Su Bauman e dintorni

 

 

Zigmunt Bauman (1925-2017) – il sociologo polacco scomparso all’inizio di quest’anno all’età di novantadue anni – si può tranquillamente accostare a studiosi della Scuola di Francoforte come Horkheimer e Adorno, ma anche a maître à penser come Marx, Nietzsche, Freud e Heidegger. Le sue radici sono il Gramsci (e quindi anche il Nietzsche) dello Stato come apparato che domina le masse attraverso la cultura massificata, e lo Simmel (e quindi lo Hegel) della Storia intesa come incessante conflitto tra lo Spirito e le forme che esso contiene e a proposito di cui Ricoeur parlerà di conflitto delle interpretazioni.

Come Marx, Bauman smaschera la cultura neo-liberista e il capitalismo finanziario selvaggio, sebbene al tempo di Marx si trattava di un capitalismo industriale. Soprattutto egli analizza la realtà sociale nella sua dinamicità, fluidità o liquidità (cfr. Modernità liquida, 2000). La esamina sia nella sua dinamicità esteriore o sociologica, diciamo nella sua morphé – quella che si rese visibile a partire dalla fine degli anni Settanta con l’affermazione del neo-liberismo e dell’individualismo (la Thatcher aveva infatti programmaticamente affermato che non esistono classi, né partiti o società, ma esistono solo individui); sia nella sua dinamicità interiore o filosofica, nella sua psyché, ossia, per usare ancora un termine aristotelico, nel téleos proprio dell’entelécheia, cioè dal punto di vista della causa finale. Quest’ultimo aspetto riguarda le cause profonde, sostanzialmente riconducibili al progetto statunitense di adeguare il resto del mondo al modello americano. Si tratta dunque di un progetto globale, a partire da cui si è imposta e diffusa la cultura della globalizzazione, che avrà come prima conseguenza la rimodulazione di tutte le politiche e le economie nazionali. Sebbene annunciato un decennio prima, questo progetto prende l’avvio dopo il 1989, con il fallimento della politica gorbacioviana della glasnost, con il coinvolgimento di paesi canaglia come Iran e Iraq e con l’esportazione/imposizione della democrazia affine a quel modello. E ciò, fermo restando che il téleos, lo scopo ultimo di tutta questa progettazione resta quello del controllo delle fonti energetiche, il petrolio. L’89 è però soprattutto l’anno del crollo del muro di Berlino – il muri dei muri –, il quale da 28 anni forniva al mondo due visioni antitetiche, a causa di cui la seconda guerra mondiale continuava ad avere i suoi non tanto “freddi” strascichi in Corea, a Cuba, in Vietnam, per non parlare dell’Africa e del Medioriente. Il muro di Berlino era inteso, dunque, come ostacolo, come diga al nuovo progetto liberista e al suo vecchio principio del laisser faire, laisser passer. L’abbattimento del muro di Berlino costitutiva un esemplare “nulla osta” europeo per l’attuazione a livello mondiale della globalizzazione. Sicché da quel momento le culture altre diverranno sempre più solo un “intralcio” per questa liberazione globalizzante. In quest’ottica va letto Impero (2003) di Antonio Negri e di Michael Hardt. Gli anni Novanta segnano in tal senso due importanti passi in avanti per questo progetto statunitense neo-liberista e globale: l’inizio della guerra del Golfo (1990-91) – in vista di una americanizzazione del Medioriente dopo l’implosione del sistema sovietico, e il crollo delle dogane in Europa dopo gli accordi di Maastricht (1992-93) – in vista della realizzazione dell’Europa Unita, le cui radici si possono tranquillamente far risalire alla Giovine Europa di Mazzini (1834) – se non addirittura alla Nona di Beethoven (1824) e allo stesso Inno schilleriano alla Gioia del 1785.

 

Assieme a Lyotard e ad altri, Bauman è uno dei più attenti studiosi del passaggio dalla modernità alla post-modernità. La prima si può collocare alla fine del ‘600 e in ogni caso dopo la Guerra dei Trent’anni, periodo nel quale, con l’Encyclopédie e al pensiero liberale di Locke e a quello repubblicano di Rousseau, si è determinata l’affermazione della cultura e dell’ideologia borghese. La seconda si può invece far iniziare verso la fine degli anni Settanta del ‘900, con l’imporsi dell’ideologia neo-liberista della Thatcher, di Reagan. Questa ideologia neo-liberista non è altro in realtà che una riproposizione post-moderna e uno sviluppo in senso neo-capitalistico dell’ideologia borghese. Ne è una riproposizione ancora più forte e incisiva, perché si è accresciuta grazie a una ricapitalizzazione della vittoria che essa ha riportato sui valori della modernità e della solidarietà.

Modernità e post-modernità sono in ogni caso due visioni del mondo, due progetti culturali. Quello della modernità, guidato dalla ragione, aveva come compito quello di creare legami tra tutti gli ambiti del sapere umano. A tal fine sorse il razionalismo, che nella storia si è declinato come utilitarismo, evoluzionismo, liberismo, industrialismo, capitalismo. Alla base del progetto post-moderno sta, viceversa, il principio opposto, ossia quello di recidere tutti i legami razionalmente e precedentemente istituiti tra l’individuo con il proprio sé, tra individui e individui (ad esempio con l’altro da sé) e tra individui e istituzioni. Il primo progetto era teso ad alimentare la fiducia nelle istituzioni, il secondo tende scientemente a dissolverla.

Ne è scaturita una profonda solitudine, vissuta sempre più come condizione o  tonalità affettiva dell’uomo post-moderno. Per rimuovere un tale disagio esistenziale lo stesso sistema liberistico ha approntato un “proprio” phármakon, uno strumento telematico, lo smartphone. Grazie al quale solo in apparenza, ricordava già Heidegger nel 1950, nell’incipit del suo saggio su La cosa, si riducono le distanze spazio-temporali, giacché in effetti la distanza tra noi e le cose reali viene non solo accresciuta, ma viene resa anche più profonda, per non dire abissale. Con un tale isolamento, però, – ecco un altro senso del téleos insito nel progetto neo-liberista – gli individui diventano immediatamente più deboli e quindi più controllabili, specie dai servizi segreti. A tale questione Bauman dedica La solitudine del cittadino globale (2000). Che è la traduzione di In search of politics (1999), titolo che denuncia lo smarrimento della politica e che invita a mettersi alla difficile ricerca. Anche Marco Revelli, nel 2003 scriverà su questo tema un saggio davvero notevole, La politica perduta, nel quale svilupperà il problema del potere e del male attraverso le analisi e il confronto tra il Libro di Giobbe e il Leviatano di Hobbes in rapporto al neo-assolutismo di Putin.

Bauman come Marx, dunque, perché analizza il passato (cristiano-borghese), il presente (la post-modernità capitalistico-industrial-cibernetica) per trasformare il futuro in senso socialista. Bauman, inoltre, come Nietzsche, perché critica il presente (la post-modernità fondata sulla competitività neo-liberista) in vista di un Freigeist, di uno spirito libero che nel presente, però, risulta ancora inattuabile e quindi irreperibile. Bauman, infine, come Freud, perché analizza la psiche, la memoria collettiva degli uomini in questa transizione. Nella quale gli uomini non sono più forza-lavoro produttiva, ma materia destinata alla transizione e alla consunzione; non più merce utile di scambio, ma merce inutile di scarto. A questo tema terrificante della post-modernità – la quale costituisce il fallimento totale della modernità – è dedicato Vite di scarto (2004). Nel titolo originario, – Wasted Lives. Modernity and its outcasts – l’accento cade su Wasted, perché le vite in quest’epoca sono come polverizzate, calcificate, desertificate. Nel concetto viene evocato The Waste Land di Eliot. Ossia la terra d’Occidente. Quella dove è maturato nel 1916 lo scellerato patto segreto Sykes-Picot. Un’accoppiata anglo-francese che fa ricordare a quell’altra, quella wagneriana e teutonica, e quindi ancora più scellerata, formata dai due maggiori teorici del razzismo europeo,  Chamberlaine e Gobineau.

 

2. Inoltre, come si è accennato, le analisi sociologiche e filosofiche di Bauman si possono accostare anche a quelle svolte da Horkheimer e da Adorno, specialmente a quelle sviluppate nella Dialettica dell’illuminismo. In questo saggio del 1944 i due studiosi mettono in luce le contraddizioni insite nelle tesi illuministe. Grazie alla ragione, infatti, secondo gli illuministi, l’uomo si sarebbe affrancato dalle pastoie del Medioevo e si sarebbe avviato sulla via della prosperità, del progresso e della pace. Ma sia la prima guerra mondiale, con i suoi 20 milioni di morti, che la seconda guerra mondiale, con i suoi 60 milioni di morti, intese come frutto razional-industriale dell’Illuminismo, hanno spento del tutto quella cieca fiducia positivista nel progresso. “Sorti progressiste” di cui si era accorto decenni prima, come un preveggente, già il Leopardi della Ginestra. Da qui l’Eclissi della ragione Horkheimer (1947) e la Dialettica negativa di Adorno(1966), opere che esaminano ancora una volta l’ambiguità del razionalismo industriale, rivelando in particolare la funzione negativa che le macchine approntate dall’industria europea, specie quelle della morte, hanno avuto nella realizzazione della Endlölung der Judenfrage, della soluzione finale della questione ebraica.

In linea con queste analisi, in Modernità e Olocausto (1989) Bauman scrive: «L’Olocausto può essere compreso soltanto come insuccesso della nostra civiltà». Un insuccesso, cioè, «dell’attività umana (..) guidata dalla ragione». Un insuccesso nel tentativo culturale di «imbrigliare le malsane inclinazioni spontanee (corsivo nostro), di ciò che l’uomo ha ereditato dalla natura». Come sappiamo – senza rifarci necessariamente alla mitologia classica o a quella religiosa – queste malsane inclinazioni spontanee sono quelle a cui hanno posto attenzione tutti gli studiosi, dal Platone della Repubblica all’Aristotele della Politica, dall’Hobbes del già citato Leviatano e quindi dell’homo homini lupus e del bellum omnium contra omnes, al Nietzsche del dionisiaco (1872) e al Freud de Il disagio della civiltà (1929). Inclinazioni che sono state di volta in volta manifestate ed espresse nelle differenti incarnazioni del culto della “bella morte”. In una sorta di fenomenologia della morte che Domenico Losurdo ha individuato sia nella Kriegsideologie propria dell’Occidente sia in particolare nella meditatio mortis della cultura germanica. E ciò a partire perlomeno dal Vom Tod di Meister Eckhart (in cui si dice che bisognerebbe comportarsi come se si fosse già morti: wir uns verhalten sollen, als ob wir tot seien) sino al Mein Kampf hitleriano, nel quale, radicandola sull’esigenza naturale della tanto filosofeggiata lotta per l’esistenza, si parla non solo di «lotta totale tra i popoli», ma anche di un «impulso vitale e di lotta» come di un «impulso naturale» presente in ogni singolo individuo. Per attenerci all’ultima fase della modernità, possiamo cogliere quel culto della bella morte nei “proscritti”, ossia nei Freikorps, come pure nelle squadracce italiane, nelle SS, negli Einsatzgruppen, nei collaborazionisti ucraini, e perfino nei kamikaze nipponici (tanto ammirati dal Führer) e in quelli islamisti. Ciò significa, osserva Bauman, che «il grado di civilizzazione raggiunto finora non è sufficiente», e che «Il processo di civilizzazione, ancora incompleto, deve essere portato a termine» (p. 31).

In Modernità e Olocausto Bauman affronta ovviamente anche la questione relativa alla Reinheit, alla “purezza” della razza: l’elemento razziale che Hitler pone a fondamento del suo programma e che trova però già ben delineato non solo nella storia europea in generale e nei violenti scritti di Lutero sugli Ebrei in particolare, ma soprattutto nell’Essai sur l’inégalité des races humaines di Gobineau (1853-54) e nei Grundlagen des XIX Jahrhunderts (1899) di Chamberlaine. Un termine, quello di Reinheit, che condiziona anche il nostro modo di intenderlo, poiché non possiamo fare a mano di rilevare il significato ambiguo di “purezza” finanche nella kantiana Kritik der reinen Vernunft. Anche perché pýr in greco significa “fuoco”. Ecco perché nel Medioevo – come pure nella modernità – gli eretici e le opere ritenute eretiche (contrarie cioè all’ortodossia stabilita) venivano messi al rogo. E ciò al fine di purificare tutti gli altri da pericolose contaminazioni. Ma le contaminazioni, secondo Bauman, non solo non sono pericolose, non solo non si debbono evitare, ma sono addirittura necessarie e auspicabili. In un breve testo scritto nel 2014 (Scrivere il futuro) in occasione del Futura Festival di Civitanova Marche, egli parla di mixofilia in contrapposizione alla mixofobia: di amore (philos) della mescolanza in opposizione alla paura (phobos) della mescolanza.

 

3. È soprattutto in L’Europa è un’avventura, un altro saggio del 2004, ma uscito in Italia nel 2006, che Bauman affronta il problema della Mischung, della mixture. Il titolo originale era Europe. An Unfinished Adventure ed è più significativo e più pregnante di quello italiano, perché si rifà a quanto Bauman aveva già espresso quasi vent’anni prima in Modernità e Olocausto, quando diceva che «il grado di civilizzazione raggiunto finora non è sufficiente» e che «Il processo di civilizzazione, ancora incompleto, deve essere portato a termine». D’altronde anche Paul Ricoeur, in Ricordare, dimenticare, perdonare (1998), aveva detto che «bisogna compiere l’incompiuto del passato». Bisogna «fare non solo storia, ma fare la storia». E noi Italiani sappiamo bene cosa voglia dire questa insufficienza e questa incompletezza se pensiamo – come ci invita a fare l’Anpi – allo spirito della nostra Costituzione, che ancora e sempre attende di venire attuato, completato, realizzato, concretizzato. Una Costituzione che, però, ci appare sempre più, ogni giorno che passa, un governo dopo l’altro, un organismo giuridico formato essenzialmente da pure idee platoniche che nella realtà politica non hanno nemmeno delle brutte copie. Forse perché ci mancano onesti demiurghi che sappiano imitare onestamente, «con disciplina ed onore» (così suona l’art. 54) quelle idee concepite dai padri costituenti.

Anche in L’Europa è un’avventura, Bauman ribadisce che nell’epoca della post-modernità globalizzata gli esseri umani vivono come in un mondo hobbesiano: un mondo pseudo-giuridico, dove dominano la violenza e la paura, dove la competenza viene commisurata alla competizione e alla competitività e dove non c’è più spazio per la solidarietà. A causa proprio delle politiche globalizzanti che tentano di omologare ogni cultura al modello occidentale, si sono scatenate, a partire soprattutto dagli anni Novanta, quelle guerre “infinite” nei paesi islamici, guerre di cui non si sono bene valutate le conseguenze nel lungo periodo. Queste conseguenze sono molteplici e di varia natura. Vanno dall’inarrestabile flusso migratorio dei profughi (percepiti ormai solo più come scarti, come inutili eccedenze o al più come scudi umani – e il numero di quelli fin qui arrivati o annegati è ancora davvero esiguo rispetto ai milioni che attendono di mettersi incammino, specie nell’Africa sub-sahariana: ma noi non sappiamo ancora bene quello che accade agli esseri umani lungo questo loro viaggio della vita e della morte) al consueto defilarsi delle potenze da questa confusione, da questa Verwirrung che esse stesse hanno contribuito a generare. Pensiamo in primis alla Brexit. Ma molti altri Stati europei si stanno disponendo per una tale miserabile uscita. L’Olanda l’ha appena sfiorata, per un puro miracolo. Ora si attendono le presidenziali nella Francia di Marine Le Pen (il 23 aprile) e le elezioni politiche nella Germania di Angela Merkel (il 24 settembre). La quale dovrà vedersela non tanto e non solo con il socialista Martin Schultz, ma soprattutto con Alternative für Deutschland di Frauke Petry, un partito di estrema destra in continua crescita. Poi toccherà anche a noi. Non si sa ancora quando andremo a votare. Una legge elettorale ancora non c’è, anche se questo governo Gentiloni (nato dopo il 4 dicembre, dopo la batosta ricevuta da Renzi al referendum costituzionale) è stato messo su proprio per fare questa legge. In ognuna di queste importanti e imminenti chiamate alle urne si teme, come è avvenuto nelle recenti amministrative in America, l’ingerenza della Russia di Putin, il quale insieme a Erdogan e Trump, dice Habermas, costituiscono un nuovo ordine totalitario del mondo e soprattutto antieuropeo. Si pensi poi, in merito alle responsabilità degli occidentali, anche alla recente confessione dell’ex premier laburista Tony Blair. Egli se l’è cavata di recente (nel novembre 2015) con un incredibile I am sorry (“mi dispiace”) per il disastro che ha combinato con il dare inizio allegramente nel 2003, insieme a Bush, fraudolentemente, la guerra in Iraq. Madre di tutte le guerre ancora in atto oggi, e non solo nella zona. Specie quella condotta dal sedicente Stato Islamico. Certo, il crollo delle torri gemelle (l’11 settembre 2001) è stata una vera e propria sfida all’Occidente, al Far West, poiché è stata arrecata un’offesa profonda all’immagine patinata e virginea dell’Impero del Bene (diceva Baudrillard in Power Inferno). Ma, da che tempo è tempo, la storia ci insegna che da ogni crisi economico-finanziaria si esce con una nuova guerra, perché oltre al mercato delle mele e delle auto c’è anche il mercato delle armi, con tutto l’indotto. La Brexit, in ogni caso, sta creando una duplice frantumazione: quella interna al Regno Unito e quella in seno all’Europa Unita. Per questioni diverse, sia l’Irlanda, il Galles e soprattutto la Scozia, si muovono in opposizione all’Inghilterra, perché vogliono restare in Europa. In Europa, invece, come si è già accennato, in ragione della presenza dei migranti e dei problemi che essi pongono in tema di sicurezza, molti Stati di stanno già attrezzando, cominciando, ad esempio, ad erigere muri e barriere di ogni tipo, come in Ungheria.

Ora, secondo Bauman – che come Habermas è tutto sommato ancora fiducioso in un’Europa Unita – da questa specie di diffidenza si può uscire facendo appello a quella che è la storia antica dell’Europa: rifacendosi ad esempio al modello utilizzato dall’Impero Romano. In esso, dice Bauman, gli uomini europei hanno imparato l’arte della convivenza con il vicino, con il prossimo. Anche il protocristianesimo paolino, nel I sec., aveva indicato l’agape come l’unico modo in cui è possibile amare il plesios, il proximus. Un amore analogo – dice ad esempio Cacciari nel suo scritto sulla Drammatica della prossimità, in Ama il prossimo tuo (il Mulino, 2011) – a quello con cui Gesù ama il suo nemico. E se l’agape è per il plesios, per il prossimo, l’amore per Dio è per l’egghýteron, per il più prossimo. Ma come la prossimità del prossimo, del plesios presuppone sempre una certa distanza, che si tenta sempre di colmare, così pur essendo Dio vicinissimo a noi (senza tuttavia accorgercene) egli si mantiene sempre nella trascendenza, in una distanza assolutamente incolmabile.

Tuttavia, per recuperare quell’arte della convivenza, osserva ancora Bauman, occorre abbandonare il modello della «sovranità westfalica» – ossia quella che si era imposto dopo la pace di Westfalia, nel 1648, alla fine della Guerra dei Trent’anni, con gli Stati che continuavano ad attaccarsi per la supremazia, per l’espansione e la difesa del territorio e per garantirsi le materie prime a danno degli Stati più deboli, oltre che delle colonie, naturalmente. Benché il nostro presente vanifichi in toto l’idea della pace perpetua kantiana, è comunque verso la kantiana allgemeine Vereinigung der Menschheit, cioè verso la generale unificazione dell’umanità, che si deve tendere, auspica Bauman, in modo da aprirsi, dirà a sua volta Hannah Arendt a «gruppi di popolazioni miste». Occorre, suggrisce Bauman, superare l’attuale antinomia dell’Europa, irrigidita e immobilizzata dalla contraddizione che vede da un lato la «logica dell’arroccamento locale» e dall’altro la «logica delle responsabilità e delle aspirazioni». Entrambe queste logiche antinomiche sono vere e fondate (direbbero Kant e il buon Kierkegaard), ma bisogna pur arrivare a una conciliazione, a un superamento oggettivo e condiviso, a una sorta di Aufhebung hegeliana, e ciò si può fare cedendo o, meglio, con-cedendo un po’ di sé da entrambe le posizioni. Da un lato abbiamo i governi che intenzionalmente si impegnano a realizzare l’utopia o – come la chiama la Presidente Boldrini – l’eutopia dell’Unità europea, dall’altra abbiamo la resistenza delle abitudini locali, stimolate dalle nazioni euroscettiche come Regno Unito, Ungheria, Polonia, Austria, Slovacchia. Da un lato abbiamo i paesi che sono per l’exit, dall’altra quelli che sono per restare nella Ue. Non tenendo conto, osserva Bauman, che da tempo la realtà ci parla già a chiare lettere di inclusione e di mixophilia; una realtà che è fatta già di promiscuità, di Mischung, mescolanza, meticciato. Questo tipo di naturale mescolanza si può notare, ad esempio, ogni estate lungo alcuni tratti di spiagge libere in Liguria, allorché lavoratori e lavoratrici sudamericani, indocinesi e dell’est Europa si incontrano e si mischiano amichevolmente in mezzo a mille colori. A tal riguardo si può dire che la realtà, come la tartaruga di Zenone, è sempre più avanti rispetto alla politica e alle leggi che essa stenta ad approvare, per quanto questa politica si presenti all’insegna della velocizzazione cibernetico-telematica. Per poter ammorbidire l’antinomia di queste due logiche, Bauman propone la traduzione, la diffusione e la conoscenza della letteratura di tutti gli Stati membri dell’Eu, perché in essa, afferma, è contenuta «la parte più pregiata dell’esperienza e del pensiero di ogni nazione dell’Unione Europea». E come non dargli ragione, se pensiamo ad esempio almeno a tre dei sei Paesi fondatori dell’Europa Unita (Italia, Francia, Repubblica Federale Tedesca, Belgio, Olanda, Lussemburgo)? Se pensiamo a Christenheit oder Europa di Novalis (1799), ai Poemetti o allo Spleen di Parigi di Baudelaire (1855-1864) e soprattutto a I doveri dell’uomo di Mazzini (1860)? «Secondo i calcoli degli storici contemporanei – osserva in ultima analisi Bauman in Scrivere il futuro – (..) sono stati circa sessanta milioni gli europei emigrati dall’Europa in altri continenti nel corso del XIX secolo e al principio del secolo seguente». Sicché, quanto al fenomeno migratorio, oggi «gli europei si trovano a sperimentarlo nella stessa condizione e nello stesso ruolo che ebbero [ad esempio] nel XVIII e nel XIX secolo gli indiani d’America».


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