Intervista al compositore inglese Graham Fitkin

 

 

 

Nato nel 1963 in Cornovaglia, dove tuttora risiede, Graham Fitkin è uno dei compositori britannici più famosi della sua generazione. Ha studiato composizione con Nigel Osborne e Peter Nelson all’Università di Nottingham, e in Olanda con Louis Andriessen. Le sue composizioni si nutrono degli stimoli più disparati, dal jazz alla classica, dal pop alla musica sperimentale, rielaborati in uno stile personalissimo, che coniuga complessità di scrittura e piacevolezza d’ascolto. Insieme a un vasto catalogo di musica da camera e orchestrale, ha scritto anche musiche per danza e film, e sperimentato con vari media digitali. Tra i compositori contemporanei più rappresentati anche dal punto di vista discografico, ha inciso per numerose etichette, tra cui Argo/Decca, Black Box, Sony, EMI, BIS, oltreché per la GF Records, da lui stesso fondata. Fitkin ha collaborato con molti dei principali musicisti ed ensemble specializzati nell’esecuzione della nuova musica (tra cui Yo-Yo Ma, Kathryn Stott, John Harle, Icebreaker, Smith Quartet, Piano Circus e molti altri). Oltre a ciò, ha fondato e diretto numerosi ensemble per eseguire e promuovere la sua musica, il più recente dei quali è la Fitkin Band, la cui line-up di nove elementi è quella di una moderna big band. Dal 2003 ha formato insieme all’arpista Ruth Wall, sua compagna anche nella vita, un duo nel quale lo stesso Fitkin suona le tastiere e manipola digitalmente dal vivo tutti i suoni, mentre Ruth suona diversi tipi di arpa (classica, celtica ed elettrica). L’ultimo frutto del loro sodalizio artistico è Lost, musica inizialmente scritta per la compagnia di attori-danzatori-acrobati Ockham’s Razor, successivamente rielaborata e ampliata fino a divenire un concerto per arpa, sintetizzatori moog e live electronics con videoproiezioni, appena inciso su Cd per la GFR e portato in tournée in Europa tra novembre e dicembre 2015. Una delle tappe del tour ha toccato la città di Macerata, nell’ambito della stagione concertistica dell’Associazione Musicale Appassionata al Teatro Lauro Rossi; il giorno stesso del concerto (2 dicembre 2015), Fitkin ha incontrato il pubblico degli studenti dell’Università e degli allievi dell’Accademia di Belle Arti di Macerata, i quali hanno realizzato dei lavori ispirati alla sua musica. In quell’occasione, gli ho rivolto le seguenti domande.

D: La tua musica è spesso definita post-minimalista: ciò è motivato probabilmente dal fatto che i tuoi brani sono costruiti attorno a un uso intelligente della ripetizione, trasmettono un senso di movimento continuo, ma sono anche attraversati da forti contrasti interni. Pensi che questa etichetta renda giustizia al tuo lavoro?

R: No, non credo, dal momento che il Minimalismo è un movimento che ha una collocazione temporale ben precisa, vale a dire gli anni Sessanta e Settanta del secolo scorso. Peraltro, il termine minimalismo viene spesso usato in un’accezione fin troppo ampia, al limite della banalizzazione. È però vero che alcuni lavori minimalisti, come Piano Phase di Steve Reich (a mio avviso, un capolavoro), abbiamo esercitato una certa influenza sul mio lavoro, che pure presenta un maggior grado di complessità rispetto a essi. In generale, sono a un certo livello influenzato da tutta la musica che ascolto: dalla musica barocca a Stravinskij, da Keith Jarrett alla musica pop. Ultimamente, ad esempio, sto ascoltando molto Sibelius e Frank Sinatra. Ogni brano che ascolto e apprezzo confluisce in maniera naturale nelle mie composizioni, per poi prendere strade che riflettono la mia personalità. Il mio obiettivo è sempre quello di creare qualcosa di nuovo.

D: Tra le influenze che solitamente citi, raramente trovano spazio autori britannici. La musica classica della tua terra d’origine vanta nomi illustri quali Delius, Vaughan Williams, Britten, Tippett. Senti comunque una qualche affinità con qualcuno di loro? (In una mia recensione, ho azzardato un parallelo tra il tuo concerto per due pianoforti Circuit e il concerto per analogo organico di Malcolm Arnold)

R: In realtà, mi sento maggiormente vicino alla musica americana, all’energia ritmica vibrante che sprigiona dalle composizioni di Copland e Reich o dal jazz; mentre dal punto di vista armonico credo di essere influenzato dalla musica francese. Tuttavia, a pensarci bene ciò che condivido con la tradizione musicale classica della mia terra è quella tipica riservatezza emotiva di noi britannici, unita a una chiarezza, a una semplicità di scrittura che un autore come Howard Skempton esemplifica magistralmente.

D: Uno degli aspetti più rilevanti ed entusiasmanti delle tue composizioni risiede nella capacità di bilanciare la disciplina formale che le sostiene – spesso i tuoi brani sono costruiti sulla giustapposizione di blocchi di materiale musicale contrastante – e la vitalità, immediatezza e ricchezza del contenuto ritmico, melodico e armonico. Che relazione c’è dunque, nel momento in cui ti accingi a comporre un brano o nelle fasi successive, tra il momento organizzativo/raziocinante (Tom Service, critico del “Guardian”, ha recentemente parlato della precisione cristallina, della geometria urbana dei tuoi lavori) e quello intuitivo/spontaneo?

R: Solitamente parto da qualche idea extra-musicale, sia essa un fatto politico, uno spettacolo di danza a cui ho assistito, un libro che sto leggendo o un’esperienza personale. La prima cosa che faccio è fissare per iscritto le idee e la direzione che intendo dare al brano che mi accingo a comporre, per evitare di perdermi lungo il percorso creativo. Ogniqualvolta ci si mette al pianoforte e si inizia a improvvisare, è infatti facile lasciarsi sedurre dalla bellezza dei suoni che si sta producendo, per cui è necessario, in una certa misura, tenere a freno l’immaginazione. Talvolta faccio anche uso di formule matematiche per creare una solida struttura compositiva, ma la parte principale del lavoro avviene nella mia mente.

D: Hai scritto diversi brani dedicati a personaggi sportivi (la tennista Steffi Graf, il calciatore brasiliano Bebeto, e il nostro Francesco Totti). Da dove viene la tua fascinazione per lo sport?

R: Lo sport fa parte della mia vita. Ho praticato sin da ragazzo il tennis, lo sport che più amo insieme al calcio. Talvolta certi eventi sportivi possiedono una struttura musicale: ad esempio, ho scritto un brano che ricalca le curve di tensione determinate dai repentini cambi di fronte, nel punteggio e nel gioco, tra le giocatrici Steffi Graf e Arantxa Sanchez all’interno di un singolo game.

D: Che differenze ci sono, rispetto ai tuoi lavori per ensemble classici, in quelli per la tua Band o per il duo con Ruth Wall?

R: Lavorare a stretto contatto con musicisti che conosci cambia l’approccio alla composizione. Per quanto riguarda i lavori che ho scritto per me e per Ruth, che è mia compagna anche nella vita e con la quale vi è ovviamente un rapporto di fiducia e onestà, essi originano dal mio desiderio di confrontarmi con il mondo della musica elettronica, a partire da Kaplan, per due tastiere. Nei successivi lavori, da Still Warm a Lost, ho sperimentato nuove soluzioni timbriche derivanti dalla combinazione del suono dell’arpa con vari strumenti elettronici. Inoltre, mi sono lasciato andare a una maggiore libertà nel seguire la mia ispirazione melodica e nello sviluppare le mie intuizioni ritmiche e armoniche, senza imporre costrizioni strutturali troppo rigorose.

D: In Lost affronti il tema della perdita, in tutte le sue accezioni: dal perdere l’affetto di una persona cara o il nostro posto nella società in cui viviamo, al perdersi, anche volontario e in certa misura consolatorio, nello stato di smarrimento e isolamento che conseguentemente sperimentiamo. Come sei riuscito a tradurre musicalmente un tale complesso stato affettivo?

R: Nella vita mi capita spesso di sentirmi perduto, spaesato; per tutti noi ci sono momenti o periodi di smarrimento, che talvolta può anche essere qualcosa di positivo. Ogni traccia di Lost traduce questo stato d’animo partendo da una base (armonica, melodica, ritmica, timbrica) piuttosto stabile, chiara e semplice, per poi condurla, attraverso sottili ma calibrati cambiamenti, verso territori altri, meno familiari e più incerti. I video di Ryan Sharpe proiettati nell’esecuzione dal vivo vanno nella stessa direzione, amplificando in maniera discreta l’effetto ripetitivo e straniante della musica.

D: Quali sono i tuoi progetti per il futuro?

R: Innanzitutto, devo scrivere due brani che mi sono stati commissionati, uno per arpa e quartetto d’archi, in cui Ruth suonerà ben quattro tipi diversi di arpa, e un concerto per sei flauti dolci suonati da un unico performer. Ad agosto, poi, entrerò in studio di registrazione per realizzare un doppio Cd con la mia band, cui seguirà un tour europeo e varie collaborazioni con diverse istituzioni musicali.

 

 

 

 

 

 



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