PASOLINI CON LACAN: NOTE SULLA SOGGETTIVITÀ

 

 

Accostare il pensiero pasoliniano a quello lacaniano è un’operazione foriera non solo di intrecci storiografici e comparatisti molto interessanti, ma anche di un pensiero autonomo terzo, nuovo, costruito sulla diade Pasolini-Lacan appunto, produttivo di una concettualità inedita che tocca vari temi. Quello che cercheremo di mettere in luce in queste brevi note è il tema che concerne la possibilità di pensare ad un processo di soggettivazione che si ponga come alternativa radicale alle categorie di ‘mutazione antropologica’ e del ‘discorso del capitalista’. Se, infatti, caratteristica di questi due concetti è l’industrializzazione del desiderio e l’anarchia del potere neocapitalistico che distrugge le singolarità soggettive appiattendole come macchine acefale di godimento, si tratta di andare a quel luogo altissimo della produzione pasoliniana, ovvero Salò o le 120 giornate di Sodoma, in cui la teoria del discorso del capitalista di Lacan si può intrecciare profondamente con la critica al neocapitalismo operata da Pasolini. Il punto che qui ci interessa tuttavia rimane il soggetto e riteniamo essere via maestra per determinarne il contorno vedere la peculiarità del rapporto tra sublimazione e perversione che emerge in Pasolini.

Se per un verso, infatti, Salò nasce proprio come opera che mette in scena la perversione come presa diretta del reale dei corpi violentati, allo stesso tempo questa apprensione reale del reale patisce sempre del significante, è cioè per Pasolini irriducibilmente linguaggio. Il massimo della perversione infatti non è mai solo un puro pieno della Cosa, ma proprio perché vi possa essere questa apprensione del reale, è necessario riconoscerne il carattere inaggirabile di linguaggio.

Laddove, in altri termini, la sublimazione in quanto semiologia vivente della realtà, nella frequentazione a rischio della vita delle periferie e delle borgate romane degradate dal potere neofascista, produce un’opera come Salò ove sono messe in scena tutte le forme di perversione, ne consegue che l’atto creativo ha un duplice risvolto. Per un verso la sublimazione mette in forma il reale del godimento perverso poiché la creazione cui Pasolini si vota è sempre una ‘presa di distanza’ da ciò che viene rappresentato; per altro verso la perversione praticata dal poeta fino all’estremo esito della morte violenta avvenuta sul litorale di Ostia, morte in cui il desiderio che appartiene alla creazione artistica‘fa-Uno’ con il godimento del reale, non è tuttavia abolizione del linguaggio, ma iscrizione della perversione nella definitiva sublimazione linguistica.

Ne consegue che il contributo originale presente in Pasolini quanto alla relazione sublimazione/perversione si riassume nel fatto che la sublimazione è sempre intrecciata ad una forma di perversione, mentre allo stesso tempo la perversione è inconcepibile rispetto alla sublimazione di cui ne può essere l’esito ultimo.

Dal punto di vista soggettivo, ciò comporta che la singolarità nel ‘fare-Uno’ della pulsione di morte è sempre attraversata da un residuo del linguaggio che la determina secondo l’eccedenza dell’‘Io è Altro’.

La perversione in Pasolini dunque non è affatto una forma di jouissance mortifera pronta ad essere assimilata dal discorso del capitalista, ma una jouissance, un godimento, che di contro, proprio perché si pone come dispendio di sé sino al martirio come ultima testimonianza inscritta nel corpo della resistenza alla sussunzione capitalistica, lotta contro il discorso del capitalista buttandosi oltre misura al di là del principio di piacere, verso quell’eccedenza di amore che è proprio dell’encore lacaniano.

Lacan ne Il Seminario. Libro XX teorizza l’inesistenza del rapporto sessuale, in quanto possibilità di fare-Uno con l’Altro, poiché tra l’Uno e l’Altro vi è il linguaggio. Il soggetto è costretto a passare attraverso il linguaggio che lo separa dal suo corpo e dal corpo dell’Altro. Ciò fa affermare a Lacan che “il linguaggio, nella sua funzione esistente, non connota in ultima istanza che l’impossibilità del rapporto sessuale”. L’inesistenza del rapporto sessuale si scontra, radicalizzandola, con l’essenza del linguaggio secondo la quale non può esistere alcun metalinguaggio poiché non può esistere alcun linguaggio esterno al sistema del linguaggio che sia a fondamento del linguaggio stesso. Questo a sua volta implica che vi sia sempre un a-mur tra l’Uno e l’Altro. L’amore come (a)muro è la sola supplenza possibile all’inesistenza del rapporto sessuale, poiché implica il corpo sessuale ma si soddisfa attraverso il segno ed il segno è innanzitutto segno di riconoscimento di due singolarità soggettive che si incontrano come uniche ed insostituibili. Nell’amore la posta in gioco non è il godimento dell’Altro, ma il segno del soggetto; quel segno che nella sua arbitrarietà contingente è suscettibile di provocare il desiderio. In questo senso l’amore rompe il regime dell’Uno del godimento acefalo per aprire il soggetto alla contingenza dell’incontro unico ed irripetibile. L’orizzonte lacaniano tocca quello pasoliniano proprio a livello del godimento non tanto nella forma del soppiantare il desiderio, ma nella forma dell’eliminazione dell’amore. In Pasolini, infatti, come in Lacan la ‘novità’ dell’oggetto gadget del discorso del capitalista diviene culto della novità seriale anche nel rapporto tra godimento e amore. Anche per il poeta bolognese infatti l’amore è insieme l’impossibilità di fare-Uno con i sottoproletari che egli ama, che racconta nei romanzi, che filma nei films e di cui prende le parti in quanto intellettuale, ed eccesso a livello del reale del corpo così ben espresso dalla massima ‘gettare il proprio corpo nella lotta’. Per sottolineare la necessità del Due che non può mai divenire Uno, nessuno meglio di Fortini ha sottolineato come questo aspetto sia alla base dell’intero percorso intellettuale di Pasolini, ovvero la duplicità e l’ubiquità polare di una contraddizione che non si media mai in un terzo. Se dunque il tratto sinecioso è cifra del suo concetto di amore e se questo amore si produce scontrandosi contro lo spigolo duro che è il reale dell’Altro appartenente al sottoproletariato o ai corpi dei giovani africani e mediorientali incontrati durante le riprese dei suoi films, l’encore pasoliniano è il continuare incessantemente a gettare il proprio corpo nella lotta, a stare dentro il reale, a viverne la distruzione neocapitalista come in Salò e nelle drammatiche circostanze della sua uccisione.

Come sostiene Slavoj Žižek, il reale lacaniano dell’(a)muro non è semplicemente esterno al simbolico ma è, piuttosto, il simbolico stesso privo della propria esternalità, della sua eccezione fondante. Ne consegue che “il fatto di non poter mai ‘conoscere appieno’ la realtà non è allora un segno della limitatezza della nostra conoscenza, ma il segno che la realtà stessa è ‘incompleta’, aperta […]”. L’interpretazione žižekiana del rapporto tra reale e simbolico ricalca quella che abbiamo proposto in Pasolini. Per il poeta bolognese infatti il reale del corpo si dà sempre come bordo del simbolico, è sempre cioè intrecciato al simbolico, come linguaggio della realtà, poiché la realtà è linguaggio. Si tratta dunque di “trasporre l’incompletezza e l’apertura (il sovrappiù del virtuale sull’attuale, del problema sulle sue soluzioni) nella cosa stessa”.

Anche in questo caso, proprio come avevamo visto nel rapporto tra perversione e sublimazione, siamo di fronte ad una soggettività che si costituisce nell’eccedenza dell’unione tra l’incontro con l’impossibilità del reale e la mediazione simbolica, in cui l’encore come esperienza del segno d’amore è sempre anche en-corps, ovvero reale del corpo. Una soggettività ‘sempre aperta’ all’Altro e sempre attraversata dalla finitudine, poiché segnata dal carattere del non-Tutto antitotalizzante che caratterizza quella che acutamente Žižek definisce la virtualità del simbolico.



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