Credo che possa essere molto istruttivo parlare di una serata di improvvisazione collettiva al fine di trarne considerazioni più generali sulla funzione dell’improvvisazione e le sue modalità. Si è svolta in uno studio di registrazione ed è durata circa un’ora e mezza, con qualche strascico successivo. I partecipanti suonavano i seguenti strumenti: iPad (a opera delsottoscritto), un contrabbasso, un basso elettrico, un sassofono e due chitarre elettriche, per comodità espositiva denominate d’ora in poi prima e seconda chitarra.
Questi gli influssi dichiarati dei musicisti: Prima chitarra: Kenny Wheeler, Bill Frisell, John Zorn; seconda chitarra: Wes Montgomery, György Ligeti, Jim Hall; Basso elettrico: Jaco Pastorius, Miles Davis, Ornette Coleman; Contrabbasso: Frank Zappa, Thelonious Monk, Charles Mingus; Sassofono: Massimo Urbani, Art Pepper; iPad: Soft Machine, Cecil Taylor, Karlheinz Stockhausen.
Penso di essere quello con più anni di pratica improvvisativa sulle spalle. Ricordo di aver cominciato con un organo Hammond facendomi accompagnare da una batteria, pensando che in tal modo avreiavuto più libertà nel muovermi su tonalità diverse. Forse è per questa pratica quarantennale che i miei compagni della sessione mi chiedono come vorrei impostare l’improvvisazione. Rispondo che non dobbiamo preoccuparci di una sequenza di accordi, di formulare una melodia o seguire un ritmo – credo di averlo detto in modo più categorico, come se dovessimo rinunciare a tutti questi elementi convenzionali. Sono fautore di una improvvisazione radicale, mentre altri miei colleghi della serata (a eccezione di uno dei musicisti, che suona abitualmente con me) hanno un’impostazione jazzistica – almeno un chitarrista e il sassofonista. All’inizio, infatti, sembriamo orientarci verso un free jazz con note piuttosto caotiche da tutte le parti. Finché qualcosa comincia pian piano a delinearsi, come accade in queste occasioni. Nell’iPad ho diversi strumenti virtuali. In questo caso ne sfrutto solo alcuni: Animoog, il cui nome è evocativo; Thumbjam, con campionamenti e miei loop registrati; Samplr, un campionatore non convenzionale, GrandPiano, un pianoforte campionato, in assenza di un pianista che avrebbe dovuto raggiungerci; Iterator, uno strumento che sfrutta il touchscreen dell’iPad, difficile da descrivere, con parecchi preset, e WorldScales, con accordature e campionamenti speciali, tra cui un coro bizantino. Con alcuni musicisti è la prima volta che suono, e anche alcuni di loro suonano per la prima volta assieme. Questo non sembra creare problemi, e la musica scorre fluida, dopo le incertezze iniziali. Con il bassista elettrico ho formato un duo di improvvisazione radicale, Ātman Sound Project, che ha coinvolto in qualche occasione la seconda chitarra. La musica spazia in un vasto ambito di generi: si mantiene il jazz, con elementi della classica contemporanea, qualche punta di rock e perfino di ambient. Non c’è da stupirsi dell’armonia generale: è come se ci fosse un’intesa, anche tra musicisti che non si conoscono. Anche quanto al volume sembra si raggiunga subito un accordo, con qualche sfasatura. Le dinamiche passano dall’alto al basso, senza escursioni brusche. Il contrabbassista ricorre spesso a effetti rumoristici, il sassofonista a note lunghe, i due chitarristi suonano in stili diversi, il bassista elettrico dà prova di virtuosismo, anche in assolo. Io manovro il sintetizzatore Animoog tenendo una nota e modulandola con effetti in real time; a fine serata mi accorgerò che l’Animoog è lo strumento che ho più usato; passo da un’applicazione all’altra, sfruttando la tastiera sullo schermo o gli effetti del touchscreen, specie con il campionatore. E inserisco spesso effetti di loop preregistrati, con scale simultanee in tonalità diverse, con Thumbjam. Con questa applicazione riesco a ottenere agevolmente diteggiature e passaggi che sul pianoforte sarebbero difficili. Mentre suono, penso a Cecil Taylor e Stockhausen, ma anche al concetto di improvvisazione di David Sylvian, largamente impiegato in album come Manafon e Plight and Premonition. Alcuni musicisti lasciano la stanza ogni tanto per poi tornare nel gruppo. Non abbiamo suonato in duo o trio, quasi sempre tutti insieme. L’incontro si conclude per caso, dopo l’applauso di una ascoltatrice entusiasta – la presenza di un pubblico, anche ristretto, sembra stimolare l’improvvisazione. Per un attimo ho l’impressione che ciò abbia fornito un pretesto, come se qualcuno di noi si fosse annoiato. I miei compagni si allontanano, tornando nella cabina di regia a parlare e a fumare, mentre io riapro l’applicazione delle scale della musica mondiale, insisto su una nota e ne vario l’altezza su una terza minore, sfruttando il preset del canto gregoriano, su una scala temperata e reiterando il pattern. Come se sentissi l’esigenza di suonare ancora o che qualcosa mi fosse rimasto dentro – un fenomeno comune in questi incontri. I due ascoltatori sembrano entrare in trance, e uno imita la danza Sufi, dietro un mio piccolo invito senza parole. Dopo circa mezz’ora di questi suoni, raggiungo gli altri, che stanno discutendo sul significato della sessione. In genere non amo le discussioni teoriche sulla musica, meno che mai dopo averla praticata. Nietzsche deplorava che Wagner componesse musica e volesse anche spiegarla. In questo caso faccio una eccezione, perché le domande dei miei compagni mi sembrano stimolanti. Una, in particolare, è provocatoria, da parte del sassofonista, il quale si chiede se questo tipo di musica non sia un soddisfacimento fine a se stesso. Ciò mi permette di esprimere il mio punto di vista. Come John Cage, non credo molto nell’interplay, nella necessità che in una improvvisazione di gruppo si cerchi per forza di cose di interagire con i compagni, assecondandone cadenze e ritmi. Mi sembra che talvolta lo si possa fare, ma che spesso e volentieri sarebbe meglio creare qualcosa in contrapposizione agli altri: la domanda e il problema mi sembrano dunque fuori luogo. Aggiungo che anche negli standard ci si può sentire soli, rispettando lo spartito senza curarsi dei colleghi, inserendo una sorta di “pilota automatico”.
Tra le proposte, l’esigenza comune, ma non mia, di rendere l’improvvisazione meno radicale: per esempio, eseguendo il tema di uno standard per poi lasciare spazio alla improvvisazione libera, e infine tornare al tema. Oppure viene suggerito di usare soltanto due o tre note o addirittura una per tutta la sessione. Oppure di suonare a volte in duo o in trio, la proposta che mi sembra meno adatta, a meno che questo modo di interagire non emerga spontaneamente.
Mi sembra di notare nei colleghi, o in alcuni di loro, una certa resistenza alla improvvisazione libera, che chiamo così, pur sapendo che la libertà totale non esiste, neanche nel free jazz più sfrenato, in cui emerge comunque una struttura, e che ognuno suona a seconda del proprio stile e del proprio background. Gli schemi improvvisativi non li concepisco frustranti, ma in parte limitano le mie possibilità o la mia visione della musica.
Mentre mi metto a discutere con gli ascoltatori, alcuni dei miei compagni tornano in sala prove a suonare… uno standard! A prescindere dalle loro motivazioni, ne emerge una musica che mi sembra incolore e inespressiva. Alcuni musicisti mi sembrano persino meno abili di quanto dimostravano nell’improvvisazione. Come se si passasse a un altro piano di realtà, meno soddisfacente; scoprirò che anche loro, in fondo, la pensano così.
Restano molti problemi sul tappeto e mi accorgo di aver dato spazio soltanto ad alcuni dei molteplici aspetti della improvvisazione libera. Ci diamo appuntamento per il mese prossimo, e alcuni si augurano, io tra questi, di alimentare una collaborazione in altri luoghi, e di trovarci più spesso in quella sala di registrazione.
I miei suggerimenti? Un grado minore di narcisismo, e meno volontà di costruire un assolo, meno senso dell’ego e meno note per un risultato migliore, anche se sono il primo ad ammettere che non dovremmo inseguire un bel risultato, in sintonia con la mia filosofia del nudo o del nonsense, che ha risvolti musicali e artistici (a riguardo, rinvio ai due miei e-book Nonsense o il senso della vita e Note ai margini del nulla, in Kindle Edition, e a Sul nudo, pubblicato da Mimesis quest’anno.)
È emerso, come già in altre occasioni, che i musicisti sono spesso bloccati da pesanti resistenze, e che soltanto superandole possono permettersi una maggiore libertà espressiva. Non si tratta tanto di acquisire una abilità tecnica superiore, spesso controproducente, quanto di coltivare il giusto grado di consapevolezza. A mio avviso potrebbe essere interessante e utile che i musicisti praticassero una forma di meditazione, anche per pochi minuti prima della sessione. Servirebbe ad affrontare l’improvvisazione collettiva con altro spirito, senza l’angoscia della prestazione o il timore del silenzio, della battuta vuota. Non dimentichiamo che Jamey Aebersold, nel primo volume della sua pregevole serie “Jazz Play-A-Longs”, suggeriva l’Autobiografia di uno Yogi di Paramahansa Yogananda – cosa che ai più poteva sembrare ostica e fuori luogo. Ciò contribuirebbe ad espandere l’area della coscienza, una catchword dei tempi andati, che potrebbe tornare di moda. A prescindere dai generi musicali praticati, nell’improvvisazione collettiva sembra svilupparsi uno stile ibrido. Giorgio Gaslini negli anni ’70 parlava di musica totale, e certi tentativi sembrano avvicinarsi a quella dimensione, rifiutando di fossilizzarsi in uno stile e spaziando dall’uno all’altro fino a conseguire un miscuglio che si spera interessante. E, perché no, divertente…