Recentemente è uscito un libro di Mattia Ferraresi dal titolo La febbre di Trump. Un fenomeno americano. Solo “americano”? E se fosse invece che l’avventura politica di Trump riguarda direttamente anche noi europei? Per provare a rispondere, è bene chiedersi: da dove nasce il “fenomeno”Trump? In un libro utilissimo appena pubblicato da Mimesis, Perché vince Trump. La rivolta degli elettori e il futuro dell’America, Andrew Spannaus sostiene che Trump è “la risposta al disagio profondo dell’America lasciata indietro da un mondo globalizzato in cui il lavoro manifatturiero va nei Paesi poveri, e la crescita dei servizi divide la società tra abbienti e quelli che fanno fatica ad arrivare alla fine del mese” (p. 17). Difficile dargli torto. È evidente che, agli occhi di un numero crescente di cittadini, la democrazia (non solo americana) sembra sempre meno in grado di mantenere le sue promesse e che Trump dà voce a chi si sente trascinare nel vuoto della mancanza di lavoro e di futuro. È questa disillusione a portare molti elettori delusi o impauriti a prestare ascolto alle promesse fraudolente di chi promette risposte semplici a problemi complessi – e cioè i populisti al di là e al di qua dell’Atlantico. Si è detto anche che Trump è un repubblicano senza essere un conservatore. Tanto è vero che lui stesso rivendica questa singolare particolarità, al punto da presentarsi come un personaggio dai mille volti, incoerente e contraddittorio, ma gradito a una parte degli americani proprio perché spiazzante. Lo stesso motivo per cui è invece sgradito all’establishment, al “sistema”. Ora, è probabile che la proverbiale incoerenza di Trump vada letta all’interno dell’atteggiamento anti-intellettuale che caratterizza il populismo e che proprio questo aspetto sia quello che ci riguarda, noi europei, più da vicino.
È però necessario intendersi su che cosa sia il populismo. Non basta essere critici delle élite per essere populisti, perché è verosimile che in questo caso lo saremmo quasi tutti. C’è però un tratto rivelatore: i populisti sostengono di essere loro, e soltanto loro, a rappresentare il popolo. Questa pretesa di rappresentanza esclusiva non poggia su basi fattuali, ma è sempre di natura specificamente morale. Il resto del mondo politico non è che un’espressione della élite immorale e corrotta, o almeno così affermano i populisti quando corrono per conquistare il potere perché, una volta raggiunte le leve di comando, tendono a non riconoscere alcuna legittimità ai partiti di opposizione. La logica del populismo implica che critici e avversari non siano realmente parte integrante del ‘popolo’. Ai populisti non basta affermare: siamo il 99%. Ciò che affermano è invece: siamo il 100%. In un comizio elettorale Trump si è lasciato andare a una affermazione, in questo senso, profondamente rivelatrice, quando ha dichiarato che “la sola cosa importante è l’unificazione del popolo – perché le altre persone non significano nulla” (“the only important thing is the unification of the people – because the other people don’t mean anything”).
L’idea convenzionale che i populisti vogliano portare la politica più vicina alla gente o che si battano per la democrazia diretta non potrebbe essere più sbagliata. Essi affermano di essere i soli che si preoccupano della “volontà del popolo”, ma sono in realtà scarsamente interessati a un processo aperto, bottom-up, in cui i cittadini discutono questioni politiche. Ciò che ritengono essere l’autentica volontà popolare non è che il precipitato di un senso comunerancoroso e astioso in cui si riassumono gli umori e le paure di chi è spaventato dalla perdita di controllo sulla propria vita. Quel che è peggio, “la volontà popolare” della quale i populisti proclamano di essere i fedeli esecutori – negando, in questo senso, il loro stesso ruolo di leader e anche la loro stessa responsabilità politica – è una finzione. Perché, com’è evidente, non esiste una sola volontà politica, per non parlare di una sola opinione politica, in una democrazia moderna, complessa e pluralista. I populisti metteono le parole in bocca a quella che è, dopo tutto, una loro creazione: la finzione di un popolo omogeneo che si trova invariabilmente dalla parte giusta. E poi proclamano, come Trump, “Io sono la tua voce”.
Questa scissione tra i cittadini di una democrazia e “la gente comune” spiega perché i populisti mettano così frequentemente in discussione i risultati delle elezioni quando non sono loro a vincerle (il che, dopo tutto, sembra falsificarne la presunzione di essere gli unici ed esclusivi rappresentanti legittimi del popolo): i populisti vengono sconfitti soltanto se alla “gente comune” è stata negata la possibilità di esprimersi. Proviene da qui la sindrome del complotto: se le élite corrotte riescono a mantenere il popolo in una condizione di subordinazione è solo per effetto di trame e macchinazioni ordite dietro le quinte. Prima che Trump riuscisse ad assicurarsi la nomination repubblicana, non ha mancato di alludere a fenomeni di frode e ha ripetutamente cercato di screditare la vittoria di Hillary Clinton nella eventualità di una sconfitta alle elezioni di novembre. Il che significa: se il politico che parla a nome del popolo non vince, ci deve essere qualcosa nel sistema che altera, ostacola o manipola la volontà popolare.
In una democrazia, i politici populisti non sono come gli altri politici. Non perché siano in qualche modo più vicini alla “gente”, né perché si oppongono alla democrazia rappresentativa in nome della democrazia diretta. Non c’è nulla che non vada nel sistema della rappresentanza, poiché sono essi stessi ad autoinvestirsi del ruolo di ‘autentici’ rappresentanti della gente comune. Per questo è difficile criticare i politici populisti rimproverando loro di avere passato, come è spesso il caso, tutta la vita in parlamento, o di non essere, come Trump, esattamente assimilabili all’“uomo della strada”. La vera differenza è che i populisti negano, o desiderano cancellare, il pluralismo che caratterizza le società contemporanee. Quando dicono uguaglianza intendono identità, tra il Sé dell’Eletto e la totalità della nazione. Si tratta di un processo che allude a una democrazia dell’identità e non della rappresentanza democratica: identità di Stato e popolo, di governanti e governati, di legge e volontà popolare.
Che cosa significa tutto ciò? È certamente preoccupante che i populisti mettano in dubbio i risultati elettorali. Ma questo potrebbe anche portare a concludere che i populisti vivano in una sorta di mondo politico parallelo e che siano perciò destinati a fallire una volta messi alla prova. Molti osservatori pensano che i populisti propongano delle ricette semplicistiche destinate rapidamente a rivelarsi inattuabili, o anche che i populisti, in fondo, abbiano in realtà paura di vincere, perché consapevoli della distanza tra demagogia e realtà. Una certa prospettiva convenzionale vuole che i partiti populisti siano principalmente partiti di protesta e che la protesta non può governare, dal momento che non si può, ovviamente, protestare contro se stessi: l’antipolitica non può mettere in atto politiche realmente praticabili. L’idea che i populisti, una volta al potere, siano condannati a fallire può sembrare confortante. Ma è anche un’illusione, perché ogni eventuale fallimento può sempre essere attribuito alle élite che manovrano da dietro le quinte. Si tratta di una eventualità già sperimentata. Molti vincitori populisti continuano ad atteggiarsi a vittime e le maggioranze a minoranze maltrattate. Ma ancora più preoccupante è il fatto che quando i populisti riescono a godere in parlamento di una maggioranza sufficientemente ampia cercano di edificare regimi che della democrazia conservano soltanto l’involucro esteriore, ma che mirano in realtà a perpetuare il potere di chi si è autoattribuito il ruolo di autentico rappresentante del popolo. Si pensi all’Ungheria e alla Polonia per trovare degli esempi recenti. Questa strategia per consolidare o addirittura per perpetuare il potere non è esclusiva dei populisti, naturalmente. Ciò che i populisti hanno di specifico è che possono intraprendere apertamente la colonizzazione dello Stato: perché il popolo non dovrebbe prendere possesso del proprio Stato per il tramite di coloro che ne sono i soli legittimi rappresentanti?
Come si dovrebbe, allora, rispondere al dilagare del Occidente? Per cominciare, sarebbe opportuno deflazionare il termine “populismo”. Non vi è alcun motivo per mettere Sanders, Corbyn, Syriza e Podemos e il MoVimento 5 stelle nella stessa categoria di Trump, Farage e Erdogan – solo questi ultimi sostengono di possedere la rappresentanza esclusiva della gente comune, mentre i primi sono solo tentativi più o meno plausibili di reinventare la democrazia sociale. In secondo luogo, si dovrebbero definire i populisti per quello che sono: un pericolo per la democrazia e non un correttivo capace di arginare lo strapotere delle élite. Questo non significa che si dovrebbe evitare di affrontarli politicamente: parlare con i populisti non è lo stesso che parlare come i populisti. In caso contrario, si finisce in una situazione paradossale: perché i populisti sono escludenti, dovremmo escluderli a nostra volta; perché demonizzano gli avversari, dovremmo demonizzarli a nostra volta. Invece, bisognerebbe ammettere che alcune delle loro richieste possono essere giustificate. Per esempio, il deterioramento dello status sociale ed economico che ha colpito la classe media americana, colpita dal peggioramento della propria vita e contagiata dall’incertezza circa le proprie prospettive di vita, non è una invenzione – si tratta di un problema che, anche nella eventualità di una sconfitta di Trump a novembre, continuerà a incombere sullo scenario politico-sociale americano. È perciò corretto bollare le promesse di Trump e dei suoi equivalenti europei come “sogni da allucinazione” o come “inganni da illusionista”. Ma fino a quando ai cittadini verranno richiesti sacrifici continui in vista di benefici assolutamente incerti, uomini come Trump avranno vita facile. E, anche in caso di una sua sconfitta, ne spunteranno altri, pronti a lanciare invettive e insulti ai nemici di sempre e a servirsi delle istituzioni democratiche per attaccare quel che ne resta.