ViTA ConTRo TeoLoGiA PoLiTiCA (parte 2)

 

 

Il ricatto di Humpty Dumpty

 

La discussione su tali temi spesso si discosta dal piano politico per risalire (o riaffondare, secondo i gusti) sul livello teorico, inaugurando di recente una categoria del presente sotto nome di società post-secolare. Tra gli altri, Jürgen Habermas si è soffermato a lungo favorendo il riavvicinamento di una distanza un tempo incolmabile tra ragioni laiche e ragioni religiose al fine di disinnescare l’onda devastante per gli equilibri sociali derivante da una risposta scorretta agli interrogativi politici sopra delineati. La sua tesi non esce beninteso dai limiti costitutivi dell’incommensurabilità tra ragione procedurale e ragione sostantiva nella sfera della politica, ossia dal fatto che nessun procedimento corretto in senso morale e giuridico offre garanzie sufficienti di produrre giustizia ed equità sul piano sostantivo in quanto la politica dei fatti concreti non appartiene alla dimensione ontologica di cui narrare criteri di giustificazione e legittimazione, bensì al faticoso, controverso, altalenante e spesso contraddittorio processo di costruzione del mondo priva di reti di sicurezza. A meno di non ritenere vitale una dimensione pre-positiva del diritto costituente che sia in grado di determinare quel piano sostantivo «che vada oltre il procedurale», utilizzando in via omogenea la «semantica biblica di liberazione», con il discorso di libertà di una società mondana a sua volta «esito della decisione cristiana fondamentale […] ispirazione necessaria di ogni possibile vita democratica». In tal caso, però, il fatto del pluralismo, ossia le declinazioni infinite della finitudine umana sul piano di immanenza assoluto, emancipato dall’ipoteca trascendente, verrebbe così ri(con) dotto all’Uno che riceve la sua finitezza dall’infinito creatore da cui proviene e dipende. Se Habermas si soffermasse soltanto sul piano della politica, il suo suggerimento di conciliare le visioni secondo un doppio processo di apprendimento reciproco e di contaminazione aperta alle ragioni altrui, che implica altresì la capacità autolimitantesi, invero non comune, di coniugare la propria visione in almeno due linguaggi vitali (il laico e il religioso, nella fattispecie), sarebbe pienamente accettabile nella cornice di una dialettica politica mai conchiusa definitivamente. Habermas però impernia a mio giudizio tale proposta in uno spazio di pensiero post-secolare che rinnova, involontariamente, la trappola della teologia politica, ossia la subordinazione di principio della ragion d’essere della società mondana ad un principio superiore perché trascendente: il vuoto di senso normativo che si pone a fondamento di una società penultima, incapace di spiegare a partire da sé la ragione della propria esistenza, per cui diventa necessario ricorrere a un supplemento di donazione di senso da parte di una istanza normativa più potente, collocata in una dimensione gerarchicamente trascendente, di cui non è possibile evitare di percepire la presenza piena che colma una pregiudiziale assenza costitutiva, una mancanza fondativa da integrare appunto secondo lo schema teorico (e non politico) prospettato da Habermas. Tale schema ricalca una precisa narrazione filosofica del mondo e della storia che il cristianesimo rinnova sotto il sigillo della caduta, del «debito ontologico», del peccato che dà origine alla insufficienza costitutiva dell’essere al mondo, con il corollario messo in luce da Friedrich Nietzsche del senso di colpa instillato nei riguardi dell’umanità in relazione al sentimento di autocolpevolezza originaria e quindi di sottomissione programmatica grazie alla quale riconquistare nostalgicamente sotto forma di speranza caritatevole quella pienezza pre-mondana ormai accessibile soltanto in una forma di vita ultramondana, a patto però di espiare vita natural durante il senso di colpa del peccato restando nella caduta permanente, curabile esclusivamente nella retroazione del trascendente sulla forma di vita così monca e imperfetta. La teologia politica, contro cui la modernità critica si è scagliata,

si alimenta di questa visione gerarchica del primato del trascendente sul contingente per farsi statualità, al di qua del regime storico in cui eventualmente conciliare simmetricamente visione e organizzazione politica dell’esistente. Per essa, come sottolinea Voegelin, «la comunità politica è sempre incorporata nel contesto dell’esperienza del mondo e di Dio da parte degli uomini». Da qui la «matrice teologica della società civile». Perché habermas non tratta la secolarizzazione della società moderna secondo la sua incompiutezza, esattamente come, rigettando ogni declinazione in senso variamente postmoderno, considera incompiuta la modernità occidentale? in effetti, la secolarizzazione promessa dai Lumi esibisce un pedigree altrettanto ambiguo della dialettica dell’illuminismo, sebbene, nell’un caso, habermas non prospetti una società post-illuminata che recuperi in chiave emancipativa mitologie confinate e trasfigurate, laddove, nell’altro caso, la sua idea di società post-secolare accetta implicitamente un esito insoddisfacente, al pari della modernità, da cui però dedurre non un approfondimento in senso radicale, bensì un appeasement per lo più unilaterale con le ragioni religiose che, probabilmente, non risultano espunte dal progetto secolare solo perché non è possibile espungerle ma quanto meno contenerle, delimitarle, confinarle nel regno dell’illusione di humeano cipiglio: senza alcuna autorevolezza pubblica. Riconoscere un contenuto cognitivo alla religione, e pertanto una forza di orientamento sul piano etico e morale, non vuol però annunciare la dipendenza cognitiva da essa, né tantomeno una sottomissione alle sue ragioni etiche e morali in concorrenza con altre ragioni, in una competizione infinita che non avrà mai punto di sosta né di resa. La duplice e reciproca traduzione dei linguaggi, invocata da habermas, è un lodevole sforzo teorico teso ad un obiettivo disponibile in chiave politica, senza però investire la soluzione finale del senso della vita e del mondo in una cornice ultima da cui risulterebbe impossibile evadere verso altri orizzonti di senso, e quindi verso altre forme di vita a venire. In altre parole, va tenuta distinta e disgiunta la capacità cognitiva per fede e per ragione: la prima pretende di ergersi «come spazio di un incondizionato che serve a misurare ed evidenziare i limiti dei poteri conoscitivi e operativi umani»; con ciò la svalutazione della ragione viene mitigata appena da una tolleranza nei suoi confronti qualora essa si adegui nelle matrici valoriali che orientano il suo dispiegamento. La seconda, invece, opera attraverso argomentazioni pubblicamente controllabili, almeno in via di principio (la questione dell’accesso selettivo alle capacità razionali di controllo pubblico mina tale principio a motivo dell’esproprio della capacità politica del corpo sociale che è stato costretto a delegarla interamente alla sfera astratta della politica), considerando, se non proprio superflui ai fini di una buona vita, quanto meno irrilevanti, stravaganti, quegli ulteriori strumenti cognitivi che costruiscono effetti di verità attraverso metodi esoterici, elitari disponibili a corpi privati che poi si attivano per universalizzarli. Forse la cosiddetta deprivatizzazione della religione può riemergere senza grosse difficoltà giacché non è mai esistita del tutto la sua cd. privatizzazione, in quanto le società secolari hanno puntato a lungo termine le loro strategie su una debole neutralizzazione delle istanze fideistiche, anziché in una efficace lotta di contrasto in senso cognitivo (prima che morale), cioè in direzione dell’ateismo o addirittura dell’agnosticismo culturali (e non normativi) tanto sul piano dei loro effetti pubblici, quanto soprattutto nella dimensione privata, di cui non era affatto possibile ipotizzare limitatamente ad essa una irrilevanza significativa e cognitiva, pena la condanna ineffettuale a un destino di schizofrenia dell’individuo al contempo militante leale dello stato (la costellazione degli interessi del cittadino) e di una religione (la sfera dei valori del fedele).

Eccedenza e contingenza

Ben prima di Habermas, Ernst-Wolfgang Böckenförde aveva spento d’un sol fiato i lumi della modernità politica: «lo stato liberale secolarizzato vive di presupposti che esso stesso non è in grado di garantire. Questo è il grande rischio che si è assunto per amore della libertà». Esplicitamente, così si enuncia la necessità di reperire un «legame unificante che preceda tale libertà», e la re-ligio si candida in via esclusiva a ricoprire tale funzione rilevante di significazione ma anche di capitale simbolico di riserva cui attingere nei momenti cruciali. Implicitamente, ciò significa altresì ipo(sta)tizzare un primato prioritario rispetto alla libertà – per esempio della persona ontologicamente incapace ad autogovernarsi perché ad immagine e somiglianza (donata) di Dio dalla cui assolutezza si staglia per differenza la maschera della imperfetta condizione umana tanto bisognosa della cura pastorale – sotto cui soggiacere nell’ordinamento logico della concatenazione simbolica del mondo, secondo il quale pertanto la ricerca di autonomia costituisce una trasfigurazione di un sentiero delimitato dal fattore di verità unica ed esclusiva, tendenzialmente in ogni spazio e tempo: insomma, universale. La classica tesi teologico-politica ripresa e rilanciata da Böckenförde è interrogabile da due versanti: il primo concerne la titolarità della religione a supplementare la mancanza costitutiva della politica statuale in senso liberale e secolare, secondo una prospettiva tanto teorica, quanto storico-materiale; il secondo attiene invece alla plausibilità della tesi stessa, sia sulla sua consistenza, cioè se tale insufficienza sia teoricamente fondata e fondabile oppure se rappresenti una proiezione fortemente interessata, sia sulla eventuale capacità della politica – forse una politica non più statuale… – di sostenere l’edificio di una società di libertà penultima che intenda rintracciare in sé le ragioni di una istanza di spiritualità senza soggiacere alla illusione del trascendente, anzi lasciando vuota la casella ultima, ed al contempo aprendosi al mistero angosciante della finitudine ed alla tensione col nulla coniugando immanenza e contingenza in modo affermativo. La religione istituisce una continuità indissolubile tra ricerca del senso e significato donato, al cui interno la predatità del significato originario si colloca nella dimensione dell’infinito mentre la sua declinazione plurale, posta nella dimensione del finito (mondanità), è sotto tutela da una prospettiva di compatibilità sostanziale. Tale approccio teoretico è apprendibile esclusivamente per fede, potendosi infatti conoscere pubblicamente solamente la concatenazione logica che discende dal dogma. Se l’assioma pone la carenza a costituzione del mondo, allora il primato del trascendente è al riparo da ogni interrogazione dubbiosa, inclusa la consistenza della forza suppletiva a donare significato al mondo. Il luogo di provenienza è infatti esterno ad esso, rinviando escatologicamente ad un tempo angosciante e ignoto che, in virtù della priorità assegnatogli, condiziona la ricerca di senso valevole per questa vita, non a caso svilita ad un fiat tra due infiniti, il nulla anteriore e il nulla posteriore alla vita. Questa è oggetto, mai soggetto dell’esistenza, la cui dicibilità ed esperibilità dovrà seguire i canoni autoritari dell’unico Autore autonominatosi a presiedere al suo destino, ossia alla sua destinazione. Ogni senso in questa cornice è un significato che casualmente può servire da bussola di orientamento in questo mondo, giacché si alimenta di criteri esteriori idonei ad una buona cittadinanza della dimensione oltremondana dell’al di là. Resta il problema della finitudine angosciante, per la cui cura l’illusione magica e superstiziosa prodotta dalla religione non si rivela un buon farmaco, come sospettavano Tito Lucrezio Caro e David Hume, ma anzi incute paura e terrore dell’oltretomba sovente retroagito nell’al di qua (nonché agitato strumentalmente da una certa teologia spiccatamente politica). Del resto, sul piano storico-materiale, la riserva di senso apportata dalle religioni non sempre si è dimostrata capace di risolvere conflitti identitari, anzi ha cercato di ordinarli in modo distruttivo per l’ordinamento sociale – «forze non di unione ma di divisione e conflitto» – specialmente nella versione clericale e istituzionale di una comunità che si sceglie e si vuole politicamente militante. La difesa della verità assoluta ha creato catastrofi micidiali nella storia dell’umanità, ben più gravi del disorientamento veicolato dal relativismo che a stento riesce a porre fragili argini alla strapotenza dell’unità di dio e della violenza politica. Là dove la religione non riesce a penetrare l’animo umano, talvolta refrattario a proiettarsi altrove, neanche un attimo dopo essere stato catapultato involontariamente in questo mondo, là dove «la religione istituzionalizzata non fornisce più la base dell’integrazione sociale generale», soccorre allora in via complementare una politica prona e mimetica della forza impositiva del cappio fideistico. In buona sostanza, dietro ogni teologia, fa capolino, furtivamente, in attesa dell’attimo, una pretesa teocratica, per lo più mediata politicamente ma non moralmente, perfino la cui sola nostalgia promette di erodere ampi spazi di libertà ed eguaglianza, paradossalmente in nome di una dignità umana calibrata sulla universale sottomissione di tutti e di ciascuno a dio. L’eccedenza di senso rintracciabile nella dimensione religiosa, la prerogativa per cui l’intangibile, l’intatto sono di esclusiva pertinenza sacrale, è pensabile solo per un mondo ridimensionato a tappa imperfetta di un tragitto eterno, che pur tuttavia non si isola e si emargina dal reale concreto, ma anzi intende sovradeterminarlo come ethos valido universalmente per tutti e per ciascuno (katholikos). Un mondo unificato in cui si installa una insufficienza originaria può solo aspettarsi di trasfigurare la propria dipendenza in una fittizia autonomia, operando al massimo una sostituzione di autorità, come storicamente si è dato. «La secolarizzazione, per quanto processo di laicizzazione e affrancamento dagli apparati sacrali pre-moderni, è una forma di teologia politica post-sostanziale. Ovvero opera, funziona, replicando fittiziamente la logica della trascendenza. Questo sia in senso formale, come trascendenza del potere, cioè autotrascendimento dell’immanenza del corpo sociale in una unità politica artificiale, che necessita per darsi di “rappresentazione”. Sia almeno in parte in senso contenutistico, anche se il “filtro” secolarizzante trasforma potentemente quei contenuti e li contamina con altre fonti autonome: in questo senso occorre molta cautela rispetto agli usi della tesi della secolarizzazione volti a schiacciare troppo il Moderno su quello che c’era prima, negandone l’elemento di frattura concettuale, o perlomeno di discontinuità moderata». Decisiva appare a mio vedere questa puntualizzazione: attraverso l’istituto della rappresentanza, la metamorfosi della struttura sacrale del potere politico si è prolungato all’interno di una politica divenuta nel tempo laica, ossia emancipata dall’ipoteca religiosa di legittimità, che tuttavia ha assunto forme statuali omogenee al codice simbolico di discendenza trascendente. Il blocco statuale ha sottratto l’agire politico da una dimensione di mobilità ed indiscernibilità societaria ad una sfera astratta e artefatta che mima la trascendenza del potere nell’autotrascendimento dell’immanenza del corpo sociale contenuta e trattenuta al suo interno, per ripetere Preterossi. La contingenza viene rimossa e l’istituzionalizzazione delle relazioni di potere in un apparato di dominio scisso dal corpo sociale reitera quella cattura trascendente ponendosi su un livello di indicibilità critica, di intangibilità simbolica che perdura tuttora. In tal senso il significato dello stare al mondo transita attraverso la secolarizzazione, laddove l’autonomia del potere politico statuale simula una immanentizzazione del senso per porsi invece come nuova soglia invalicabile entro un orizzonte indiscusso e indiscutibile. Come sostiene lo stesso Geminello Preterossi, forse tale svolta è «preparata dal cristianesimo e “decisa” dal razionalismo occidentale» , ma ai fini di scovare la quinta colonna del trascendente nell’immaginario pubblico che neutralizza la radicale immanenza dell’esistenza l’analisi storica è secondaria. Il sacrificio della contingenza operata dalla secolarizzazione della politica statuale è il punto debole dello stato liberale nella sua missione salvifica di surrogare la cura delle anime dall’ignoto mortale e dalla finitudine umana, consentendo pertanto al religioso di rimergere puntualmente ogni qualvolta le biforcazioni cruciali delle epoche incrinano certezze e inducono spaesamento. La ricerca di ciò che per convenzione chiamiamo “spiritualità” è il limite di ogni sapere laico, forse perché la riflessione sulla finitudine è affidata, grazie a quella particolare torsione secolare, unicamente al religioso che così reintroduce il primato trascendente essendosi già insinuatosi e perpetuatosi per via metamorfica. Ma, rovesciando la tesi di Ernst-Wolfgang Böckenförde, chi o cosa garantisce che «la forza vincolante e l’efficacia della religione» (si) offra «misura di senso pregiuridico di comunanza e di ethos sostenitore (…) indispensabile per una prospera convivenza in un ordinamento liberale»? siamo sicuri che se essa declinasse o venisse «addirittura erosa» lo stato liberale si ritroverebbe nudo quanto a produzione di senso comune? Certo, una politica tutta rinchiusa nella statualità del suo darsi investe il legame societario nella forma giuridica procedurale idonea a contenere la dispersione di contenuti plurali da ricondurre a unità di ordine; in tal caso il pre-giuridico è regalato all’istanza trascendente che coniuga il margine necessario alla vita collettiva di un ordinamento, secondo l’insegnamento di Derrida, con il monopolio di produzione di significati in risposta all’interrogativo cd. spirituale. Ma nulla impedisce in sede teorica di immaginare una risposta laica pure sul piano della spiritualità, ossia della riflessione etica e filosofica sulla finitudine umana, sulla radicale immanenza e contingenza dell’esistenza. Forse tale risposta dovrà articolarsi con una forma di ordine sociale differente rispetto alla torsione secolare della politica statuale, individuando in una diade di libertà e uguaglianza radicale quella interruzione di senso che esautori tanto la statualità come forma politica della metamorfosi del trascendente nell’autotrascendimento del potere, quanto una domanda di spiritualità ricollocata nell’unico spazio di vita datoci che è l’immanenza e la contingenza del nostro insistere al mondo. Concentrarsi sull’immanenza della vita senza alcun legame con la dimensione trascendente del nulla anteriore e posteriore apre una movenza affermativa della vita piena da esperire nel tempo concesso. Essa è popolata da innumerevoli soggetti relazionali per definizione, in cui ciascuno è altro a se stesso e all’altro, senza quelle maiuscole grazie a cui restaurare una verticalità divina. La cifra relazionale di ciascuno costituisce un legame solidale e vincolante per il solo fatto di essere ciascuno un essere umano, come ci ricorda Simone Weil: l’essere singolare plurale (Nancy) che siamo è il destino infinito della nostra condizione finita, della contingenza del contatto ineffabile essere-mondo, e ciò senza alcuna necessità di un intervento di derivazione trascendente, placante l’angoscia terrena, peraltro instillata da paranoiche tecnologie politiche di paure e terrore cui non sono stati e non sono estranei tanto la politica statuale quanto la religione. La pluralità delle relazioni possibili si distribuisce su un piano di immanenza in cui ciascuno è eguale nelle opportunità perseguibili e la libertà di tale esperienza non è scindibile da tale postura egualitaria che non rinvia ad un Altro assoluto di cui essere «immagine inadeguata», maschera secondaria. La ricerca delle infinite correlazioni è l’enjeu della vita: in essa si sostanzia la politica come concrezione di un diagramma organizzativo in cui le correlazioni si allacciano e si slacciano rispettando radicalmente la ricerca di libertà e l’eguaglianza, quindi non permettendo escrescenze verticali e gerarchiche che mirano a istituzionalizzarsi nel tempo e nello spazio. L’intangibilità di questo dispositivo avrebbe pertanto natura politica prima che etica, e fungerebbe da criterio motivante l’agire umano a darsi sensi pluriversi in termini di significazioni e di direzioni mai concluse. Il respiro affermativo di una siffatta vita buona contempla inoltre una mole di considerazioni di ordine etico e politico sufficienti per non lasciarsi distrarre da seduzioni metafisiche sull’infinito, giacché l’ossessione della finitudine trova compensazione nell’infinità delle correlazioni possibili attente a moltiplicarsi secondo proliferazioni orizzontali, curando con speciale attenzione il divieto dell’insorgenza di gerarchie verticali, il che rappresenta il succo del conflitto politico per definizione tra autorità e obbedienza, tra dominio e libertà, tra libertà e illibertà comunque si manifesti in veste immanente (nel senso del suo autotrascendimento) o trascendente.

 



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