Negli ultimi anni le coste più meridionali di Europa si sono convertite nel punto di accesso principale per un flusso molto consistente di persone che, in parte per motivi di sicurezza, in parte perché attratte dall’aspettativa di una vita migliore, hanno deciso di abbandonare i rispettivi paesi d’origine. Una delle principali conseguenze è stato ovviamente l’aumento delle domande di asilo e di rifugio, fattore che ha costretto le istituzioni europee a porre al centro dell’agenda politica il tema della gestione dei flussi migratori.
E’ fondamentale tenere costantemente vivo il dibattito sull’immigrazione, essendo questa una tematica estremamente attuale e la cui gestione comporta ripercussioni reali tanto sulla sorte di coloro i quali necessitano protezione, quanto sull’equilibrio socio-politico del paese di ricezione.
I fenomeni migratori del resto rientrano tra quelle questioni che necessitano di una continua rilettura giuridica e il loro carattere mutevole rende la dottrina protagonista di una perenne ricerca delle soluzioni che possano adattare al meglio il diritto ai diritti della persona umana.
Nello specifico, ed in riferimento alla situazione attuale circa la situazione migratoria europea (più volte definita quale una vera e propria “crisi” di rifugiati), la regolamentazione del diritto di asilo assume una rilevanza fondamentale per la tutela dei diritti umani di coloro che giungono sulle nostre coste in cerca di protezione internazionale.
Di conseguenza, non è forse prioritario domandarsi se la codificazione comunitaria europea di tale diritto sia effettivamente completa e in grado di assicurare la protezione di chi la richiede, o se al contrario essa presenti alcune carenze che potrebbero essere sanate tramite una revisione delle normative vigenti?
Sul piano comunitario, le materie dell’asilo e della protezione sussidiaria sono regolate dall’articolo 78 del trattato sul funzionamento dell’UE (ex articolo 63, punti 1 e 2, e articolo 64, paragrafo 2, del TCE) il cui punto primo sancisce che «l’Unionesviluppa una politicacomune in materia di asilo, di protezione sussidiaria e di protezione temporanea, volta a offrire uno status appropriato a qualsiasi cittadino di un paese terzo che necessita di protezione internazionale e a garantire il rispetto del principio di non respingimento. Detta politica deve essere conforme alla convenzione di Ginevra del 28 luglio 1951 e al protocollo del 31 gennaio 1967 relativi allo status dei rifugiati, e agli altri trattati pertinenti.»
Tanto la convenzione di Ginevra del 1951, quanto la dichiarazione sull’asilo territoriale del 1967, furono redatte dalla comunità internazionale sulla base della dichiarazione universale dei diritti dell’uomo del ’48 (il primo documento con valenza giuridica ad occuparsi dell’asilo territoriale) il cui articolo 14 ne regola l’attuazione; ciononostante, gli stessi termini utilizzati per disciplinare il diritto di asilo lasciano un margine di incertezza piuttosto ampio circa le reali possibilità che questo venga effettivamente concesso a chi ne faccia richiesta.
Come stabilisce l’articolo 14 della dichiarazione del 1948, ogni uomo ha il diritto di cercare e di godere dell’asilo in altri paesi; nonostante l’articolo fosse stato redatto per assicurare la tutela degli individui in cerca di protezione, l’utilizzo dei termini tramite cui si esprime spoglia l’individuo della soggettività del diritto in questione; ovvero, il fatto che gli sia assicurata la possibilità di cercare e chiedere asilo dalle persecuzioni, non toglie che gli sia negata la certezza di poterlo ottenere, eventualità che di fatto è rimandata alla volontà degli Stati incaricati di esaminare la domanda ricevuta.
In altre parole, piuttosto che il singolo individuo, è lo Stato che mantiene ed esercita – a propria discrezione – il diritto di scegliere chi ammettere all’interno dei propri confini, senza per questo incorrere in alcuna responsabilità a livello internazionale.
Considerando l’asilo unicamente come atto umanitario (e volontario), i governi hanno voluto liberarsi di un carico giuridico eccessivo che li avrebbe potuti vincolare all’obbligo di concedere l’asilo a chiunque facesse richiesta di protezione. Spogliati dunque della certezza di poterne fare uso (eventualità che rimane soggetta a decisioni politiche) gli individui verrebbero tutelati secondo la libera applicazione di criteri umanitari soggettivamente interpretati dai singoli governi.
Dunque, il primo dubbio circa la regolamentazione giuridica del diritto d’asilo riguarda il tipo di vincolo che esso viene a creare tra il singolo individuo e lo Stato; il fatto che i paesi non abbiano responsabilità giuridiche potrebbe rappresentare uno svantaggio per i richiedenti asilo? E ancora, pensare di introdurre un obbligo vero e proprio (vestendo in tal modo gli individui della soggettività di poterlo effettivamente rivendicare) potrebbe essere utile per assicurarsi che gli Stati non manchino di concedere l’asilo quando necessario?
Una simile problematica rischia di emergere in tutta la sua evidenza nel caso in cui il flusso migratorio aumentasse di intensità. Nel caso europeo la difficoltà riscontrata nella gestione logistica dei rifugiati è andata ad aggiungersi alla pressione migratoria delle ultime decadi, generando un sentimento di insofferenza tra la popolazione di un continente economicamente sempre più debole.
Nonostante l’aumento delle richieste di asilo sia una ovvia conseguenza di squilibri e disordini geopolitici (motivo per cui la maggioranza di coloro che richiedono protezione in Europa sono siriani o comunque provenienti da zone politicamente instabili), tale incremento non risulta essere stato accompagnato da un’apertura maggiore da parte degli Stati europei ricettori; il criterio umanitario sulla base del quale i governi europei avrebbero dovuto concedere l’asilo, non è stato evidentemente sufficiente.
Al contrario, in ambito politico e mediatico ha guadagnato terreno il discorso sulle quote di ricollocamento e quello sul reato di immigrazione clandestina, come se la priorità dell’Europa dovesse essere quella di difendersi da un’invasione di rifugiati; tale reazione non avrebbe potuto che sollevare serie perplessità circa la capacità degli stati Europei di riuscire ad essere coerenti con quanto enunciato dai trattati internazionali.
I limiti che gli Stati europei hanno dimostrato di incontrare nel concedere protezione in modo conforme ai principi umanitari da loro stessi rivendicati, si sono tradotti nell’utilizzo di una serie di procedure deterrenti, chiaramente volte a limitare la possibilità di concedere l’asilo territoriale. Basti pensare all’impiego delle ingenti forze di polizia utilizzate alle frontiere (tra cui Ceuta, Melilla, Malta, Sicilia e le sue isole, o Evros e quelle dell’Egeo) alle procedure sommarie (e talvolta collettive) di rimpatrio effettuate, o ancora all’innalzamento e alla costruzione di barriere fisiche ai confini frontalieri.
Se da un lato la giurisprudenza europea sembra pronta ad affermare l’asilo quale diritto garantito, allo stesso tempo la normativa comunitaria non ha mai subito le necessarie modifiche per poter risultare vincolante.
Sulla base dei principi dell’articolo 78 del TFUE vennero emanate una serie di direttive per ovviare alle problematiche causate dalla regolamentazione autonoma del diritto di asilo da parte degli stati membri: tra queste ad esempio, la direttiva 2004/83 (successivamente sostituita dalla 2011/95) venne creata per determinare gli standard comuni tramite cui qualificare gli individui quali beneficiari di protezione internazionale; la direttiva 2008/115, contenente le norme comuni per il rimpatrio di cittadini terzi; o ancora la direttiva 2013/32, volta invece a stabilire una procedura comune per garantire protezione internazionale.
E qui giungiamo alla seconda problematica relativa alla disciplina del diritto in questione, ovvero l’assenza di una concertazione legislativa comunitaria della materia d’asilo.
Effettivamente, e malgrado sia stata più volte ribadita la necessità di occuparsene in base a norme giuridiche condivise, questo continua ad essere incorporato nel diritto interno dei singoli stati membri, cosa che di fatto li lascia liberi di prendere scelte indipendenti secondo la propria regolamentazione.
Ma quali sono i rischi maggiori derivanti da una simile gestione?
Il fatto che non siano stati stabiliti criteri comuni (ricordiamo in proposito che ancora non esiste una definizione universalmente accettata del concetto di asilo territoriale), lascia un margine di azione molto ampio ai singoli Stati, i quali potrebbero privare più facilmente gli individui del diritto alla protezione.
Ad esempio, all’indomani della strage di Parigi, le autorità macedoni così come quelle slovene, serbe e croate, decisero unilateralmente di rafforzare i controlli alle rispettive frontiere e di lasciare entrare sul proprio territorio i migranti in base alla loro nazionalità. Secondo tale disposizione avrebbero potuto attraversare il confine solo gli individui con nazionalità afgana, siriana e irachena. Inutile dire che una simile contromisura è in netto contrasto con la dichiarazione universale dei diritti dell’uomo, il cui articolo secondo vincola gli Stati a non applicare alcuna distinzione nei confronti degli individui sulla base del loro statuto politico, giuridico o internazionale del paese o del territorio di loro appartenenza.
Non esistendo una legislazione condivisa, il controllo sull’effettiva tutela dei diritti umani potrebbe essere meno rigido e meno efficace, cosa che ha effettivamente reso possibile che si verificassero respingimenti illegali di massa da parte di alcuni Stati europei (nello specifico alla frontiera tra la Turchia, la Grecia e la Bulgaria) e dunque la violazione del principio del non refoulement.
Va ricordato che il refoulement, ovvero il rimpatrio forzato di una persona verso un paese in cui rischierebbe grave violazione di diritti umani, è vietato nel diritto internazionale secondo l’articolo 3 della dichiarazione delle Nazioni Unite sull’asilo territoriale e secondo l’articolo 33 della convenzione di Ginevra sullo statuto dei rifugiati, il quale proibisce il trasferimento di chiunque verso un luogo in cui la sua vita e le sue libertà siano a rischio. Il divieto di respingimento è applicabile ad ogni forma di trasferimento forzato, compresi la deportazione, l’espulsione, l’estradizione e la non ammissione alla frontiera.
Ciononostante, negli ultimi anni si sono verificate molteplici violazioni del principio di non refoulement e ciò in parte perché non sono mai state prese le necessarie contromisure volte ad assicurare che le persone in cerca di asilo potessero rivendicare il proprio diritto di essere protette.
Anche per quel che riguarda la procedura di rimpatrio bisogna tenere in conto di una serie di problematiche. Il rimpatrio potrebbe effettivamente essere effettuato nel caso in cui un individuo non riuscisse a dimostrare di avere il diritto di poter beneficiare dell’asilo e solo nel caso in cui il suo paese di provenienza venisse qualificato come “sicuro”.
In termini generali, un paese è considerato sicuro nel caso in cui all’interno del suo territorio non si verifichino persecuzioni, atti di tortura ecc; tuttavia, tenendo conto del fatto che non esiste un elenco di paesi terzi considerati sicuri condiviso dalla totalità degli stati membri dell’Unione Europea (proprio perché il parere di alcuni di essi non converge con quello di altri circa il grado di sicurezza di determinati paesi, quali ad esempio la Turchia), è possibile che un individuo venga rimpatriato in un paese considerato sicuro solo da alcuni di essi.
Inoltre va considerato che il sistema di asilo risulta essere più efficiente in alcuni paesi rispetto che in altri; ciò implica l’eventualità che ci siano differenze di trattamento degli individui, i quali potrebbero vedere la loro richiesta accettata piuttosto che respinta a seconda di dove venga presentata la loro domanda.
La dichiarazione delle Nazioni Unite sull’asilo territoriale del 1967, così come la conferenza dei plenipotenziari delle Nazioni Unite del 1977 avrebbero potuto essere due ottime opportunità per eliminare ogni ambiguità a riguardo, tuttavia in nessuna delle due occasioni si riuscì a raggiungere un accordo che potesse vincolare gli Stati membri ad una regolamentazione comune del diritto d’asilo.
In ultimo, tale mancanza mette in discussione la funzionalità del sistema Schengen, uno dei pilastri dell’Unione Europea circa la libertà di circolazione degli individui; in altre parole, come sarebbe possibile costruire uno spazio comune di libertà, sicurezza e giustizia se il diritto d’asilo, le politiche di integrazione e le politiche di controllo delle frontiere continuassero ad essere regolate individualmente?
Chiaramente, sarebbe imprescindibile che ogni Stato membro ceda parte della sua sovranità per quel che riguarda le decisioni da adottare in materia di immigrazione, eppure i singoli interessi nazionali sembrano continuare ad avere la priorità a discapito di una concertazione legislativa degna dell’Unione Europea.