Le “due Italie”

 

 

Dopo la sbornia delle celebrazioni per il quarantennale della morte (cruenta) di Pier Paolo Pasolini, e mentre si registra un incremento (salutare) di interesse nelle sue opere, può essere utile riprenderne alcuni aspetti.

In particolare, un suo schema intimamente fantascientifico e profondamente fecondo – ancora oggi – per una comprensione autentica di che cosa è il luogo fisico e mentale chiamato Italia. Cioè, il modello interpretativo costituito dalla famosa divisione tra le “due Italie” contenuta nello stracitato e incompreso articolo Il romanzo delle stragi. Vale la pena a questo proposito citare per intero il passaggio: “Il Partito comunista italiano è un paese pulito in un paese sporco, un paese onesto in un paese disonesto, un paese intelligente in un paese idiota, un paese colto in un paese ignorante, un paese umanistico in un paese consumistico. In questi ultimi anni tra il Partito comunista italiano, inteso in senso autenticamente unitario – in un compatto “insieme” di dirigenti, base e votanti – e il resto dell’Italia, si è aperto un baratro: per cui il Partito comunista italiano è divenuto appunto un ‘paese separato’, un’isola. Ed è proprio per questo che esso può oggi avere rapporti stretti come non mai, col potere effettivo, corrotto, inetto, degradato: ma si tratta di rapporti diplomatici, quasi da nazione a nazione. In realtà le due morali sono incommensurabili, intese nella loro concretezza, nella loro totalità. È possibile, proprio su queste basi, prospettare quel “compromesso”, realistico, che forse salverebbe l’Italia dal completo sfacelo: “compromesso” che sarebbe però in realtà una “alleanza” tra due Stati confinanti, o tra due Stati incastrati uno nell’altro. Ma proprio tutto ciò che di positivo ho detto sul Partito comunista italiano, ne costituisce anche il momento relativamente negativo. La divisione del paese in due paesi, uno affondato fino al collo nella degradazione e nella degenerazione, l’altro intatto e non compromesso, non può essere una ragione di pace e di costruttività. Inoltre, concepita, così come io l’ho qui delineata, credo oggettivamente, cioè come un paese nel paese, l’opposizione si identifica con un altro potere: che tuttavia è sempre potere” (Il romanzo delle stragi, “Corriere della Sera”, 14 novembre 1974, con il titolo Che cos’è questo golpe?, pubbl. in: Saggi sulla politica e sulla società, Mondadori 2001, pp. 365-366).

Si dirà: e non è più quel Paese, e il Partito comunista non esiste più da vent’anni, e sono tutti uguali, eccetera eccetera… Appunto: ma non è la parte interessante e affascinante, e non è affatto il modo di leggere questo articolo di quarant’anni fa. È invece un messaggio alieno, da un passato lontano o dal futuro prossimo: le due Italie (i “due Stati incastrati uno nell’altro”, “un paese nel paese”) esistono ancora, eccome. Anche se i nomi sono cambiati, e le zolle hanno assunto differenti conformazioni.

 

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Questo delle due Italie è uno schema ricorrente che va estremizzato e stressato: questo doppio binario oggi esiste infatti nelle rappresentazioni, nell’interpretazione e nella comunicazione. Il discorso pubblico e i discorsi specifici sull’Italia: ogni soluzione si inserisce quasi sempre nel framework comune, accettato.

C’è sempre uno schermo, in Italia: uno schermo che impedisce di vedere, e di sentire, la vita segreta intima profonda. E non quella continuamente raccontata e dispiegata a livello pubblico, ufficiale, istituzionale.

Una vita che si rivela – in modo del tutto insperato, eppure così naturale, spontaneo – nelle opere, per esempio: perché sotterraneamente accade, infatti, che nell’Italia degli ultimi dieci anni siano stati pubblicati alcuni dei romanzi più importanti dell’Occidente, e in pochi se ne siano anche solo accorti? Anche l’arte visiva, ovviamente (cinema compreso), sta esprimendo con fatica risultati notevoli: quantomeno, presagi e annunci significativi di ciò che verrà. Sta producendo cioè senso, che stenta però a essere impiegato in modo fecondo e fertile nel processo di ricostruzione dell’identità collettiva. O anche solo – se è per questo – a essere riconosciuto.

Alcuni tra gli oggetti culturali più significativi non si sedimentano; non ne hanno il tempo. Invece scivolano via dalla percezione comune, si dissolvono (almeno momentaneamente).

Come si esce da questa impasse? Come si risolve questa contraddizione tra due sistemi di valore incommensurabili? In modo al tempo stesso molto semplice e molto complesso, costruendo con pazienza tenacia e abilità un intero nuovo immaginario in cui far planare, atterrare la psiche collettiva della nazione.

L’immaginario è il telaio, la struttura fondamentale in grado di sorreggere un sistema di valori alternativo; di costruire i presupposti e le precondizioni per la transizione; di elaborare finalmente la progettazione del futuro non più come grigia procedura – mera amministrazione del presente ed estensione di questa amministrazione a un tempo che semplicemente (spazialmente?) si situa dopo, ‘che-sta-dopo’, ma come “utopismo realistico e realismo utopico” (Manfredo Tafuri).

È chiaro quanto e come, per un’operazione collettiva di questo tipo (che richiede certamente tempi lunghi: una ventina o una trentina di anni almeno), sia cruciale riaffermare il potenziale trasformativo dell’oggetto culturale. La sua capacità latente, oscura, allucinata di intervenire nel tessuto della realtà e delle relazioni umane, per illuminarli e mutarli dall’interno.

 

 

Christian Caliandro

 



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