di Donato Ferdori e Stefano Marino
Negli ultimi decenni si è assistito ad un enorme (e, dal nostro punto di vista, positivo e salutare) ampliamento del campo di studi dell’estetica, con l’apertura a fenomeni e territori che fino a poco tempo fa venivano sostanzialmente ignorati dai filosofi o, comunque, non erano ritenuti di loro pertinenza. Il confinamento dell’estetica al ruolo di teoria filosofica delle belle arti tradizionalmente intese o, tutt’al più, a dottrina filosofica riguardante la percezione (a partire dall’etimologia stessa del termine che, com’è noto, deriva dal greco aisthesis, “sensazione”) appare oggi decisamente superato e, com’è stato giustamente notato, “l’estetica ha ormai superato i confini disciplinari” fissati dai dibattiti del passato “ed è andata oltre”, al punto che “oggi dovremmo forse considerarla un’iperestetica, nel duplice senso suggerito dal prefisso greco hypér: ‘al di sopra’ ma anche ‘al di là’. In quanto tensione verso un ‘al di là’, l’iperestetica viene a esprimere l’esigenza di un’ulteriorità, il bisogno, avvertito da tempo e da più parti, di estendere la mappa teorica e metodologica dell’estetica nell’incrocio con altri saperi […]. In quanto tensione verso un ‘al di sopra’, l’iperestetica indica invece l’oltrepassamento del limite, allude cioè a quell’eccesso di bellezza e di immagini che investe capillarmente la società odierna” e di cui l’estetica filosofica, se vuol essere degna di questo nome e non vuole auto-esiliarsi in un regno isolato dalle realtà concrete del nostro tempo, deve in qualche modo rendere conto (Di Stefano 2012: 10). Alla luce di ciò, appare dunque comprensibile e sensato l’emergere, negli ultimi decenni, di un’estetica della moda (Svendsen 2006), del cibo (Korsmeyer 2015), degli oggetti e delle pratiche della quotidianità (Leddy 2012), delle “belle arti industriali” (Vitta 2012), della cultura pop in generale (Mecacci 2011) e ancora di altre attività ed esperienze caratterizzanti la contemporaneità. La questione che vorremmo sollevare qui è quella relativa alla pertinenza e, anzi, all’importanza, all’interno di un orizzonte di pensiero estetico “ampliato” come quello odierno, di un’estetica della popular music. Riteniamo infatti che, al pari di rami ormai codificati e persino consolidati come quelli dell’estetica del cinema, del design o dei cosiddetti new media, anche un’estetica della musica popular (o, se si preferisce, pop-rock) sia dotata di una piena legittimità e rappresenti un campo interessante da esplorare con gli strumenti concettuali propri della filosofia. Ora, a questo proposito è certo il caso di constatare come, da un lato, un’estetica della popular music sembri ancora faticare un po’ a essere teorizzata e praticata. Così, sul versante musicologico, in lavori importanti di natura enciclopedica sulla popular music, tra le centinaia di voci riservate ai vari aspetti di quest’ultima non è dato incontrarne alcuna dal titolo, ad esempio, “Aesthetics” o “Philosophy of Popular Music” (cfr., a titolo esemplificativo, Larkin 1998 oppure Clarke 1998); mentre, sul versante filosofico, è stato notato che, fino a tempi relativamente recenti, quando i pensatori hanno preso in considerazione le cosiddette forme d’arte “leggere” (fra le quali rientra evidentemente anche la popular music), ciò è avvenuto perlopiù allo scopo di contestarle, demolirle impietosamente, demonizzarle in quanto mezzi che “riducono lo spettatore ad un ruolo passivo, lo costringono in uno stato di minorità e costituiscono una perdita globale di esperienza” (D’Angelo 2008: 161). Dall’altro lato, però, uno sguardo al panorama di studi e alla letteratura recente evidenzia che parecchie cose sembrano esser cambiate rispetto a una situazione – che appariva ben consolidata fino a non molti anni fa – di pressoché assoluta impermeabilità dei filosofi alla cultura (e, dunque, anche alla musica) popular. In seguito a quel complesso e per certi versi ambiguo fenomeno che è stato il postmodernismo, oggi divenuto bersaglio di critiche di ogni genere (molte delle quali anche pertinenti, bisogna ammettere), ma al quale va riconosciuto perlomeno qualche merito, si è verificato infatti “un gigantesco rimescolamento dei rapporti tra arte alta e arte di massa, che ha fatto saltare moltissime barriere ed ha visto un generale processo di scambi, ribaltamenti, osmosi tra i due livelli” (D’Angelo 2008: 175). Come ebbe a scrivere a suo tempo Richard Rorty, si può pensare che la filosofia non abbia “un oggetto particolare”, nel senso che “alcune persone passano il tempo a pensare alla morte, altre al sesso o ai soldi” (e altre ancora a riflettere sulle proprie esperienze con fenomeni culturali popular, aggiungiamo noi), e non è detto “che uno di questi argomenti sia per sua natura più filosofico dell’altro” (Rorty 2008: 46). In una prospettiva di questo tipo, si capisce facilmente come divenga possibile elevare al rango di oggetto degno di un’indagine filosofica anche la musica pop-rock, al pari di molti altri fenomeni precedentemente soggetti a una forzata esclusione, e non è forse un caso che proprio un filosofo appartenente al medesimo indirizzo di pensiero del succitato Rorty, ossia il pragmatismo, si sia distinto per la sua riabilitazione della “sfida estetica” incarnata dall’“arte popolare” (il riferimento è a Shusterman 2010: 121-187). Accanto alle analisi brillanti, approfondite e, ciò che più conta, filosoficamente intriganti di forme musicali come il funk o il rap offerte appunto da Richard Shusterman, è poi il caso di ricordare autori come Theodore Gracyk, teorico di una vera e propria estetica del rock (1996; 2001; 2007), e collane come “Philosophy and Pop Culture” e “Popular Culture and Philosophy”, rispettivamente pubblicate da prestigiosi editori come Wiley-Blackwell e Open Court, presso le quali sono usciti ad esempio volumi dedicati a Beatles (M. e S. Baur 2006), Bob Dylan (Porter e Vernezze 2006), U2 (Wrathall 2006), Metallica (Irwin 2007), Grateful Dead (Gimbel 2007), Pink Floyd (Reisch 2007), Johnny Cash (Huss e Werther 2008), Bruce Springsteen (Auxier e Anderson 2008), Radiohead (Forbes e Reisch 2009), Led Zeppelin (Calef 2009), Rush (Berti e Bowman 2011) e Black Sabbath (Irwin 2012). Tenendo conto di tutto ciò, riteniamo allora che il binomio “estetica e popular music” possa apparire adesso meno inusuale o improbabile di quanto non potesse forse sembrare a prima vista. Anzi, riteniamo che possa ora apparire scientificamente legittimo il fatto di impegnarsi, da filosofi o comunque da studiosi di questa disciplina (essendo al contempo ascoltatori e ammiratori di artisti e band pop-rock), in analisi e teorie specificamente incentrate su questo genere musicale. Da ultimo, vorremmo concludere fornendo qualche precisazione sul concetto principale che sta al centro di questo articolo, a partire dal suo stesso titolo, ovvero sul concetto di popular music. Ci si potrebbe infatti chiedere, anche legittimamente, perché si sia optato per questa espressione e non, ad esempio, per altre formule spesso considerate come suoi sinonimi e usate come tali, quali “musica leggera”, “musica di massa”, “musica di consumo” o, soprattutto, “musica popolare”. Le ragioni per una tale scelta, in sintesi, sono state bene espresse dal sociologo Marco Santoro, curatore dell’edizione italiana di uno dei testi classici e canonici di questo campo di studi, il saggio Sulla popular music di Theodor W. Adorno (2004). Spiega infatti Santoro di aver mantenuto in inglese “la formula popular music”, nella sua traduzione del saggio adorniano, “per rispettare la ben nota assenza di un suo esatto equivalente nella lingua italiana, che non siano le scontate ma pregiudizievoli espressioni ‘musica leggera’ […] o appunto ‘musica popolare’, nell’uso italiano riferit[a] abitualmente a ciò che in inglese si dice piuttosto folk music […]. Insoddisfacente sarebbe stata anche la scelta del termine pop, originariamente contrazione di popular ma ormai acquisita come parola identificativa di un non ben identificabile sottoinsieme (genere?) della musica popular, più facile e commerciale di altri. Quanto alle formule ‘musica di consumo’ e ‘musica di massa’, da taluni utilizzate, è sin troppo scoperta l’ipoteca ideologica e polemica che le regge” (Santoro 2004: 64). Si tratta di considerazioni a nostro giudizio condivisibili e corrette, che possono trovare un’utile integrazione, peraltro, in quanto hanno scritto sull’argomento musicologi come Richard Middleton o, in Italia, Franco Fabbri. Partendo da quest’ultimo, si può ulteriormente osservare, a proposito dei rapporti tra i concetti di popular music e musica popolare, che optare per il primo concetto “non è uno snobismo” (Fabbri 2008: 17) e ha piuttosto a che fare con un’elementare esigenza di chiarezza. Scrive infatti Fabbri: “In Italia c’è una tradizione di discorsi e di studi intorno alla musica popolare, e si è sempre sottinteso che si trattasse della musica di tradizione orale. Il riferimento dominante, per quell’aggettivo, è la nozione di ‘popolo’. C’entra Gramsci, naturalmente. Nei paesi anglosassoni sussiste perlomeno un’ambiguità tra popular come ‘del popolo’ e popular inteso come ‘che piace a molti’, con una certa prevalenza del riferimento alla popolarità. Dato che in quella lingua la musica di tradizione orale era già indicata dal senso comune come folk music, non c’era dubbio che parlando di popular music si intendesse la musica di larga diffusione che circola attraverso media come il disco, la radio, la televisione. Così, quando una ventina di anni fa è stata riconosciuta la necessità di un campo di studi che affrontasse le musiche dei media, si è cominciato a parlare di popular music studies” (Fabbri 2008: 17-18). Ciò, d’altra parte, non elimina del tutto le difficoltà nel circoscrivere l’esatto campo di applicazione del concetto di popular music, come segnalato da Middleton nel primo capitolo del suo importante libro Studiare la popular music. Il che, evidentemente, costringe a effettuare delle scelte preliminari circa il senso stesso e il taglio che si intendono conferire alle proprie indagini e, al pari di Middleton – il quale, nel suo libro, sceglie di occuparsi “in modo quasi […] esclusivo di popular music nelle società ‘sviluppate’ dell’Occidente industrializzato” (Middleton 2001: 24) –, anche noi, in questo articolo, adeguandoci a quella che è ormai una terminologia consolidata in ambito musicologico, abbiamo scelto di adottare la categoria “popular music” e di intenderla come equivalente, sul piano del suo significato e contenuto, a quella di “musica pop-rock” (nell’accezione più ampia possibile di questi ultimi due termini), senza che ciò, naturalmente, implichi in alcun modo una svalutazione di analisi e approcci filosofici rivolti ad altri tipi di repertorio musicale. In definitiva, dunque, l’augurio è quello che un’estetica della popular music possa affermarsi compiutamente e svilupparsi secondo modalità molteplici, originali e al contempo scientificamente rigorose, se possibile fornendo anche un contributo al riavvio e al ripensamento dell’inveterato dibattito sui rapporti tra musica “seria” o “colta” e musica “leggera” (o, appunto, popular): un dibattito significativamente definito da uno dei principali musicologi del Novecento, Carl Dahlhaus (1988: 68), come “un dialogo tra sordi”.