La tesi che intendo sostenere è che uno dei motivi di ispirazione di Pasolini per la nota dottrina della mutazione antropologica è stato un discorso di Eugenio Cefis sulla globalizzazione. Gli articoli in cui Pasolini utilizza la formula “mutazione antropologica” risalgono all’ultimo periodo della sua vita. Si tratta di tre testi usciti sul “Corriere della sera” e sul “Mondo” tra giugno e luglio 1974. Essa venne poi ripresa, nel corso del suo ultimo anno di vita, in numerosi articoli facendola diventare, da breve formula, vero discorso. Quello sulla mutazione antropologica è l’ultimo grande discorso di Pasolini, è il discorso dell’ultimo Pasolini, è la sua tesi di filosofia della storia. Mutazione antropologica è espressione da teorico della cultura, è propria cioè di colui che si solleva dallo stretto orizzonte dell’attualità per abbracciare spazi vasti della cultura globale al fine di individuarne il suo senso e la sua direzione. Ci si può legittimamente aspettare una tale visione complessiva più da un filosofo che da un poeta. Ma Pasolini nella sua veste saggistica è anche filosofo, è in grado cioè di leggere la realtà nella sua globalità, di leggerla come «semiologia generale». La dottrina della mutazione antropologica ogni tanto compare con delle variazioni, per esempio nella forma di «degradazione antropologica», che è però il significato specifico della mutazione antropologica, essendo essa considerata da Pasolini una forma del male, un autentico genocidio antropologico, e quindi una vera e propria degradazione. In una occasione Pasolini arriva all’iperbole parlando del «cataclisma antropologico» del consumismo. Non è inutile ricordare, per cercare di spiegare toni così accesi, che il punto di partenza e il presupposto del ragionamento di Pasolini sono due eventi recenti, due eventi del 1974. Il referendum sul divorzio e la strage di Brescia. Il primo viene letto da Pasolini come il segno dell’avvenuto distacco tra le masse popolari e contadine e la cultura cattolica, il secondo come il colpo di coda del vecchio fascismo. Con mutazione antropologica si può dire che Pasolini intenda sostanzialmente il fenomeno della omologazione culturale dettato dal nuovo potere dell’immagine, della televisione e della pubblicità, interpretati come potenti veicolatori del nuovo edonismo consumistico. Tema con forte assonanza francofortese, è fuori di dubbio. Più sorprendente è invece un’altra insospettabile fonte di ispirazione. La grande e nuova trasformazione è voluta da un potere che è esso stesso nuovo. È sul concetto di nuovo potere, di un potere senza volto, che Pasolini si sofferma rimandando ad un testo significativo per la sua spiegazione ed esposizione. Si tratta del discorso tenuto agli allievi dell’Accademia militare di Modena da Eugenio Cefis il 23 febbraio del 1972. Cefis era friulano come Pasolini, la vita di questi due uomini si intrecciò più volte, basterebbe ricordare il personaggio di Aldo Troya in Petrolio, secondo molteplici e misteriose relazioni peraltro sempre indirette perché probabilmente non si sono mai incontrati. Che cosa dice Cefis in quel discorso ricco di dati? È il discorso di un uomo al vertice del potere economico e probabilmente, benché sotterraneamente, anche politico dell’Italia di allora, che nel cruciale 1972, un anno prima della crisi petrolifera, getta uno sguardo sul futuro delle società occidentali il cui destino dipende in larga parte dalle multinazionali. Nel tentativo di disegnare uno scenario non solo possibile ma altamente probabile dell’immediato futuro, Cefis inizia tracciando un quadro storico dello sviluppo delle multinazionali che individua nella costituzione delle compagnie per il commercio orientale sorte in Europa nel XVII secolo. È dall’Inghilterra e dalle Province Unite che vengono le prime società economiche multinazionali. Esse si sono evolute nel corso dei secoli successivi in modo lineare almeno fino allo sviluppo dell’industria petrolifera, la quale ha impresso una torsione significativa alla loro storia. Sono industrie del petrolio le più importanti multinazionali del Novecento; esse dopo la seconda guerra mondiale hanno saputo far fronte con nuove strategie politiche alla perdita dei domini coloniali. È a questo punto che Cefis tocca il nodo delle relazioni fra multinazionali dell’economia e potere politico. Se le multinazionali hanno avuto ed hanno tanto potere, quali sono le relazioni ipotizzabili con il potere politico? L’idea di Cefis è quella di una crisi dello stato nazionale. I vecchi stati nazionali non ce la fanno a reggere il confronto con le grandi multinazionali. Pertanto il loro destino è segnato, a meno che non decidano di associarsi, di fare massa critica. L’Europa sarebbe il più grande mercato del mondo. È pertanto sorprendentemente il discorso di un europeista quello di Cefis. Non solo, sia in apertura sia in chiusura egli mette in rilievo l’importanza della fedeltà alla costituzione repubblicana, lui che quella repubblica, da partigiano bianco, aveva contribuito a fondarla. Vede inoltre il ruolo dei militari non tanto come difensori di un ordine costituito, ma come dei futuri tecnici e consulenti di settori avanzati dell’industria, della ricerca e della comunicazione. Insomma una visione moderna ed anticipatrice degli sviluppi successivi della storia e non tenera nei confronti dell’operato storico delle multinazionali, i cui eccessi antidemocratci vengono condannati. Il venir meno del ruolo dello stato non permetterà la sua sostituzione con le multinazionali, esse infatti dovranno contrattare le loro esigenze anche con il mondo del lavoro rappresentato dai sindacati. Due sono i soggetti sulla scena del potere nel futuro prossimo, le multinazionali e i sindacati. Cefis non pensa pertanto ad una sostituzione del potere politico degli stati nazionali con quello economico delle multinazionali, ma ad una collaborazione fra produttori e rappresentanti dei lavoratori, fra multinazionali e sindacato.
Non è difficile da indicare nel discorso di Cefis quello che per Pasolini era il nuovo potere, quell’intreccio di edonismo, consumo, industria culturale e falsa tolleranza che è il fulcro del potere delle multinazionali. Pasolini sa che quello che Cefis ha descritto nel discorso di Modena è lo scenario del futuro. E questo futuro è il peggiore possibile per il poeta. perché la mutazione antropologica ha un duplice aspetto, è sì trasformazione ideologica ma anche cambiamento somatico, essa è una vera e propria trasformazione dei corpi degli italiani. Per comprenderla pienamente è necessario assumere un punto di vista propriamente semiologico, ma che sconfina quasi nel fisiognomico. Essa sarebbe infatti più visibile nei gesti, negli atteggiamenti, nelle posture del corpo, piuttosto che nelle idee, nella psicologia e nel linguaggio di un’epoca che è, tra l’altro, caratterizzata proprio da una estrema povertà linguistica. È nell’impossibilità di trovare un nuovo volto per Accattone, perché anche le facce degli italiani erano cambiate, che Pasolini rintraccia le prove della mutazione antropologica. È questa la sua vera novità, l’idea cioè che il passaggio epocale che sta descrivendo è più visibile nei corpi che nelle ideologie. Se la mutazione antropologica infatti consistesse solo nella manipolazione ideologica o psicologica, non si capirebbe perché considerare quella di Pasolini una proposta sostanzialmente diversa da quella francofortese, cioè da quella della più spietata critica del conformismo e della mercificazione feticista della società di massa fino ad allora nota. Il poeta di Casarsa va oltre la dialettica di Francoforte proprio quando denuncia la trasformazione dei corpi. Pasolini non è riuscito a vedere gli effetti mostruosi della attuale chiroestetica di massa, della globalizzazione di facce e volti. È riuscito però a pensare la globalizzazione nella sua dimensione di mutazione somatica. Quella che Cefis descriveva come un processo naturale e ineluttabile, per Pasolini era l’avanzare del mostruoso.