Zygmunt Bauman ha esplorato con acume le dinamiche fondamentali del nostri tempo e della società in cui viviamo. In particolare, il suo nome è legato alla metafora della liquidità, concetto che ha coniato per descrivere la condizione dell’ultima modernità (Bauman, Modernità liquida, Laterza 2002). Senza alcuna pretesa di esaustività, proviamo ad avanzare alcune riflessioni su questo concetto a partire da una prospettiva generazionale (ce ne potrebbero essere molte altre, intrecciate ma non sovrapponibili, ad esempio la prospettiva basso reddito/alto reddito, oppure bassa protezione/ alta protezione).
La modernità liquida sta ad indicare una forma di individualismo estremo, fondamentalista. Un tipo di modernità privatizzata, in cui l’onere di costruire un progetto di vita e la responsabilità di un eventuale fallimento ricadono soltanto sull’individuo. I vincoli relazionali si sciolgono e gli individui diventano propriamente tali. Come diceva Thatcher, esponente autorevole della politica neoliberista, “la società non esiste, esistono solo gli individui”. In un mondo liquido (o liquefatto?) le persone si emancipano dalla società, rendendosi libere da qualsiasi tipo di catena che impedisca od ostacoli i movimenti, ampliando la propria libertà di agire. Per lo spirito dei tempi non è importante ancorarsi in un posto: sovraccaricare il legame con un coinvolgimento reciprocamente vincolante può essere dannoso qualora spuntassero nuove opportunità.
Ma la liquidità, se non si limita ad interpretare una dinamica sociale degli ultimi decenni ma viene intesa come principio e spiegazione unica della realtà rischia di trasformarsi, parafrasando Hegel, “nella notte in cui tutte le vacche sono nere”. Soprattutto in rapporto ad una società (ancora) duale come quella italiana. Infatti esiste una grande contraddizione, soprattutto in Italia, fra chi è estremamente “liquido” e chi non lo è, fra chi è acqua e chi è scoglio, fra chi è mare e chi è terraferma. La liquidità è una forma di individualismo che non riguarda tutti nello stesso modo. In Italia, vediamo rapportarsi (e scontrarsi in maniera più o meno latente, basti pensare al successo che ha avuto in politica lo slogan della rottamazione di renziana memoria) due modalità di vita assai diverse e per molti aspetti contrapposte: pensioni retributive contro piani pensionistici integrativi, contratti a tempo indeterminato contro stage di sei mesi, radicamento nelle istituzioni politiche ed economiche contro precarietà ed emigrazione, partiti ed organizzazioni tradizionali contro movimenti di varia natura e social network. In estrema sintesi: solidità contro liquidità. Da una parte i padri, che conservano le sicurezze che sono riusciti a conservare dal mondo e dal tempo da cui provengono. Dall’altra parte i giovani: se la quintessenza della modernità che viviamo è la liquidità, allora i giovani ne sono la massima espressione. Leggeri e non strutturati. Diversamente da un corpo solido, non riescono sostenere una forza tangenziale o di taglio. I giovani sono un corpo sul quale è stato facile negli ultimi anni affondare i denti. Autenticamente liquidi, i giovani si adattano alle condizione che sono loro poste.
Il percorso storico lo ha spiegato Mauro Magatti nel suo La grande contrazione (Feltrinelli 2012): sono due i filoni che, apparentemente in contrasto tra loro, hanno riempito l’orizzonte culturale, sociale e politico attualmente dominante. Il primo fenomeno è stato la protesta studentesca scoppiata nella primavera del ’68. I giovani di allora, spesso studenti delle università più prestigiose, futura classe dirigente, scesero in piazza per affermare un’idea assoluta di autodeterminazione e il rifiuto verso ogni forma di vincolo relazionale, di coercizione sociale ed istituzionale. Negli anni seguenti questo atteggiamento ha travalicato i circoli giovanili e ha contagiato tutte le età e gli strati sociali, permeando di sé l’intera società e rinnovandone la natura. I valori e le istituzioni tradizionali, con la loro solidità, diventavano intollerabili: per fuggire da quel senso di soffocamento dato dall’ordine sociale e dal benessere meramente materiale si fece largo la richiesta di potersi esprimere con maggiore libertà, avanzando una fortissima domanda di soggettività. L’Io diventava così centro, ombelico, metro di misura del mondo non solo interiore ma anche della vita associata.
Il secondo fenomeno è generalmente percepito come di destra: il neoliberismo. Nato nella seconda metà degli anni Settanta in ambiente anglosassone, ha ripreso la scuola di pensiero liberista in polemica con l’ipertrofia degli apparati statali. Secondo questa prospettiva, nate per difendere la libertà e i diritti dei cittadini, le istituzioni pubbliche hanno finito, con il loro carico burocratico e con le loro staticità, per comprimere lo spazio di azione degli individui, al punto di
diventare soffocanti. Basandosi sul (falso) presupposto secondo cui solo la scelta che nasce e muore nell’Homo oeconomicus possa soddisfare la natura libera (ma relazionale) dell’essere umano, il progetto è stato quello di ridurre drasticamente la presenza dello stato e delle organizzazioni collettive. Il mercato deregolamentato diventa il luogo per eccellenza della libera intraprendenza degli individui (da qui anche lo sfarinamento dello stato, registrato anche da Bauman con Carlo Bordoni in Stato di crisi, Einaudi 2015). L’ideale dell’Homo oeconomicus, quadro di riferimento del pensiero economico neoliberista, un individuo razionale, egoista, che nutre un interesse esclusivo per la cura dei propri interessi individuali, che cerca sempre di ottenere il massimo vantaggio per sé stesso, che quindi basta a se stesso, diventa il simbolo di un nuovo modello sociale dominato dall’emancipazione dalle norme sociali e dalle istituzioni politiche, quindi simbolo della “liquidità”.
Questi due macro-movimenti, il sessantotto ed il neoliberismo, hanno dato i loro effetti gradatamente, nei decenni successivi, in maniera lenta ma fino ad ora quasi inarrestabile, costruendo una formidabile operazione di promozione della libertà soggettiva: una vera e propria manovra a tenaglia ai danni delle più varie istituzioni collettive, dalla scuola ai partiti, dallo stato ai sindacati. Il sessantotto e il neoliberismo sono state fra le maggiori innovazioni culturali del Novecento, hanno sciolto incrostazioni sociali ormai intollerabili, hanno creato anche occasioni di sviluppo. Hanno liberato la società da gerarchie inadeguate e violente, da un’idea di autorità disciplinare e repressiva, del prolungamento a volte inefficace dei poteri dello stato.
Tuttavia hanno inaugurato un mondo nuovo liquido e, fra i vari effetti che non approfondiamo qui, una cesura fra le due generazioni che vivono in questi anni: fra quella dei padri e quella dei figli. Fra la generazione che conserva parte rilevante della solidità del mondo precedente, che mantiene ancora una condizione di relativa sicurezza permessa dalla vischiosità del mondo passato, delle sue norme e delle sue forme, e la generazione che invece si è ritrovata liquida, mobile, flessibile ma senza protezione, scoperta, autentica erede dei movimenti sopra citati.
Questo dualismo delle condizioni e delle società è ad esempio facilmente riscontrabile nel mercato del lavoro italiano (e non solo) da molti anni, tanto da spingere il giuslavorista Pietro Ichino (Inchiesta sul lavoro, Mondadori 2011) a parlare di aparthaid. Attualmente sono due i mercati del lavoro, non solo distinti ma sempre più separati. Da un lato quello dei padri, tutelato, sindacalizzato, protetto, stabile, basato sul modello del contratto a tempo indeterminato, tanto regolato da risultare spesso sovrabbondante di lacci e laccioli. Il secondo caratterizzato da tutto il peso della flessibilità, della mobilità, della precarietà, della liquidità lavorativa. Alla progressiva e sempre più forte erosione dell’ambito del lavoro stabile tradizionale, che ormai raggiunge solo una quota residuale dei nuovi occupati, ha corrisposto la creazione di un mercato del lavoro parallelo, strutturalmente precarizzato e sottratto al sistema legale di protezione, nel quale oggi rischiano di rimanere confinate intere generazioni di giovani lavoratori. La cifra decisiva di questa condizione di apartheid è in primo luogo la sua tanto palese quanto drammatica iniquità generazionale: a rimanere definitivamente catturati nelle maglie della precarietà sono soprattutto i lavoratori più giovani, quelli entrati nel mercato del lavoro negli ultimi dieci-venti anni. Schemi contrattuali che nelle intenzioni dei loro proponenti dovevano funzionare come strumenti di incentivazione e accompagnamento verso il lavoro stabile e regolare (in una economia che si presupponeva in continuo sviluppo), si sono trasformati di fatto in recinti e barriere invalicabili, percepiti e sofferti dalle persone come un vero e proprio ghetto.
Parliamo del mondo del lavoro per la chiarezza con cui si manifestano agli occhi i fatti, ovviamente, non certo perché manchino altri esempi che rafforzino l’idea di questo dualismo. Si pensi alla composizione della spesa sociale. L’Italia, si legge nel rapporto Society at a glance 2016 dell’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico di Parigi, è al quarto posto nell’Ocse per quanto riguarda la spesa complessiva in protezione sociale pubblica, pari al 29% del Pil contro una media del 22% per i Paesi industrializzati. Ma a fare la parte del leone sono gli assegni alla popolazione anziana. L’Italia infatti spende il 16% del Pil per le pensioni, quota che la posiziona al primo posto tra i 35 Paesi membri dell’Ocse. In compenso fa poco per i giovani adulti. Il sostegno per la casa e la famiglia, settori che vedrebbero come beneficiari soprattutto le giovani generazioni, è molto basso, a tratti inesistente: l’Italia, ad esempio, stanzia sulle politiche per la casa una quota irrilevante (0,0%), e per il sostegno alle famiglie (1,4% del Pil) una quota inferiore a quella di Germania (2,2%), Francia (2,9%) e Gran Bretagna (3,8%).
Mentre la disoccupazione giovanile si attesta a quasi al 40%, contro una media su tutta la popolazione del 12%, mentre il numero dei Neet in Italia è inferiore, nei paesi Ocse, solo al numero dei Neet in Turchia, la spesa sociale rimane nettamente sbilanciata a favore delle generazioni mature e gli ammortizzatori sociali rimangono sostanzialmente riservati al rapporto di lavoro “tradizionale”: spesso chi è giovane e precario non ha diritto a nulla. Mentre la solidità dello stato, seppur a fatica, continua ancora a proteggere parti rilevanti della popolazione, i giovani navigano nella liquidità, senza base di appoggio se non quella della propria intraprendenza (o fortuna) individuale. Non meraviglia che, in questa situazione, le giovani generazioni si trovino ad appoggiarsi fortemente alla famiglia di origine, che costituisce il loro unico “ammortizzatore sociale”, uno dei pochissimi salvagente a cui aggrapparsi nel mare della liquidità, aumentando fra l’altro le storture date dalla “lotteria sociale” di essere nati nella famiglie “giuste” in assenza di meccanismi adeguati di redistribuzione delle opportunità (Honsell, Giacomini, Prima che sia domani, Mimesis 2014). Non meraviglia nemmeno che movimenti d’indignazione come il M5S abbiano dimostrato una certa capacità nell’intercettare rilevanti quote di consenso giovanile. Porre il tema del reddito di cittadinanza, ad esempio, è null’altro che un tentativo di superare un’idea di welfare di tipo fordista, basato sul lavoro dipendente e a tempo indeterminato (mobilità e cassa integrazione), per avvicinarsi ad un modello più vicino alle esigenze di una moltitudine di precari.
La metafora della liquidità, in una società (ancora) duale come quella italiana, appare quindi solo in parte applicabile e finisce per interrogare la politica. Finita la fiducia in una protezione proveniente dalla solidità della comunità, dello stato, del sistema, sembra che le giovani generazioni o non si riconoscano più nei partiti tradizionali e quindi non partecipino, oppure finiscano per sostenere movimenti d’indignazione che provano, a loro modo, con fatica e non senza contraddizioni, a sperimentare. Le domande centrali, quindi, diventano: come temperare questo dualismo liquidità/solidità? Come superare condizioni di iniquità fra generazioni? Come recuperare gli aspetti positivi di un mondo solido in una modernità liquida?
Sono domande politiche. Il problema è che, per avanzare nuove strategie, per aggiornare l’attuale orizzonte culturale e sociale, è necessario farlo sul piano collettivo, perché quello individuale è limitato per definizione e non permette una condivisione tale da dare vita ad una visione del mondo rinnovata. Ecco il motivo delle difficoltà di innescare autentici processi di riforma: in un mondo liquido mancano i presupposti culturali e sociali per gestire collettivamente e politicamente la natura di questo mondo, e correggerla dove necessario, e rinnovarla e farla propria. Come lo possono fare i giovani, vista l’erosione dei valori collettivi e politici di cui invece avrebbero assoluto bisogno? Le forme di azione collettiva tradizionali sembrano evaporate, smarrite, non si trovano più, sembrano non fare più parte del vocabolario dei giovani. Sono state sotterrate dai loro padri: la generazione che, facendo ricorso a forme d’azione collettive e politiche, ha compiuto il grande trapasso verso un modello di vita individualista e quindi sostanzialmente apolitico. Bella contraddizione: il sessantotto e il neolibersimo, seppur in origine politici e collettivi, hanno ristretto di fatto la possibilità futura di crearne nuovi. Questi movimenti sono nati politici e collettivi, ma veicolando dei contenuti che negano la propria natura sociale e relazionale, ovvero proponendo uno spirito dei tempi il cui baricentro è quella forma solipsistica di libertà che è la soggettività individuale. Uno spirito dei tempi così costituito ha un primo, essenziale esito: corrode le fondamenta (come la liquidità può avere delle fondamenta?) dell’avvento di un nuovo processo storico-politico, la cui forza non può consistere in una mera somma di individui divisi e distanti, da una moltitudine, bensì in un gruppo di persone consapevole di se stesso e coeso.
Quanto durerà questa fase? Nessuno lo sa ancora. Il paradigma della liquidità, soprattutto per quanto riguarda alcuni pilastri su cui si regge come il neolibersimo e la globalizzazione, mostra segni di mutamento attraverso fenomeni politici fra cui ricordiamo Brexit, l’elezione di Trump e in generale la crescita di movimenti sciovinisti, di indignazione o di sinistra populista. Speranze si mescolano a grandi preoccupazioni circa gli esiti di questi smottamenti politici. Ma siamo comunque lontani da un “nuovo mondo”. Per salvarsi dalla liquefazione, insomma, la ricetta ancora non c’è. Si parte dalla consapevolezza che per operare nel mondo (anziché essere da questo manipolati) occorre conoscere come il mondo opera. E dall’urgenza di interrogarsi su una società (parzialmente e iniquamente) liquida che, per essere compresa e forse superata, necessita un nuovo sforzo di tipo sia culturale sia politico.