offerta per quelle generazioni di giovani di un tempo, in un mondo come quello attuale spesso timoroso di guardare avanti. Tuttavia, riuscire effettivamente a riprendere lo spirito di X-files, la sua suggestione più profonda incarnata dalla dialettica di pensiero tra Mulder, sempre pronto a valutare ipotesi e intuizioni, e Scully, costantemente fedele alle prove empiriche e alle acquisizioni della scienza, può essere ancora una esperienza interessante. L’epoca attuale della network society e della globalizzazione imperante non lesina certo spazio a sospetti di complotti e cospirazioni, di verità nascoste e possibili ambiguità della scienza, tuttavia  questi aspetti sembrano oggi più scontati e, quindi, rivedere all’opera Mulder e Scully, con il loro consueto stile, ora diventato quasi un classico, e al contempo ricordandone le vicende passate, può ridestare le idee di curiosità, confronto, paradosso. L’esercizio più proficuo di pensiero che essi possono consentire non è tanto quello di lasciarsi sedurre a credere agli alieni o a degenerazioni scientifiche e tecnologiche, o a fenomeni magico-mistici e paranormali; piuttosto il “gioco” di riflessione più stimolante, legato a molti momenti della serie, sembra essere quello del “what…if…”(“cosa accadrebbe…se…”): come saremmo se vi fossero determinate evoluzioni biomediche? Come sarebbero eventuali forme di vita aliene e come ci relazioneremmo con esse? Perché la storia, grande e piccola, come la stessa natura, prende certi sentieri e non altri, magari egualmente plausibili? Possiamo (nel senso di: è lecito) fare quello che possiamo(nel senso di: siamo in grado di) fare? Come si intrecciano destini e logiche di potere? Quanto è casuale, quanto è invece determinato? Quanto si è liberi, quanto si è solo frutto di influenze e contesti? L’uomo, in fondo, resta un essere contraddittorio e non sembra un caso se, di volta in volta, in X-files, le prospettive si capovolgono e valgono egualmente i motti, emblematici e reciprocamente antitetici, che la accompagnano: “Trust no one”(“Non fidarti di nessuno”), “The truth is out there”(“La verità è là fuori”), “I want to believe”(“Voglio crederci”).

Riattivare il discorso di X-files, allora, può essere, in qualche misura, una  occasione per considerare universi paralleli di senso, senza  dimenticare i contesti in cui ci troviamo, ma guardandoli tuttavia con più attenzione, evitando gli eccessi paranoici che a volte mostra Mulder e gli eccessi dogmatici che a volte mostra Scully. Insomma, per dirla in termini un po’ accademici e azzardare uno spunto, è, forse,  come riprendere quella tradizione ormai obliata della classica sociologia della conoscenza( di Karl Mannheim, Max Scheler, Alfred Schutz, ecc.) che oscillava, nello spiegare la realtà, tra soggettivo e oggettivo,  teoria e prassi, ideologia e costruzioni sociali.  Più in generale, del resto, nella storia del pensiero la centralità del dubbio è evidente, basti ricordare l’insegnamento cartesiano o quello dei maestri del sospetto: Karl Marx, Friedrich Nietzsche e Sigmund Freud. E come dimenticare, solo per fare un altro  esempio indicativo, il discorso della Scuola di Francoforte e segnatamente di Max Horkheimer, che coglieva come “ciò che è non è mai ciò che è compiutamente realizzato”?

Naturalmente, come ogni volta che si decide di utilizzare la riflessione sociologico-filosofica per questioni più “leggere” come i prodotti dell’immaginario, non è il caso di conferire a questi discorsi di importanza e crucialità fuori luogo: è chiaro che altri temi e altri ambiti sono quelli veramente nodali e certi problemi scientifici vanno affrontati seriamente con lo studio e non guardando una serie-tv . Semplicemente, i prodotti dell’immaginario(ossia di un aspetto dei più ampi processi culturali di una data società), possono suscitare letture e aperture non tanto per portarci, ingenuamente, a pensare cose che non esistono, ma per non farci dimenticare, più fondamentalmente, che possono esistere cose che non  pensavamo. Mulder e Scully sono parti di un immaginario, e potremo così restare a vedere se il loro ritorno sarà all’altezza del loro ricordo. Vorremmo crederlo, ma possiamo fidarci? La verità è ancora là fuori. O… no?



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