Abbiamo visto nella prima parte di questo lavoro come il film di Abrams, Star Wars VII, possa essere considerato il paradigma perfetto del film-simulacro che duplica attentamente il modello originario proposto dalla produzione cinematografica degli anni ’80; ed è emerso che tale operazione di riproporre film propri della filmografia della Hollywood reganiana, operazione che caratterizza un particolare fenomeno attuale, nasca dall’intento di recupero di un modello di cinema inteso come “fabbrica dei sogni”, capace cioè di realizzare spettacoli immersivi, coinvolgenti per un vasto ed eterogeneo pubblico e in grado di sviluppare un linguaggio emozionale, ludico, mitopoietico che catturi con successo il lato demens e ludens di ogni spettatore. Così se da un lato la trilogia originaria di Star Wars di Lucas si offre come archetipo perfetto di quella concezione propria del cinema degli anni ’80, dall’altro lato il film di Abrams risulta esempio eloquente di quel film-simulacro intento a riproporre pedissequamente lo spettacolo-sogno caratteristico di quell’ormai lontano decennio cinematografico.
In questo modo emerge che l’operazione condotta da Abrams per l’ultimo capitolo della saga di Star Wars non solo ricorda, come scrivevamo, il racconto di Borges riguardante l’intento di Pierre Menard di scrivere nel Novecento un perfetto doppio del Don Chisciotte di Cervantes, ma ricorda anche un’altra opera dello scrittore argentino, Le rovine circolari. Qui il protagonista si pone l’obiettivo di voler “sognare un uomo” all’interno di un tempio circolare magico, e di voler “sognarlo con minuziosa interezza e imporlo alla realtà”, in modo tale, come gli indica il dio Fuoco, che “il fantasma sognato” sia creduto da tutti “un uomo di carne e di ossa”; un compito, certo, difficile, “il più arduo che possa assumere un uomo”, quello di “modellare la materia incoerente e vertiginosa di cui si compongono i sogni” e di creare, attraverso il sogno, un simulacro di realtà; ma alla fine, dopo vari tentativi, l’uomo sognato riesce finalmente a prendere forma, assumendo vita propria, per divenire figlio del suo padre-sognatore e seguire le orme di quest’ultimo; e quando il figlio sognato si allontana facendo sorgere il timore nel padre che la sua creatura “scopr[a] in qualche modo la sua condizione di simulacro”, quello è proprio il momento in cui il padre, nella disperazione e nel tentativo di buttarsi tra le fiamme, comprende “con sollievo, con umiliazione, con terrore […] che era anche lui una parvenza, che un altro stava sognandolo”. Tale storia creata da Borges sembra, dicevamo, rimandare e descrivere in termini allegorici il lavoro di Abrams realizzato in rapporto con l’opera di Lucas: Abrams infatti, come il protagonista del racconto di Borges, intende creare anche lui un simulacro, in questo caso dello spettacolo di Lucas, duplicando pedissequamente quell’opera frutto dell’idea di un cinema-sogno specifico del regista californiano, utilizzando lo stesso registro, lo stesso impianto, le stesse armi usati da Lucas, quelli cioè propri del sogno. E come il protagonista del racconto, così anche Abrams e la sua creatura-simulacro si scoprono come il prodotto di un altro sognatore, ovvero Lucas, in quanto formati, influenzati, forgiati dal suo immaginario, dal suo modello di cinema e dai suoi lavori. Il sogno di Lucas, che ha prodotto Star Wars, ha così creato a sua volta l’immaginario di Abrams e il suo film, Star Wars VII, simulacro quest’ultimo del sogno del primo regista.
Tale centralità che assume la dimensione del sogno, o meglio l’idea di un cinema che si offre come un sogno da essere vissuto ad occhi aperti dallo spettatore, ci rimanda al modello di cinema classico, il quale, come hanno descritto prima Buster Keaton con Sherlock Jr., poi Woody Allen con La rosa purpurea del Cairo, è in grado da un lato di avvolgere il proprio pubblico per trasportarlo nell’Oltremondo finzionale, e dall’altro lato di far diffondere e far circolare nella dimensione fattuale i suoi protagonisti. Questa prassi del cinema classico ha permesso che si venisse a creare con particolare successo e forza quello che viene definito come lo stato oniroide dello spettatore, grazie al quale, scrive Metz, “lo scarto tra le due situazioni [film/sogno] tende a volte a ridursi”; il cinema classico sfrutta infatti quell’effet cinéma che, come osserva Albano, “è paragonabile al «carattere» o all’«illusione» di realtà che si ha nel sogno, a una forma di esperienza simile a quella del fantasticare e del sognare, ed è quindi assimilabile ai meccanismi di funzionamento dell’inconscio”. Si mira dunque a lavorare con le illusioni per travolgere e trascinare lo spettatore all’interno della dimensione finzionale, realizzando così quella che abbiamo definito un’onda mediale. Questo modo di intendere e fare film è proprio di una concezione di cinema di impianto classico che comincia a sorgere in forma larvale sin nelle prime opere dei Lumière e di Méliès, trovando dopo pochi anni sue profonde evoluzioni stilistiche a partire dal cinema di Griffith, in un continuo crescendo, nel corso dei decenni, delle modalità di rappresentazione e di diegesi, che ha portato alla resa di un paradigma filmico che approda negli attuali blockbuster hollywoodiani, i quali, questi ultimi, come abbiamo visto, si rifanno e recuperano un modello particolarmente suggestivo, immersivo, illusorio e ipnotico offerto alla fine degli anni ’70 proprio da Lucas, grazie alla sua prima trilogia di Star Wars. Una trilogia, questa, che segna dunque un momento importante nella storia del cinema in quanto ciascun episodio offre allo spettatore una forma di esperienza immersiva del tutto nuova, grazie anche all’uso inedito e vincente di un elaborato supporto tecnologico, che rende concreto e realizzato quel particolare “sogno” del cinema classico: quello, cioè, di offrirsi come sogno, all’interno del quale accogliere e far vivere, non solo durante la visione del film, il proprio pubblico. Come osserva infatti il critico cinematografico Leydon in The people vs. George Lucas: “con tutto il dovuto rispetto al signor Lucas non si tratta solo del suo sogno, della sua fantasia, è un universo nel quale tutti noi viviamo”; e come ricorda un fan intervistato, sempre nel documentario sul pubblico di Star Wars: “il passaggio dal film alla realtà è stato uno dei momenti più emozionanti che io abbia vissuto. Un po’ come nascere una seconda volta”, questo perché, riflette l’antropologo Frazetti, “ciò che ha fatto Lucas è un operazione molto potente che è arrivata a toccare profondamente le persone spingendole a cambiare aspetti della loro vita”.
Viste allora tali caratteristiche, la domanda che ci ponevamo era riguardante il motivo per cui Jullier definisce l’opera di Lucas come un’opera postmoderna, anzi, come l’opera che segna il momento di nascita del cinema postmoderno. Tale affermazione mette in discussione quanto abbiamo scritto, visto che, in questo modo, i tratti specifici del cinema classico riconosciuti nel lavoro lucasiano vengono messi in relazione contemporaneamente a quelli postmoderni, facendo emergere il dubbio riguardo a quale sia la vera natura di Star Wars. Per dirimere tale incertezza sarà allora utile riprendere ciò che Jullier intende per cinema postmoderno. Per lo studioso francese, in primo luogo, caratteristica di questo modello di cinema è quella di focalizzare l’attenzione al “puro piacere”, ai “piaceri semplici” all’“assenza radicale di rivendicazioni”, intento questo che non può che orientare verso la realizzazione di prodotti che risultino “ludic” e “in apparenza senza quelle domande che rappresentano il denominatore comune delle opere moderne” – la “frivolità gratuita”, specifica, scrive Jameson, del postmoderno, si sviluppa a causa del fatto che “la funzione narrativa”, come scrive Lyotard, “si disperde in una nebulosa di elementi linguistici” che determinano “l’incredulità nei confronti delle metanarrazioni”, “la decomposizione delle grandi Narrazioni”, e quindi l’assunzione di centralità del gioco, e in particolare del “gioco linguistico” –. Tale leggerezza frammista con un’indole ludica è riscontrabile nell’idea di quello che Jullier definisce, riprendendo le analisi di James, come “doppio gioco”, che consiste nel “prende[re] educatamente in giro il classicismo ma utilizza[ndo] i suoi piaceri e al contempo rivitalizza[ndoli]”. Questo gusto del pastiche – “l’unica possibile nuova forma creativa”, scrive Canova, in una dimensione, quella postmoderna, in cui il frammento “si presta a essere perennemente riutilizzato e mescolato con altri reperti sopravvissuti o provenienti da altre tradizioni” –, del recupero in veste di omaggio celebrativo e di ludico spirito irrisorio e consenziente dei caratteri del cinema classico, non può che virare verso un uso considerevole delle citazioni, delle allusioni, “sempre sotto forma di strizzatina d’occhio a uno spettatore che l’enunciatore «sa che sa» – cioè che è in grado di riconoscere l’allusione e apprezzarla”, e tutto questo si concretizza in uno spettacolo che gioca con le convenzioni artistico-linguistiche e le mette in mostra, per raggiungere quella forma di messa in rappresentazione in cui si impongono quelle che Renaud-Alain definisce come le “immagini-che-si-sanno immagini”. Alle caratteristiche appena indicate si aggiungono altre che, a differenza di queste prime, costituiscono tutte assieme un insieme riguardante l’aspetto illusorio e il grado di trasporto e di capacità di resa di un’onda mediale che un film riesce a raggiungere. Jullier indica fra queste le caratteristiche proprie del “film-concerto”, che sono composte dall’interesse nei confronti di un efficiente dispositivo tecnologico capace di dare l’illusione della “cancella[zione dell’]effetto di rimando, a favore di una dimostrazione al presente”, dal far prevalere la “dimensione sonora su quella visiva” – per la creazione di un “bagno di suoni” e di “sensazioni” in cui far immergere lo spettatore –, dal creare effetti visivi di particolare forza suggestiva e realistica come quella offerta, ad esempio, dall’immagine sintetica, dal far prevalere le “esperienze sensoriali” portando avanti in nuova e più esaustiva forma quella ricerca dell’illusione già insita nelle forme di rappresentazione classiche – proprio per questo, secondo Jullier, “il cinema postmoderno prolunga il mito dell’uva di Zeusi”, tanto che tale cinema, “nella sua versione «da fiera» più perfezionata […] tende a produrre dolci allucinazioni, che solo la ragione dello spettatore impedisce di confondere con un ambiente audio-visivo reale” –.
Quello che così emerge, da questa sintetica descrizione di alcuni dei tratti specifici del cinema postmoderno colti e analizzati da Jullier, è che questi caratteri, per diversi aspetti, risultano non sempre facilmente riconoscibili e iscrivibili dallo spettatore all’interno dell’insieme della postmodernità. Si pensi al primo gruppo di caratteri indicati e si potrà cogliere come abbiano questi delle specificità che risultano a volte non facilmente individuabili, così come non ravvisabili possono risultare i loro intenti artistici. Dall’aspetto ludico a quello citazionistico, dal piacere puramente estetico ed estetizzante all’irrisione compiacente delle convenzioni linguistiche del cinema, tutti questi risultano tratti che possono non essere colti dallo spettatore, facendo così crollare la connotazione postmoderna dell’opera. E la colpa di ciò non è solo imputabile alla preparazione dello spettatore che può non riconoscere o non avere conoscenza degli elementi culturali che vengono “messi in gioco”; il fatto è che risultano facilmente sfuggenti anche perché da un lato il registro usato usualmente dal cinema postmoderno non è tale da mettere lo spettatore in uno stato di particolare vigilanza critica e a orientarlo così a porre attenzione a ciò che viene messo in rappresentazione, dall’altro lato perché molte volte questi caratteri mancano volutamente di profondità – Jullier scrive di assenza radicale di rivendicazioni e Canova, riprendendo gli studi di Jameson, scrive che il postmoderno è caratterizzato “da una evidente mancanza di profondità”, “da un gusto della superficie”, “da una predilezione per la piattezza” –, risultando il più delle volte fini a sé stessi, inducendo così lo spettatore a non focalizzarsi su di essi.
Si pensi a Star Wars e alle allusioni al fumetto Principe Vaillant: chi è a conoscenza delle tavole di Foster può aver provato piacere nel rimando nostalgico all’opera fumettistica o “nel vedere citate quelle avventure medievali in un contesto science-fiction high-tech”. Ma al di là di questo piacere, tale rimando può facilmente passare inosservato, adombrando di conseguenza quel carattere postmoderno del film fino a far svanire quella particolare essenza – stesso discorso vale per un più generale rimando, analizzato da Arecco, della “scrittura filmica” e dello “stile di montaggio” del film di Lucas al “fumetto classico (stampato e televisivo)” –. Uno, quindi, dei motivi principali per cui le caratteristiche postmoderne non risultano facilmente rilevabili è che la forma e i contenuti che giocano a decostruire l’impianto classico si offrono in termini piuttosto esili e limitati, di gran lunga meno incisivi e profondi rispetto invece a quanto realizza il cinema moderno. Questa esilità di diversi dei tratti postmoderni li orienta ad essere percepiti e fruiti come caratteri propri e consueti del cinema classico. Pulp Fiction, ad esempio, opera di uno dei più riconosciuti maestri contemporanei del postmoderno, Tarantino, è un film che, scrive Jullier, “scherni[sce] certe convenzioni del film hollywoodiano, con le quali «gioca consapevolmente» (self-conscious play), pur utilizzandole per tenere lo spettatore in esercizio”; ma quanto tale intento dissacrante viene colto dallo spettatore e quanto invece è più facile che quest’ultimo si lasci trasportare dalle suggestive e violenti storie frammentate del film? Stesso discorso vale per il suo capolavoro, The Hateful Eight: la commistione tra due generi del tutto distanti, horror e il western, il rimando marcato a La cosa di Carpenter reso a partire dal ruolo attribuito a Kurt Russel, la messa in crisi dell’impianto drammaturgico filmico con la ricerca di una teatralizzazione della scena, la riflessione metalinguistica a cui invita “la recita nella recita” suggerita dall’azione del gruppo criminale, tali aspetti quanto riescono ad essere colti per la loro natura postmoderna e quanto sono invece percepiti come elementi spettacolari che servono solo a incentivare il trasporto e coinvolgimento emotivo dello spettatore?
Questo problema di non facile riconoscimento è invece nel cinema moderno meno presente in quanto il registro usato, gli intenti preposti dall’autore, le scelte operate, risultano tutti particolarmente incisivi ed evidenti, tali da spingere lo spettatore, anche quando non riesce a cogliere chiaramente i fini del regista, a mettere in atto un certo tipo di atteggiamento particolarmente critico e vigile, e ben poco rilassato e coinvolto emotivamente; gli viene insomma ostacolato a lasciarsi trascinare dall’onda mediale, la quale, con il cinema moderno perde la propria forza attrattiva e trasportante, differentemente dal cinema postmoderno in cui si mantiene alterata la sua potenza con una forza simile a quella che connota il cinema classico.
Il cinema postmoderno può dunque non essere facilmente riconoscibile e catalogabile all’interno dell’insieme del cinema classico, in quanto le sue forme di messa in gioco delle prassi filmiche più consolidate e più consuete si offrono attraverso una modalità non particolarmente incisiva – quando invece si presentano in una veste più marcata e di spessore più profondo, vengono allora più facilmente considerate di appartenenza del cinema moderno –. Vi è inoltre un altro elemento da prendere in considerazione: ovvero che il cinema classico in generale, e più specificatamente il cinema hollywoodiano, che è la perfetta incarnazione di quello classico, ha sempre dimostrato, come scrive King, “la sua capacità di assorbire elementi stilistici da altri cinema senza subire una trasformazione significativa” – basti vedere come in passato siano state accolte e fatte proprie diverse ricerche stilistiche condotte dal cinema espressionista e da quello sovietico –. In questo modo molte delle operazioni condotte dal cinema postmoderno rischiano d’essere accolte dal cinema classico e recepite, ancora una volta, come espressioni di quest’ultimo, proprio perché “lo stile classico di Hollywood si caratterizza per un notevole grado di flessibilità”, per la sua capacità di accogliere e fare proprie le innovazioni che sovvertono le convenzioni note, rendendo subito tali innovazioni delle consuetudini.
In ultimo va tenuto conto che quel secondo insieme di caratteri descritti da Jullier riguardante il cinema postmoderno, è caratterizzato in generale dall’intento di accentuare il grado di illusione della rappresentazione filmica; ora, tale insieme, maggiormente rispetto al primo, non può che avvicinarsi e confondersi ancora di più con le caratteristiche del cinema classico, questo perché è specificità proprio di quest’ultimo accentuare il grado delle illusioni, per rinforzare la propria onda mediale e trasportare così il proprio spettatore in quella dimensione di sogno proposta dal film.
Insomma il cinema classico e quello postmoderno si trovano molte volte non solo a convivere uno stesso territorio ma anche a sovrapporsi e confondersi l’uno con l’altro ottenendo come risultato la supremazia dei valori classici che fanno soggiacere e fagocitano quelli postmoderni, proprio perché molte volte esile risulta la modalità di differenziarsi, schernire, contrastare lo spirito classicista del cinema – mentre dall’altro lato i suoi episodi più riusciti di critica, scherno, decostruzione del cinema classico, vengono più facilmente derubricati come espressioni proprie del cinema moderno –.
Una condizione di convivenza con il cinema classico non è certo solo diagnosticabile nel cinema postmoderno, ma lo si può riconoscere anche in diversi episodi del cinema moderno, sebbene quest’ultimo si caratterizzi particolarmente per quel suo anti-classicismo, messo in luce da Rivette e riconosciuto, osserva Aumont, come “araldo della modernità”.
Scrive infatti Tinazzi che “sarebbe un errore, come è intuibile, operare una cesura netta tra cinema della «classicità» e cinema della «modernità»”, questo in virtù anche del fatto che “ammesso che le due modalità siano definibili con qualche precisione, troviamo […] autori che non intendono separarle”, aspirando a “rendere compatibili innovazione e tradizione”. Come, inoltre, ricorda De Gaetano, anche Deleuze evidenzia come molti autori e le loro corrispettive opere risultino “classici e moderni allo stesso tempo”; spiega infatti De Gaetano che “il cinema è stato ed è, allo stesso tempo, classico e moderno perché animato da almeno due tendenze: una che lo spinge verso la forma organica della rappresentazione e il concatenamento associativo e integrativo delle immagini; l’altra che lo porta a «forzare» lo statuto rappresentativo verso una Forma pura e un cinema di simulazione che rimanda al falso raccordo fra immagini costantemente sottratte alla loro identità”.
Ma se una convivenza si palesa tra cinema moderno e quello classico, tra quest’ultimo e quello postmoderno si riscontra invece molte volte, e più facilmente, non tanto una convivenza quanto una confusione tra i due, con il primeggiare però delle istanze classiciste; questo perché, come è emerso, più che contrastare e decostruire le convenzioni e le illusioni del cinema classico, il cinema postmoderno risulta più orientato ad una ricerca di una forma di spettacolo che mira ad accentuare le illusioni e il coinvolgimento emotivo dello spettatore – ricordiamo che Jullier riconosce un profondo legame che intercorre tra il trompe-l’oeil di Zeusi e il cinema postmoderno –. Paradigmatico a riguardo è lo Star Wars di Abrams il quale, anche solo per il suo offrirsi come film-simulacro dell’opera di Lucas, potrebbe essere inteso come un’opera postmoderna che gioca a rivisitare un modello perfetto e vincente di cinema del passato, di duplicarlo, e di divertirsi, con la complicità dello spettatore, a rivivere e a rimandare a personaggi, momenti, scene che hanno fatto la storia dello spettacolo filmico – seguendo in questo modo un modello di duplicazione postmoderna simile a quello realizzato da Gus Van Sant con il suo Psycho –; ma in realtà pare invece più vicino alla realtà il fatto che Abrams abbia ripreso e duplicato l’opera di Lucas al fine di continuare a percorrere e ricalcare quella strada già battuta propria del cinema classico che, come perfettamente fece il film di Lucas, si offre come un insieme di avvolgenti e affascinanti illusioni che trasportano lo spettatore in quel sogno artificiale creato dall’opera filmica. Se c’è una natura postmoderna in Lucas come in Abrams, tale natura soggiace ai principi permeabili del cinema classico.
La dichiarazione del gioco è la chiave dell’arte moderna, ha detto Mario Missiroli; quello postmoderno è anch’esso un gioco che si dichiara, ma in una forma così coinvolgente e spettacolare, e a tratti superficiale, da essere intenso molte volte in stretto rapporto di continuità con il cinema classico, quasi come un’evoluzione di quest’ultima, mettendo in ombra quell’intento dissacrante e ludico che riconosce, riprendendo le parole di Lyotard, la fine delle grandi Narrazioni.
Dunque, per concludere, e dipanare il nostro dubbio iniziale, possiamo dire che se Star Wars è un film postmoderno ed è anche, soprattutto, un film così coinvolgente da esprimere e racchiudere perfettamente l’anima del cinema classico. Ed è proprio tale anima che oscura e ingloba quella componente postmoderna, la quale, quest’ultima, digrada per lasciare ampia e libera espressione al potere e al fascino del cinema-sogno; un potere e un fascino che Abrams, con il suo Star Wars VII, ha inteso riproporre mediante la creazione borgesiana di un simulacro del sogno di Lucas.
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