Anche se la prudenza consiglierebbe di non precipitarsi a scrivere di questo piccolo grande “caso”, mi sembra veramente impossibile non farlo. Dopo la levata di scudi contro gli spot pro fertilità del ministro Lorenzini, i nuovi agghiaccianti opuscoli sostitutivi sembrano rientrare nella tipica fattispecie “pulisco la macchia di vino sulla tovaglia strofinandola un po’ con la merda”.
Come si può vedere, l’opuscolo reca una splendida doppia coppia eterosessuale “buona”, opposta a un nero, una donna solitaria e un tizio che si fuma un bong, che sarebbero i “cattivi compagni” da abbandonare. La cosa sarebbe semplicemente ridicola, o normalmente idiota – un po’ come i manifesti di qualche anno fa sulla violenza sulle donne che coprivano il volto dell’uomo con una pecetta nera su cui c’era scritto “la violenza ha mille volti: impara a riconoscerli” – se qui non fossero in gioco ben altro che il semplice razzismo e la becera stupidità. Da questo opuscolo traspare allo stato puro l’istanza normalizzante, normalizzatrice e selettiva che il sapere medico rappresenta nella nostra società, illustrata in maniera ancor più chiara che in un corso di Michel Foucault.
Non credo affatto di star esagerando, anzi, credo che la cosa sia appena iniziata, e credo che l’eugenismo non si faccia soltanto coi forni, ma anche coi guanti bianchi della politica. Parlo ovviamente dell’eugenismo culturale, dell’omologazione sistematica di qualunque stile di vita che non sia quello dominante – edonista e utilitario – alla malattia, alla follia e alla perversione. L’opuscolo dice, in ultima istanza: “se non vuoi essere sterile conformati a uno stile normale”, uno stile e una normalità dai tratti inequivoci, quelli del bianco felice eterosessuale monogamo e palesemente benestante. Questa immagine è il feticcio, l’essenza prima neo-platonica del bene, cui ogni essere meno perfetto della rigorosa gerarchia deve tendere il più possibile; sarà infatti in base a quanto bene “tende” a ciò che non potrà mai essere che verrà giudicato buono o cattivo.
La campagna per la fertilità del governo era forse partita coi migliori propositi, e a mio avviso non aveva di per sé niente di necessariamente negativo per tutta una serie di ragioni (non ultima quella per cui avere figli ti costringe effettivamente a essere un po’ meno choosy, come diceva la nostra cara vecchia Elsa Frozen Fornero). Dirò di più, la levata iper-irritata di scudi contro l’invito a fare figli in un età appropriata mi aveva quasi infastidito, mi era parsa – francamente – un po’ borghese. Ma il capolavoro di questo opuscolo è totale. Credo sia impossibile, per chiunque lo osservi per più di un secondo, non percepire il nemmeno troppo segreto auspicio che entro qualche decennio la nostra società possa essere composta di piccoli cloni della Lorenzin.
Questa gente, pagata con le nostre tasse, non si rende conto di essere – insieme forse ad ancora un altro milioncino scarso di benestanti – già la minoranza, da tempo (se non da sempre). Forse queste persone proprio non si rendono conto che le cattive abitudini, per qualcuno che lavora in fabbrica otto ore al giorno, che fa lavori automatici o stressanti, o che è disoccupato suo malgrado, sono un modo di sostegno nella vita e persino un luogo di incontro e di vera socialità che restano senza pari nel mondo dei “normali”. Un modo di sostegno nella vita che certamente non scomparirà sotto la minaccia di un danno potenziale alla salute, o di una pedagogizzazione nazi-paternalista.
Ma soprattutto, al fondo di tutto questo c’è la domanda fondamentale: “perché vivere ottanta anni invece che sessanta dovrebbe essere una cosa così mostruosa?”. Se è ovvio infatti che vivere sani e a lungo sia preferibile, è altrettanto ovvio che non si ha poi così tanta paura di morire quanto si sente di aver fatto quel che si doveva fare nella vita, e che a volte per fare quel che si deve fare si devono accettare danni “collaterali” alla salute. Ad esempio, ogni forma di abuso (di alcol, di sesso o di droghe) rappresenta per molte persone un momento di evasione fondamentale, necessario, senza il quale sarebbe letteralmente impossibile sopportare con gioia e persino con amore le fatiche e gli stress della vita quotidiana.
La verità è che per il nostro sistema di valori la longevità è un valore in sé, ed è sinonimo anticipato di fertilità, di sanità mentale, e persino di una corretta moralità. Pensiamo solo per un istante a quanto tutto questo avrebbe potuto apparire ridicolo ad altri popoli, o in altri momenti della nostra storia: per millenni, e fino all’altro ieri, gli uomini hanno vissuto la loro vita per degli scopi, tra cui rientra certamente l’allevamento dei figli, ma anche la costruzione di opere comuni, o la difesa/conquista di territori… che cosa penserebbero di noi i nostri progenitori nell’apprendere che concepiamo l’avvento di un figlio come un premio di produzione da concedersi dopo che si è “realizzati”, o che il nostro primo morboso obiettivo è quello di riuscire a diventare vecchi o vecchissimi? Cosa penserebbero di noi sapendo che disprezziamo chiunque ci appare, anche solo vagamente, saltuariamente o provocatoriamente come qualcuno che fa della sua vita qualcosa di diverso da un puro, volgare e meschino sforzo di autoconservazione.
In questo opuscolo la battaglia tra normali e anormali è immortalata, dipinta, al di fuori di ogni metafora: tra cent’anni forse la ritroveremo nei libri di storia. Non si tratta davvero di politiche procreative, né di questioni di salute, si tratta di un mondo (che sta morendo) contro un altro (incapace di riconoscersi); di una forma di vita che appassisce, contro un’altra che ad oggi ha ancora troppa paura per creare e incarnare nuovi valori; di una classe, sempre più in preda al panico, contro un’altra che non ha ancora imparato a stare insieme.
È così che, passo dopo passo, manifesto dopo manifesto, anche noi – noi cattivi “compagni” – iniziamo a sospettare di noi stessi, delle nostre cattive abitudini. È così che – quando siamo più deboli, più malati, più fragili – veniamo colti noi stessi dal dubbio, dal sospetto, di essere sbagliati anormali, masochisti, autodistruttivi. Si abbatte su di noi, come una onda di marea superegoica il sospetto che forse dovremmo essere dei sani ariani eterosessuali con la polo e la villetta, che dovremmo lavorare al ministero, perché abbiamo studiato e siamo tanto intelligenti, perché solo essendo così si può avere il diritto di farsi una famiglia e una casa. Ci assale addirittura il dubbio che forse siamo ciò che siamo, i “cattivi compagni”, perché frustrati dal non essere riusciti ad essere degli ariani eterosessuali con la polo, l’amante al ministero e gli spermatozoi ipercaldi.
Ebbene, è proprio in questi momenti cruciali – in cui ogni persona che trova il coraggio di vivere almeno un po’ diversamente la propria vita ammetterà senza problemi di essersi riconosciuta – che dobbiamo ricordarci di questo opuscolo, di questa immagine, di questa violenza ideologica pura; è in questi momenti che dobbiamo sentire la fierezza, quasi l’entusiamo, di essere cattivi, malati, inutili, malvagi, sterili. Perché è in questi momenti che suona l’ora della verità di ogni morale, quella in cui ci ricordiamo che il sano, il bello, il vero, il buono, il giusto, il razionale, non sono che altrettanti sinonimi di coercitivo, selettivo, dominante, indotto, inculcato, dovuto, indiscutibile, fuori ciritica. È in questi momenti, quelli in cui ci vediamo – nello specchio delle “buone” abitudini – come degli aborti, dei fallimenti, degli ibiridi, che dobbiamo sentire nascere e rinascere senza sosta la felicità, il sorriso, l’amicizia in cui potremo iniziare a dare alle cose (e alle abitudini) altri nomi e nuovi valori.
Infatti non intenderò mai, quali che siano le apparenze, altra sovranità se non quella apparentemente perduta a cui talvolta il mendicante può essere così vicino quanto il gran signore, ma a cui, per principio, il borghese è volontariamente il più estraneo.
(Georges Bataille)
Atrticolo pubblicato con il permesso di Chartasporca