L’uovo di Colombo di Canelli

 

Quando Marco Drago mi ha chiesto di immaginare una sezione macedone per il giovane (seconda edizione!) Festival Classico di Canelli e Moasca, nel cuore delle langhe astigiane, sono rimasto, a dire il vero, un po’ interdetto.

Cosa c’entra la cultura macedone con il festival della lingua italiana? E poi, si può, ancora nel 2016, costruire un intero festival sull’italiano come lingua da celebrare? Una così sfacciata adulazione dell’italica favella, in tempi di piena globalizzazione e di parallelo avanzamento dei revanscismi e nazionalismi che tutti conosciamo, non avrebbe finito per puzzare di localismo, invenzione della tradizione a uso e consumo del turista un po’ slow e un po’ food? Come scongiurare il rischio di ritrovarsi di fronte all’ennesima rievocazione nostalgica da professorini di provincia dei bei tempi andati, del loro decoro, della loro purezza etnica di fronte alla sciattezza dell’inglese e delle sue forze globali, con l’aggravante dell’esibito roteamento del bicchiere di moscato d’ordinanza?

Avrei, di lì a poco, realizzato che le cose stavano diversamente. Rendere omaggio alla lingua italiana, nella visione forte di Marco Drago e del gruppo intero di intrepidi canellesi di Classico, significava, infatti, tutt’altro. Per celebrare la lingua italiana, secondo loro, il miglior modo sarebbe stato vederla vivere nel presente, esplorarne i limiti installandosi sulla sua frontiera. Il solo posizionarsi in questa posizione avrebbe, auspicabilmente, posto l’attenzione su un aspetto delle lingue tanto ovvio quanto tristemente svalutato al giorno d’oggi: il fatto di essere non solo, come instancabilmente si ripete, eredità da preservare ma soprattutto strumento indispensabile per la creazione di futuri discorsi e futuri testi. Ecco perché al festival della lingua italiana di Canelli avrebbero potuto trovare posto tante cose: il dialetto gallo-italico di Piazza Armerina (immigrati storici della cittadina delle langhe), la traduzione a tappe forzate dei sottotitoli delle serie tv americane realizzate da appassionati volontari, i tanti brusii dei nuovi cittadini che, parlando lingue straniere, popolano le strade nel presente. Frankie Hi Nrg, Gianni Miraglia, Demetrio Paolin, Umberto Eco, Daniele Luttazzi, i Selton sono solo alcuni dei nomi chiamati in causa dal festival, dedicato quest’anno al grande tema della traduzione.

È, in questo modo, allora, che mi sono dovuto ricredere: ritrovando al posto della nostalgia del tempo perduto, Frankie Hi Nrg, in vece del decoro provinciale la surreale comicità (insieme alla irriverente nudità) di Gianni Miraglia, in luogo della purezza etnica dei bei vecchi tempi andati, la traduzione e la vita langarola contemporanea e multietnica.

Quando Marco Drago mi ha chiesto di immaginare una sezione macedone per il festival della lingua italiana, dopo i primi momenti di interdizione, ho pensato che mi si presentava un’occasione eccezionale di fare una cosa nuova sotto molteplici punti di vista.

Il primo ha a che fare con la retorica della convivenza interetnica. Sappiamo quante iniziative, quanti professionisti girino intorno al mondo dell’accoglienza, proponendo iniziative di settore ora improntate a un certo paternalismo (“è nostro dovere accogliere i poveri migranti!”) ora, al contrario, inneggianti alla rivolta contro ogni presunta invasione dello straniero. Un decimo della popolazione di Canelli (circa mille persone su circa diecimila abitanti) è composto da immigrati macedoni, arrivati per lavorare le vigne. L’uovo di colombo che Marco mi proponeva era di includere queste persone nel festival, offrendo un palcoscenico alla cultura che essi con la loro presenza quotidiana nei luoghi di lavoro o per le strade del paese già rappresentavano.

Non mi risulta che fra i tanti festival in giro per il bel paese e in Europa, viga un simile costume, sia di regola tentato un tale uovo di Colombo. È successo, così, che la sensibilità dell’organizzazione del festival abbia pensato naturalmente di offrire uno spazio ai tanti nuovi cittadini che quotidianamente vivono insieme nel medesimo territorio. E qui arrivo io che propongo di pensare uno spazio artistico, la cosa più normale all’interno di un festival che nasce per celebrare l’arte e la cultura. Ma che costituisce, a mio parere, la vera differenza rispetto al modo in cui si parla di “stranieri” in altri contesti. Una volta tanto, per parlare di multiculturalità, al festival, non ci sarebbero stati né folklore né balletti etnici, né, tantomeno, politichese da retorica dell’integrazione. Il mio pensiero è andato, invece, dritto nella direzione di fare appello alla mediazione dell’arte. Le nazioni, diceva quello, possono proficuamente essere intese come comunità immaginate. Sono un senso del noi, poco importa quanto filologicamente autentico, che viene di regola utilizzato come strumento di divisione fra le persone (vedi alla voce nazionalismo) ma che può essere opportunamente usato come passe-partout per entrare in relazione con loro. Questo noi è, infatti, sì ethnos, folklore, ma è soprattutto uno strumento attraverso cui esperienze, storie, immaginari generali si filtrano, si traducono in un linguaggio più concreto e prossimo, diventando, quindi, comprensibili. Conoscere la cultura di gruppo del prossimo è, quindi, un modo perfetto per rompere il ghiaccio fra diversi e allo stesso tempo per andare oltre le differenze nazionali. Si è, così, cominciato col mettere mano alla letteratura e alla poesia in una bella giornata di letture (curata da Massimo Branda). Ritrovare le poesie di Pavese, nei paesi che costituiscono il cuore dei suoi luoghi, in macedone e tradurre Konstantin Miladinov in italiano, come è stato fatto, finisce per essere un modo semplice e naturale per superare la differenza linguistica, mettendosi di fronte ai problemi universali dell’esistenza che i due poeti propongono. Con il risultato di incrociare racconti molto diversi fra loro. Diversi per suoni e lingua, per ambientazione, contesti, stili, epoche, protagonisti, problemi sollevati. Ma allo stesso tempo, se sono vera arte, anche universali, in grado di superare lo stereotipo nazionale e diventare esempi di umanità in grado di parlare a chiunque. È questa la chiave che ho tenuto a mente proponendo il piccolo sipario balcanico al festival classico. Utilizzare lo stereotipo etnico per uscire dallo stereotipo etnico.

La mia scommessa è stata, anche quella di mostrare quanto, nei Balcani, non si producano soltanto caricature dei film di Kusturica ma al contrario, ci siano tante persone, tanti artisti, che portino avanti un discorso artistico contemporaneo e innovativo, fresco e complesso, ancorato al locale per molti versi ma essenzialmente globale, anzi, universale, come ogni vero progetto artistico dovrebbe essere. È stato il caso del grande street artist Ivan Petruševski (http://flim.mk/)che ha presentato a Canelli in prima assoluta una sua mostra personale di facce (Liza, facce, faces), rappresentate con il suo inconfondibile stile che fonde la grafica pop degli anni 60 con le illustrazioni per bambini. Egli è venuto a Canelli, a raccontare il suo lavoro a tutti gli spettatori del festival e, ovviamente, è stato per due giorni anche il beniamino della comunità locale macedone, presentando se stesso come modello positivo di realizzazione professionale di cui andar, una volta tanto, fieri. Ma è stato anche il caso del grande regista Milčo Mancevski, già vincitore del Leone d’oro al festival di Venezia nel 1994 con il suo Prima della pioggia, giunto a Canelli a margine del montaggio del suo ultimo lavoro interamente girato a New York (a proposito si chiama Bikini, di sicuro farà parlare di sé) con una duplice missione, quella di incontrare in un’intervista pubblica sul suo cinema il pubblico (a questo punto abbondantemente misto!) del festival, sia quello di presentare, per la prima volta in Italia, la maratona di tutti i suoi film. E proprio il cinema di Mančevski si è rivelato perfetto per un canovaccio come quello che ho velocemente tracciato: le sue storie affondano le radici nella storia e nei conflitti balcanici ma si propongono attraverso i generi del cinema commerciale (western, horror, documentario…) e vivono attraverso il racconto dei vecchi, che si preoccupano di tramandarle prendendovi posizione, con il loro punto di vista, spesso non coincidente con quello “ufficiale”. Nei film di Mančevski, è, infatti, perfettamente legittimo che il modello del western venga calato nella lotta di liberazione del popolo macedone dal giogo ottomano o ancora che i canoni dell’horror con tanto di anime dei morti che vengono a disturbare le vite dei vivi, vengano utilizzate per rendere comprensibile l’annosa “questione del nome” che divide Macedonia e Grecia. Ecco, allora il triplice salto che ha incantato gli spettatori della maratona Mančevski di Canelli, tenuta, così come l’intervista pubblica, nello scenario d’eccezione delle Cantine Bosca: lo stereotipo di genere rende comprensibile il difficile scenario “balcanico” e, parallelamente, anche grazie a questa commistione, i personaggi vengono trasfigurati in eroi universali, archetipi narrativi in grado di risvegliare una solidarietà emotiva fra gli spettatori a prescindere dalla loro appartenenza, costruendoli come comunità.

L’arte di Mančevski è sicuramente patrimonio dell’umanità ma arriva a Canelli come heritage dello straniero che apre nuovi problemi, indica nuove opportunità, chiede nuove traduzioni. È, infatti, proprio questo incrocio di immaginari che viene dalla particolare casualità di persone diverse che si ritrovano a vivere insieme, il terreno fertile che nessuno guarda. Ed è forse questo il più bel regalo che nella vita quotidiana si può fare in una comunità multietnica grazie al linguaggio dell’arte: far vedere che i vicini di casa sono persone, che hanno sempre qualcosa da aggiungere se solo ci si prende la briga di includerli, da pari, nel discorso. Una volta intrapresa una strada di questo genere non sarà facile tornare indietro, continuando, come se niente fosse, a distinguere fra noi e loro.

 



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