L’ultimo romanzo di Siri Hustvedt intesse un narrato multigenere dal quale affiorano nuovi e consolidati interrogativi sullo stato dell’arte. Il “Mondo sfolgorante” ipotizza il persistere di un pregiudizio misogino che soffocherebbe il lavoro delle artiste relegandolo ad un mercato e ad una diffusione di seconda scelta, limitati dall’appartenenza di genere.
Questa la condanna di Harriet Burden costretta a pagare tre artisti maschi, tre gost-artists alla rovescia, che, per merito del loro sesso, avrebbero garantito la libera esposizione delle sue opere.
La vita finzionale della Burden inizia nel 1999 e si conclude nel 2003, un intervallo temporale contiguo ad anni durante i quali, nella realtà contingente, artiste ancora oggi consacrate da pubblico e critica tracciavano le linee portanti dell’arte contemporanea e del suo mercato.
L’ambiente culturale della Hustvedt sembra essere stranamente ignaro della potenza comunicativa di Cindy Sherman e Marina Abramovic o delle sfrontate narrazioni visive di Sarah Lucas e Sophie Cale.
Le opere d’arte non possono essere filtrate da una tassonomia di genere.
Possiamo sostenere la possibilità di attribuire ad una stessa opera una pluralità di significati contrastanti e dicotomici determinati unicamente dall’aver attribuito all’artista un sesso maschile o femminile? O parallelamente possiamo affermare l’esistenza di un’intersessualità creativa capace di annullare i generi e riconoscere nell’artista un essere universale e non neutro?
A smentire la necessità di castranti quote rosa troviamo una densa presenza femminile nelle più importanti esposizioni d’arte, due delle quali, fino ai primi mesi del 2016, saranno interamente dedicate allo sguardo fotografico delle donne.
Casa Cavazzini a Udine espone Tina Modotti mentre la stupenda Casa dei Tre Oci, nell’isola veneziana della Giudecca, propone un’analisi della fotografia dal 1929 ad oggi.
L’unione delle due mostre racconta la totalità della fotografia contemporanea, agli estremi l’embrione del reportage sociologico e la staged photography.
La staged photography appartiene all’arte, è strutturata, progettata per dare forma visiva ad un’idea, è la rappresentazione mediata e traslata di una possibile realtà anche quando l’obiettivo del fotografo intercetta un’immagine del reale che, in seguito, sarà caricata di un significato diverso, altro o generale.
Il reportage, al contrario, garantisce un’univocità interpretativa fissata su supporto fotografico, una verità immutabile che non ammette sovra-letture.
La fotografia di reportage parla al passato. Il tempo del reportage è, per definizione, chiuso, finito, concluso.
Il tempo della staged photography reitera in perpetuum il presente. In ogni istante, ad ogni nuova osservazione, si riattiva e riconferma il momento narrativo dello scatto, un presente rinnovato all’infinito dal guardare dell’osservatore e dalle sue molteplici e personali letture.
Se il tempo dello scatto è aderente alla contemporaneità il ripristino del presente sarà concettuale e formale, nel caso di immagini già datate la riattivazione del presente diventerà riattivazione di un possibile ricordo intimo o collettivo nel contemporaneo.
Alla Casa dei Tre Oci Yael Bartana rimette in scena l’impianto compositivo di un reportage condotto dai coniugi Leni e Herbert Sonnenfeld nelle comunità ebraiche degli anni Trenta e Quaranta.
L’azione fotografica della Bartana trasforma la pura registrazione del reale in un’identica staged photography che è rappresentazione di un’idea.
Entrambe le serie, quella degli anni Trenta e quella del duemilaotto esprimono un unico pensiero: l’eroismo quotidiano e spicciolo di una commistione di uomini decisi a vivere in pace sulla terra d’Israele.
Mentre le immagini dei Sonnenfeld sono chiuse, finite perché rappresentano e dichiarano gli eventi di quel tempo, quelle della Bartana sono aperte a molteplici interpretazioni e ricollocazioni geografiche e temporali.
Alcune opere della Modotti sono l’anello necessario e mancante a sovrapporre reportage a staged photography dissolvendo un genere nell’altro.
Tina Modotti fotografa una donna incinta, in braccio porta la nudità di un altro dei suoi figli. Il bambino rivolge la schiena all’obiettivo.
Era il 1929, Tina Modotti si trovava a Tehuantepec per fotografare il dolore dell’indigenza popolare messicana, i suoi proto-reportage sociologici avevano un’eco potente tra la comunità intellettuale messicana e americana ma anche all’interno del partito rivoluzionario che amplificò la forza di quelle immagini a scopo propagandistico e politico.
Ma quando la Modotti entrò in camera oscura, decise di inquadrare diversamente quell’immagine.
Con un errore di parallasse volontario ed esasperato tagliò la testa della madre. L’azione della Modotti ha trasformato quella madre nell’idea universale di una maternità infragilita dalla povertà eppure ancora fiera di partorire, accudire e crescere i propri figli.
Dopo il taglio l’immagine non sarà più reportage, l’impossibilità di un’identificazione specifica della donna e del suo bambino aprono il tempo finito ritarando la sua durata in parametri di eternità.
“Madre e bambino” diventa una staged photography che rinnova, ad ogni sguardo dell’osservatore, la possibilità di una reiterazione del presente.
Anche le fotografie di Letizia Battaglia sono borderline, territorio neutro tra reportage e fotografia d’arte e reportage e fotografia d’arte insieme.
Dopo le immagini dei mortiammazzati per strada, dei cadaveri bagnati dalla pozza orrifica del loro stesso sangue, la Battaglia abbandona l’orrore della cronaca per guardare il dolore. Fotografa chi è rimasto, la tristezza della mancanza e la rabbia che rivolge agli altri chi non può più permettersi di fidarsi di nessuno, di chi è convinto, per esperienza, che il mondo non possiede giustizia o spensieratezza.
In “Donna che piange la sua miseria. San Vito Lo Capo. 1980” la Battaglia inquadra strettamente il pianto stanco e consumato di una donna, nel fondo la sfocatura di una casa e una presenza che potrebbe essere familiare.
Non è determinante che il pianto della donna trapanese, nel momento in cui la Battaglia lo ha fissato, fosse reale, che la fotografa abbia chiesto alla donna di guardare in macchina, di mettersi in posa, l’importante è che sia un pianto simile ai tanti, a tutti quelli fatti per sfiatare un po’ del suo dolore. Un pianto che, anche se finzionale, è rappresentazione di tutte le lacrime reali che la donna è stata costretta a versare, rappresentazione della realtà che vive ogni giorno.
Le mostre di Casa Cavazzini e Casa dei Tre Oci presentano anche la più piena e completa realtà del corpo delle donne.
Lo sguardo etereo della Modotti e di Roni Horn sono gli occhi fieri delle matriarche tehuanas negli anni Trenta e quelli fragili dei primi piani contemporanei immersi nell’acqua di piscine che confondono l’irritazione per il cloro con il dolore delle lacrime.
Le millimetriche mutazioni di espressione inducono l’osservatore ad usare un rapporto visivo ed emozionale ravvicinato, ad attivare la maggiore attenzione possibile.
L’apparente fissità dello sguardo e la ripetizione seriale convincono a dilatare il tempo di osservazione nella speranza di poter cogliere ogni sfumatura. In quel tempo, ci appropriamo di uno sguardo che, alla fine, ci appare di sfida.
Siamo appagati dall’aver scoperto che un’ipotetica fragilità si è rivelata una forza potente capace di sostenere quello stretto mettersi a nudo davanti all’obiettivo della Horn e, in seguito, davanti ad ogni osservatore, il desiderio spavaldo di presentarsi non come una solida e stupidamente immutabile individualità ma come un ego in continuo e instancabile movimento, un perpetuo, anche se impercettibile, dinamismo.
Lo sguardo della Tehuana con cesto-zucca inquadrato dalla Modotti sempre nel 1929 prende luce da una consapevole fierezza che fa alzare il mento e allungare lo sguardo verso orizzonti non ancora visibili, iconografia dei rivoluzionari non solo giovani e non solo belli.
Le donne di Zanele Muholi sono lesbiche africane che, dichiarando il loro amore elettivo, affettivo ed erotico per altre donne, hanno sfidato il ben pensare che le circonda ma anche la legge delle loro famiglie e del loro paese. Posano la loro conquista in ritratti di impianto classico e celebrativo che esaltano la scelta di palesare il loro orientamento sessuale ignorando lo strascico di violenze fisiche e psicologiche che le loro dichiarazioni avrebbero causato.
Sono sguardi di donna i ritratti che Bettina Rheims ingaggia su Facebook. Donne in transizione che hanno volontariamente abbandonato la solitudine del privato rendendo pubblico, con uno scatto, il loro tendere al femminile.
Le immagini hanno una patina glamour da rivista di moda, ma gli sguardi di Valentin, Joaquin e Malvin usano una lascivia erotica che nasconde, in superficie, l’intima e impaziente tristezza di non aver ancora concluso un percorso che le porterà ad ottenere il corpo e il genere che hanno desiderato avere.
I seni progettati, belli come ogni donna XX vorrebbe avere, contrastano solo apparentemente con peni, testicoli e peli, perché i loro sguardi sono perfettamente femminili, esternazione di un essere donna tutto interiore che vuole trasudare in superficie con potenza inarrestabile.
Dian Arbus, in una New York anni sessanta, fotografava il corpo maschile di un ragazzo vestito di un solo completo intimo femminile corredato da calze di trasparente seta. Nei suoi occhi il desiderio, simile a quello delle bambine, di riempire un reggiseno indossato per vezzo.
L’obiettivo della fotografa è dolce, comprensivo e spietato.
Il ragazzo guarda l’osservatore negli occhi: «Sono così come mi vedi, indifeso, più a nudo di un nudo integrale, perché la mia totale nudità diventerebbe un’armatura, una protezione che, mostrando la normalità di un corpo inequivocabilmente maschile, nasconderebbe la complicata fragilità del dichiarare pubblicamente il desiderio di essere altro, di sentirmi all’esatto opposto del genere a me destinato dalla casualità del concepimento».
Le mostre delle Case udinese e veneziana propongono opere create in tempi tra loro lontani ma simili per difficoltà politiche e culturali.
Raccontano il bello, anche quello sublimato dell’orrore e della sofferenza, attraverso il filtro estetizzante dell’arte, attraverso una rappresentazione finzionale della realtà che non è frivolo make-up dell’oggi ma uno dei canali possibili con cui e da cui guardare la contemporaneità.
Ogni scatto e il racconto in esso contenuto diventano educazione alla bellezza, un esercizio capace di ostacolare qualsiasi livello di violenza e aggressività. Un’educazione che dovrebbe accompagnare il percorso di costruzione della personalità di ogni individuo, iniziare da bambini e diventare connaturata all’essere uomo contemporaneo senziente. Cogito pulchritudinem ergo sum.