In “L’Unità” del 20 ottobre scorso Biagio de Giovanni ha pubblicato un interessante articolo su Enrico Berlinguer che sta sollecitando diverse repliche. E più ne susciterebbe se il timoroso direttore del quotidiano non avesse deciso, a quanto pare, di riservare il diritto di parola solo a persone di sua fiducia.
Giustamente De Giovanni rileva che Berlinguer si distingueva da altri politici perché a sollecitare la sua azione era in primo luogo una “ispirazione etica”. Aggiunge De Giovanni che egli “fu fino all’ultimo un comunista convinto. Perfino più di Togliatti”, ma che ebbe “una sincera coscienza democratica, che non è mai stata, però, genuina coscienza liberale”. Tenendo conto di come si sono svolti i fatti successivi alla morte del segretario del PCI, c’è davvero da ringraziare gli dei. Di quanti si può dire che furono “comunisti convinti fino all’ultimo”? Ma perché mai, essendo un “comunista convinto”, Berlinguer avrebbe dovuto possedere una “genuina coscienza liberale”? I desideri di De Giovanni sembrano a volte prevalere sul suo rigore di storico
Pur in modo rispettoso e pacato de Giovanni rileva in Berlinguer la presenza dell’”utopia” allorché il segretario elabora il “compromesso storico”. Se de Giovanni intende dire che Berlinguer era privo del “pragmatismo” di Tony Blair, di Bettino Craxi e di Matteo Renzi, si può essere d’accordo con lui. A patto di riconoscere che l’”utopia” di Berlinguer, posto che tale fosse, era, a prescindere dalle circostanze storiche, non lontana dallo Spirito dell’utopia di Bloch; e che dopo la morte di Berlinguer il succedersi di fallimenti e di catastrofi politiche nel nostro Paese che giunge fino a noi è dovuto in non piccola misura a una totale mancanza di utopia in tutti coloro che hanno governato e hanno avuto responsabilità politiche. Berlinguer, peraltro, non era affatto sprovvisto di realismo, né, a prescindere dal “compromesso storico”, di mancare di realismo lo accusa de Giovanni. Il quale però, accusando l’”utopia” berlingueriana, sembra non accorgersi, e comunque non assegna a tale fatto l’importanza che esso ha, che il “compromesso storico” è fallito non soltanto per la contrarietà di certi settori del cattolicesimo e della Democrazia cristiana, ma anche, e forse soprattutto, per l’ostilità degli aspiranti socialdemocratici che operavano all’interno del gruppo dirigente del PCI. Stando alle testimonianze che essi stessi hanno reso e vengono tuttora rendendo, costoro non erano affatto un’esigua minoranza, ma, al contrario, costituivano una forza in grado di intralciare o addirittura di bloccare i disegni di
Berlinguer e della maggioranza(?) del partito. Non vogliamo credere che alcuni di costoro, ben diversi da Amendola e da Napolitano, abbiano tenuta celata per anni la loro autentica vocazione politica e solo dopo la scomparsa del PCI abbiano trovato il coraggio di manifestarla. In ogni caso la verità è che i cosiddetti “miglioristi” non erano per nulla dei “comunisti di destra” o, eufemisticamente, dei “riformisti”, dal momento che erano degli autentici socialdemocratici. Si capisce quindi che essi si opponessero al “compromesso storico”. Ma si capisce ancora meglio che il “compromesso” non fallì ma fu sabotato; così come il PCI non cessò di esistere all’improvviso per la volontà di un solo dirigente, peraltro non socialdemocratico, ma morì lentamente di morte non naturale poiché albergava nel proprio seno forze, princìpi e dirigenti alieni. Non ci fu tradimento, giacché la battaglia si combatté a viso aperto, almeno da parte di Napolitano e di altri. Quando però si accenna l’ipotesi che Berlinguer “fu sconfitto”, come fa il giornale fondato da Antonio Gramsci, sarebbe importante capire e soprattutto far capire chiaramente chi furono i responsabili della sconfitta. Come avrebbe potuto non essere sconfitto Berlinguer avendo tanti e così vari avversari? E come avrebbe potuto sopravvivere il PCI, essendo così numerosi e così autorevoli i dirigenti che ne desideravano la dipartita? Allorché alcuni di costoro si presentano oggi in televisione e parlano di Berlinguer con le lacrime agli occhi, vorremmo, se potessimo, invitarli alla coerenza, o almeno alla compostezza. Altro è stato il tempo della compartecipazione, della solidarietà. Oggi il pentimento, ammesso e non concesso che di ciò si tratti, è tardivo. Mentre la colpa si accresce mostruosamente ogni giorno di più. Enrico Berlinguer, diversamente dalla cosiddetta “sinistra dei DS”, non avrebbe mai consentito che la Costituzione venisse calpestata impunemente e che impunemente venissero calpestati i diritti fondamentali dei lavoratori. E non avrebbe mai tollerato che la corruzione, da lui assai per tempo avvistata e quasi profeticamente denunciata, si impadronisse quasi dell’intero Paese. Certo, non sono state soltanto la morte acerba e improvvisa del Segretario e la fine del PCI a provocare quella che eufemisticamente si chiama l’odierna “crisi” della democrazia. Altri sono stati e sono corresponsabili di quella “crisi”. E non occorre nominarli. Berlinguer, d’altronde, pur essendo molto amato da molti, su certe questioni, la “Questione morale”, per esempio, e l’”austerità”, non fu compreso da chi meglio avrebbe dovuto comprenderlo, dico certi intellettuali di sinistra. Ricordo una riunione di intellettuali, iscritti e non iscritti, a Botteghe Oscure: non lontano da me, un intellettuale molto noto e molto stimato, oggi defunto, parlando di “austerità”, sghignazzava senza ritegno. Un tema come la solitudine di Berlinguer meriterebbe maggior attenzione di quella che ha avuto.
Ho assistito, nel 1990, ad alcune sedute del XIX Congresso del PCI, il penultimo, immediatamente dopo la Bolognina. Mi sono rimasti impressi nella memoria due fatti, privi fra loro di rapporto e di diversa importanza: 1) le grosse scarpe di Umberto Terracini, che si aggirava solitario per i corridoi dell’edificio come se ciò che si diceva non lo riguardasse, scarpe da rivoluzionario che è sempre pronto a partire per le mete più diverse, si tratti di andare a Mosca a discutere con Lenin o di camminare fra due carabinieri che sono venuti a prenderlo per portarlo in un carcere fascista dove soggiornerà a lungo; 2) le parole di Giorgio Napolitano che, accennando a una “bandiera da far sventolare”, auguravano la nascita di un partito nuovo e diverso dal PCI. Sono davvero due fatti senza alcun rapporto?
E’ interessante e utile leggere insieme con l’articolo di De Giovanni l’intervista rilasciata a “Repubblica” in data 31 ottobre da Giorgio Napolitano. Le parole dell’ex capo dello Stato vanno lette con particolare attenzione a certe sfumature, se si vuole intenderne pienamente il senso. Quando, per esempio, Napolitano dice che Berlinguer “non ha mai cessato di ribadire il carattere rivoluzionario del partito, pur nella linea indicata da Togliatti: un processo graduale di trasformazione attraverso vie democratiche”, è agevole intendere che egli cerca di giustificare la propria posizione all’interno del PCI come più ortodossa o se si preferisce più togliattiana di quella di Berlinguer. Quale fosse e quale sia la posizione di Napolitano è noto e comunque essa è chiaramente indicata dal senatore a vita quando egli parla di “componente riformista” all’interno del PCI. Alla quale egli attribuisce il merito di aver operato “per una piena identificazione con i principi e gli obbiettivi delle forze socialdemocratiche europee”. Tony Blair, insomma. Che a noi risulta molto difficile immaginare come un modello cui avrebbe potuto guardare Togliatti. Concludendo l’intervista Napolitano riconosce di essere uno “che insieme con tanti ha combattuto buone battaglie e sostenuto cause sbagliate, e cercato […] strade nuove”. “Strade nuove” le “strade” socialdemocratiche? Sia in Inghilterra sia in Italia sia nell’intera Europa si è visto dove abbiano portato e dove portino queste “strade nuove”: alle menzogne e alla guerra massacratrice di Tony Blair e alla guerra alla Costituzione e ai lavoratori di Matteo Renzi.