Pensare l’Europa nell’età contemporanea: riflessioni filosofiche e contesti politici

 

L’idea di Europa è un tema che, negli ultimi decenni, ha determinato un forte dibattito sia in termini filosofici che politici ponendo questioni difficili.

Secondo quali categorie si deve oggi pensare l’idea di Europa? Esiste uno “spirito” europeo? Esiste una società europea? Quanto l’idea di Europa come Unione Europea, affermatasi dopo la metà del XX secolo, è un elemento in grado di conciliare l’aspetto progettuale, istituzionale ed economico con quello delle culture e delle diverse tendenze politiche che hanno attraversato la storia del continente e che tuttora sono evidenti?

Per provare ad iniziare ad affrontare tali problemi con maggiore consapevolezza può essere opportuno far riferimento ad alcuni contributi intellettuali emblematici che possono fornirci delle prime chiavi di lettura interessanti che si incentrano sullo spirito europeo, la razionalità, la modernità e la globalizzazione.

Già negli anni Trenta del Novecento, Edmund Husserl(si veda Husserl, E., La crisi dell’umanità europea e la filosofia, in Id., Crisi e rinascita della cultura europea, Marsilio, Venezia, 1999), ad esempio, pone il problema della posizione della filosofia rispetto alla crisi spirituale dell’Europa, travagliata dalle conseguenze disastrose del primo conflitto mondiale, dalla progressiva affermazione di forme di totalitarismo, da una preoccupante situazione economica, dall’incapacità di relazionarsi agli altri popoli del mondo secondo modalità che non fossero quelle proprie dell’imperialismo. Egli cerca di spiegare perché le scienze dello spirito non riescono a garantire il superamento di tale crisi. La difficoltà dipende, secondo il filosofo tedesco, dal fatto che le scienze dello spirito hanno cercato di fondarsi sulle scienze della natura: esse sono state abbagliate dal naturalismo imperante. Husserl sostiene la necessità di riscoprire la forma spirituale dell’Europa, la sua continuità storica e teleologica che supera e trascende le differenze dei suoi popoli. L’origine spirituale dell’Europa che Husserl vede, risiede nella filosofia greca del VII e VI secolo a. C. il cui tratto più particolare, che la distingue dai contributi dei saggi babilonesi, egizi, indiani, risiede nell’atteggiamento “teoretico” che si manifesta nella dimensione della comunità dei filosofi. L’atteggiamento “teoretico” da una parte afferma un contegno costantemente critico verso la realtà, dall’altra la prassi di accettare solo le norme della verità oggettiva. Ma questo razionalismo può nascondere delle insidie perché nessuna verità deve essere assolutizzata; nell’epoca moderna, invece, la fede nella ragione ha indotto l’idea che il metodo delle scienze naturali potesse dischiudere i misteri dello spirito. Husserl giunge così a negare l’esistenza di una scienza oggettiva dello spirito, poiché lo spirito ha una sua essenza in se stesso, una sua autonomia che non può essere tralasciata se si vuole considerare lo spirito da un punto di vista autenticamente scientifico. Lo spirito deve dunque abbandonare l’oggettivismo e tornare a se stesso. Questo è il punto di partenza che Husserl poneva per superare la crisi dell’esistenza europea: l’alternativa era, secondo lui, il tramonto dell’Europa nell’estraniazione rispetto al senso razionale della propria vita.

Emanuel Lévinas, ha, in anni a noi più vicini, sostenuto e ripreso questa dimensione di crisi della razionalità europea, affermando che l’Europa del XX secolo ha una cattiva coscienza(si veda Levinas, E., L’Europa tra pensiero greco e Bibbia, in AA. VV., L’identità culturale europea tra germanesimo e latinità, Jaca Book, Milano, 1988). Secondo il filosofo, il XX secolo in cui noi europei siamo entrati con la più grande fiducia, il secolo in cui lo spirito europeo avrebbe mostrato tutto il suo splendore, è stato invece il secolo di due guerre mondiali con tutto ciò che ha significato la Seconda al di là delle cause abituali della guerra; è stato il secolo dei campi, dell’oppressione, dello sterminio di intere popolazioni e di quello che è stato chiamato Olocausto. E, in seguito alla guerra, abbiamo avuto la disoccupazione e viviamo, adesso, qualcosa che sarebbe apparso incredibile nel tempo in cui gli uomini soffrivano di essere schiavi e di lavorare senza pausa, mentre conoscono ormai una sofferenza quasi più grande, quella di non poter lavorare.Lévinas pone così in discussione la possibilità di definire l’uomo proprio mediante la potenza del sapere. Non si tratta di denunciare né la libertà né l’intelligenza; egli pensa, piuttosto, che la definizione stessa dell’uomo debba essere attinta da un altro ordine. La relazione di un essere umano con l’altro essere umano, la relazione da uomo a uomo, invece di essere presentata come una conseguenza remota dell’intelligenza e della libertà, deve forse essere colta nella definizione stessa dell’uomo, nella vocazione stessa dell’uomo. Con vocazione dell’uomo si intende che un essere può uscire dalla sua autoaffermazione per occuparsi, prima di tutto, dell’altro essere umano e che questo è stato l’avvento stesso dell’umanità, è l’essenza dell’umanità.

A queste riflessioni sull’Europa in termini filosofico-spirituali, si possono aggiungere importanti considerazioni in chiave politica.

Se pensiamo alla situazione del continente europeo nel corso dell’ultimo cinquantennio, possiamo notare come esso sia stato caratterizzato da una serie di tendenze più o meno omogenee per tutte le sue aree: a) una industrializzazione diffusa gradualmente in tutti i paesi; b) una organizzazione della proprietà essenzialmente capitalistica; c) una struttura istituzionale liberale dal punto di vista sociologico; d) diritti di cittadinanza. La teoria sociale qualifica la società europea contemporanea come “postindustriale” e “postmoderna”, ossia come caratterizzata da intensificazione di eterogeneità, frammentazione organizzativa, crollo delle manifestazioni sociali precedenti (famiglia, ecc.). La società europea, come osserva il sociologo Colin Crouch(si veda Crouch, C., Sociologia dell’Europa occidentale, Il Mulino, Bologna, 2001), può configurarsi come una sorta di “Wahlverwandtschaft”, una diversità ordinata, limitata e strutturata: una futura convergenza nell’Europa occidentale, potrà quindi essere dovuta non tanto a processi riguardanti proprio l’Europa, quanto piuttosto al fatto che le società europee sono coinvolte in alcune tendenze generali che sembrano comuni a tutte le società avanzate (globalizzazione economica, crescita del potere del capitalismo finanziario, manifestazioni dell’etica dell’individualismo, ecc.). Nel processo di unificazione europea, permangono quindi vistose contraddizioni in senso politico: tanto più i governi spingono verso l’integrazione, tanto più spuntano i cosiddetti localismi, che si affermano di pari passo con il declino degli Stati nazionali. La globalizzazione si scontra con l’ideologia delle radici; l’apertura economica che la globalizzazione è andata determinando in modo sempre più veloce e marcato nell’ultimo ventennio, influenza enormemente il tipo di sfera politica che l’Europa sta producendo attualmente. Sociologi molto affermati, come Zygmunt Bauman, Anthony Giddens e Ulrich Beck, hanno colto l’effetto lesivo di questi fenomeni per la dimensione politica (si vedano indicativamente, tra l’altro, Bauman, Z., La solitudine del cittadino globale, Feltrinelli, Milano, 2000, Giddens, A., L’Europa nell’età globale, Laterza, Roma-Bari, 2007 e Beck, La società cosmopolita, Il Mulino, Bologna, 2003). Diventa, allora, importante analizzare la crisi della forma nazional-territoriale dello stato in Europa. E uno dei referenti più influenti del dibattitto intellettuale e politico attuale sulla società europea, Jürgen Habermas, ha fornito una lettura attenta al riguardo (si veda Habermas, J., La costellazione post-nazionale, Feltrinelli, Milano, 1999, si consideri anche Id., Il ruolo dell’intellettuale e la causa dell’Europa. Saggi, Laterza, Roma-Bari, 2011). Egli vede nel secondo dopoguerra “l’età dell’oro” della costruzione dello stato sociale in Europa: attraverso lo strumento dello stato sociale la forma economica altamente produttiva del capitalismo venne per la prima volta imbrigliata socialmente, con il risultato storicamente senza precedenti di riuscire a garantire realmente alcuni diritti sociali fondamentali. Tuttavia, a partire, al più tardi, dal 1989, la sfera pubblica ha percepito con chiarezza la fine di quell’era. Si è, infatti, affermato un neoliberismo socialmente spietato (per una recente lettura critica del neoliberismo nella politica contemporanea si può considerare Žižek, S., Vivere alla fine dei tempi, Ponte alle Grazie, Milano, 2011), tanto più forte in quanto capace di esautorare gli stati del potere necessario a temperarne gli effetti più dannosi. Ciò implica un crescente “vuoto di legittimità” che le forme di collaborazione internazionale non riescono a coprire. Tale vuoto viene compresso da una parte dalla pressione dei massicci flussi migratori che spingono le nostre società verso una multiculturalità che troppo spesso scatena risposte irrazionali, dall’altra dall’omogeneizzazione forzosa della cultura di massa, che impone univocamente gli stessi modelli di vita e di consumo sull’intero pianeta. A fronte di tutto ciò il potere di integrazione dell’idea nazionale conserva forza solo nella misura in cui si configura come reazione etnocentrica violenta. L’esautoramento della politica da parte del mercato si completa nella progressiva erosione della base di legittimità dello stato democratico. Habermas ritiene, conformemente alle logiche che ispirano le sue teorie dell’agire comunicativo, che, per uscire da questa crisi, occorra recuperare la capacità di azione perduta dagli stati nazionali, trasferendola ad organismi internazionali in grado di fornire regole globali, per instaurare progressivamente una dimensione di “politica interna mondiale” o, quantomeno, una consapevolezza della sua necessità. Ma questo è proprio quello che è accaduto con il Fondo Monetario Internazionale, la Banca Mondiale e la World Trade Organization, ai quali il consesso delle nazioni ha progressivamente trasferito competenze e responsabilità decisionali via via sempre più decisive. Tali organismi scontano però un deficit netto di legittimità (per quanto dipendano, per lo meno formalmente, dai governi nazionali che li hanno istituiti). Per tale ragione, Habermas guarda all’idea di Europa come unica via possibile verso una attuazione a livello globale di quel cosmopolitismo che rappresenta la migliore lezione del 1789. Il futuro della politica sociale europea dipende da una nuova consapevolezza che dovrà nascere tra i cittadini d’Europa se essi impareranno a riconoscersi reciprocamente come appartenenti a una stessa comunità politica, al di là dei loro confini nazionali.

La difficoltà maggiore che l’Europa, intesa qui come sistema politico-culturale, incontra nell’affrontare i dilemmi posti dalla crisi della razionalità e dalla globalizzazione risiede forse nel fatto che nel nostro continente convivono “anime” che provengono da contesti storici e di tradizione estremamente differenti. Probabilmente, in nessuna area geografica le diverse zone hanno alle spalle una tradizione storica di riferimento così forte come in Europa. Nel continente europeo si possono attualmente individuare tre aree di riferimento: l’area nord-occidentale, nella cui tradizione appare centrale l’elemento della razionalità; l’area del Mediterraneo, che ha una tradizione che si ispira al confronto e all’esplorazione; l’area degli stati una volta appartenenti al blocco comunista, che sono stati caratterizzati da secoli di instabilità etnica, politica e territoriale. A loro volta, queste aree sono il prodotto di complessi processi di evoluzione storica, nei quali non si possono dimenticare sia gli elementi di romanità concretamente influenti sulla società europea fino alle soglie del mondo moderno, sia quelli provenienti dal modo islamico e orientale.

L’intellettuale slavo Pedrag Matvejević ha colto questa distinzione tra le “anime” dell’Europa e soprattutto ha evidenziato il carattere di complessità e di poliedricità di ognuna di esse (si veda Matvejevic, P., Il Mediterraneo e l’Europa, Bompiani, Milano, 1998) .

Il Mediterraneo, ad esempio, è visto da questo intellettuale come “Mare nostrum”, come mare diviso tra i popoli e dai popoli. La conseguente difficoltà di definirlo si ripercuote, anche da un punto di vista politico, sulla prospettiva di formare una Unione europea che perde di vista la sua culla e la sua origine. Il Mediterraneo appare come uno stato di cose, ma non riesce a diventare un progetto.

L’Europa dell’Est, l’“altra Europa” – anche questa dimensione complessa e difficilmente definibile – è considerata sotto l’aspetto della difficile transizione che sta attraversando dopo la fine del blocco sovietico. Matvejević ritiene che l’ “intellighentsia” dell’Est debba contribuire a valorizzare differenza e particolarità, garantire un nuovo approccio all’individuo e alle sue identità e soprattutto evitare che venga fatto un cattivo uso di queste acquisizioni. Tale impegno intellettuale comporta però delle difficoltà connesse col pericolo che l’impegno porti alle subordinazione della cultura allo Stato-nazione e all’ideologia. Questo discorso si iscrive all’interno della questione del destino della società politica dell’Est Europa: nella Russia e nel mondo slavo in generale esiste una dimensione oggi autenticamente democratica conciliabile con l’Europa occidentale? Correlata all’Europa dell’Est appare, così, anche la condizione della Mitteleuropa. Nel periodo della guerra fredda il discorso su di essa era ridotto alle “contingenze est-ovest” e subordinato alla politica corrente. Quando il Muro di Berlino è caduto, l’eventualità di una Europa centrale e della sua unificazione è a sua volta svanita, ammesso che sia mai stata concretamente realizzabile: anche la Mitteleuropa non sfugge al carattere della complessità e della poliedricità e ciascuno dei suoi componenti sembra concentrato su se stesso e sulla propria riorganizzazione.

Allora, nel momento in cui l’Unione europea cerca di consolidarsi, sarebbe opportuno, secondo Matvejevic, non trascurare queste considerazioni che inducono l’idea di una Europa meno “eurocentrica”, meno egoista, più consapevole di se stessa e meno soggetta all’americanizzazione, più cosmopolita, più comprensiva, meno orgogliosa.

L’insieme di queste letture che abbiamo sinteticamente considerato, fornendo un quadro d’insieme esemplificativo, ci conducono così, in conclusione, a valutazioni più attente: l’idea di Europa va visualizzata rispetto a due piani diversi. Uno, quello teorico, che ruota attorno al pensiero filosofico ed è orientato a cercare, forse dialetticamente, un sistema critico che permetta all’Europa di pensarsi e comprendersi nell’insieme dei suoi “Geists”. L’altro, quello politico-organizzativo e istituzionale, che è orientato al tentativo di costruire una struttura sociale e politica complessa che sia in grado di condurre efficacemente il continente attraverso le insidie, le incertezze, ma anche le potenzialità che il mondo del XXI secolo racchiude in sé. Avendo presenti queste osservazioni si può comprendere che allora la politica non può fare a meno di affrontare i problemi dell’Europa anche filosoficamente, cercando tuttavia di evitare di trasformare la filosofia europea nella sua ideologia.


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