Il 9 novembre 1989 il muro di Berlino veniva abbattuto fra gli applausi dell’opinione pubblica di tutto il mondo. Il sogno di un pianeta senza frontiere sembrava finalmente a portata di mano. A neppure vent’anni da quell’evento, il Congresso degli Stati Uniti votava, il 15 dicembre 2005, la legge 6061, che autorizzava l’innalzamento di un muro lungo oltre mille chilometri al confine con il Messico. Non si trattava della prima costruzione di questo tipo, e non era neppure destinata a essere l’ultima. Sia prima sia dopo, molti altri Stati hanno creato o progettato altri muri un po’ dovunque. Ultimo, almeno per il momento, quello che l’Ungheria sta costruendo al confine con la Serbia e che fa seguito a scelte analoghe compiute sia dalla Bulgaria sia dalla Grecia lungo i rispettivi confini con la Turchia e con lo stesso obiettivo: impedire ai migranti di entrare illegalmente nei propri territori nazionali.
Eppure, sino a non molto tempo fa, alcuni salutavano la fine dell’era dello spazio – dell’epoca del limes, dei cordon sanitaires, del Lebensraum – come la “fine della storia”. E quindi della fine dei muri, perché solo nell’era dello spazio il territorio e le sue eventuali fortificazioni erano garanti della sicurezza collettiva e il loro controllo rappresentava la prerogativa sovrana del potere politico: quello degli antichi imperi (la muraglia cinese e il vallo di Adriano), delle città e dei signori feudali del Medioevo (fossati, ponti levatoi, fortificazioni), degli Stati moderni (linee Maginot e Sigfrido), dei blocchi militari contrapposti (muro di Berlino). Da un altro punto di vista, gli attentati dell’11 settembre 2001 sembravano indicativi dello stesso fenomeno, visto però nella sua dimensione più imprevista e catastrofica, poiché il crollo delle Twin Towers è stato anche la rivelazione, questa volta in chiave apocalittica, del crollo delle distinzioni tradizionali tra dentro e fuori, tra interno ed esterno, tra spazio della sicurezza e spazio del rischio – e quindi della scomparsa di ogni rifugio territoriale. Lo spazio globale ha assunto il carattere di “una terra di frontiera”, uno spazio di “reciproca vulnerabilità assicurata” dove le minacce – e l’anticipazione delle minacce – sono di natura asimmetrica: il pericolo non proviene da eserciti invasori, ma da forze informali e occulte e da attori transnazionali. Le migrazioni, il contrabbando, l’illegalità o il terrorismo – sono queste le minacce che i muri intendono bloccare.
Se si guarda alle loro caratteristiche, i muri di separazione contemporanei non sembrano immediatamente comparabili. Sono diversi per le tecniche impiegate: da quelle più semplici (colate di cemento, reticolati di varia altezza, palizzate d’acciaio) a quelle più sofisticate (gps, controlli sotterranei, droni senza pilota, imaging nell’infrarosso termico, sensori di movimento e telecamere per la visione notturna). Diverse sono anche le loro caratteristiche giuridiche e politiche, riconducibili a esigenze che possono essere sia civili sia militari e talvolta, con una sovrapposizione inquietante, tanto le une quanto le altre, come se proteggere il territorio nazionale da infiltrazioni terroristiche, traffici clandestini o esseri umani in fuga dalla disperazione e dalla morte fosse la stessa cosa. Hanno però un tratto comune. Diversamente dai muri del passato, hanno solo in apparenza la pretesa di arrestare le invasioni nemiche, come la linea Maginot, né pretendono di impedire ai cittadini di lasciare il territorio dello Stato, come il muro di Berlino. Servono piuttosto a impedire ogni accesso all’idra dalle molte teste dell’“estraneo”. Per questo non è la loro efficacia pratica a essere importante: i flussi non mutano in rapporto alla costruzione o al rafforzamento dei muri, ma a seconda delle motivazioni che spingono gli esseri umani a spostarsi. E che, perciò, cambiano semplicemente rotta e direzione.
A essere importante è la loro funzione politica e simbolica, tutta giocata sull’asimmetria tra “interno” ed “esterno”, tra spazio della protezione e spazio del rischio: mentre il confine non designa che lo straniero (in modo bilaterale) e mentre la linea del cessate il fuoco viene tracciata di comune accordo tra i belligeranti (in modo bilaterale), il muro fabbrica, asimmetricamente, l’“estraneo”. È questa asimmetria costitutiva, rivelata dal carattere unilaterale della decisione di costruirlo e dagli effetti arbitrari di esclusione che ne derivano, a caratterizzare il muro.Non si costruisce mai una barriera (presuntivamente) impenetrabile di fronte a una potenza equiparabile o una parte considerata politicamente o socialmente legittima. Se l’altra parte viene ritenuta affidabile, il controllo del confine avviene in modo bilaterale.
La decisione di erigere il muro esprime un’asimmetria di principio poiché viene attuata quando si verifica una minaccia di intrusione da parte di forze transnazionali – individui, gruppi, movimenti, organizzazioni – che lo Stato fatica a identificare e controllare. Il muro, in questo senso, opera come una sorta di anticipazione della minaccia asimmetrica e stronca sul nascere ogni possibilità di negoziazione con una controparte riconosciuta come tale – anzi, talvolta, chi lo erige cerca di negare l’esistenza stessa di una controparte. Non a caso il muro viene eretto per volontà dell’attore sovrano più forte, che segnala così il proprio disinteresse per ogni forma di reciprocità con chi sta dall’altra parte.
L’asimmetria del muro crea le sue categorie: è identitario, perché stabilisce quale sia la comunità sociale e territoriale che merita di essere protetta e quale può essere lasciata nello spazio in cui (quasi) tutto è possibile. È escludente e stigmatizzante, perché definisce quali siano le categorie di esseri umani dalle quali è necessario proteggersi. E fissa i criteri della legalità, poiché la separazione unilaterale e discrezionale rispetto al territorio contiguo accentua la gravità dell’infrazione compiuta da chi riesce a superarlo. I muri sono l’iconografia di quel che resta della sovranità dello Stato e che si esprime attraverso un potere di decisione (di decidere unilateralmente una linea assoluta di demarcazione tra l’interno e l’esterno dello Stato territoriale), un potere di controllo (di controllare i movimenti degli esseri umani per fare in modo che flussi ingovernabili producano soggetti mobili governabili), di un potere di categorizzazione (di legittimare la separazione imprimendo sull’“estraneo” lo stigma dell’esclusione).
In questo senso, il muro non è che una delle modalità, certo una delle più visibili, della società del controllo. A considerarlo superficialmente, dà l’impressione di rappresentare una sorta di teatralizzazione della sovranità, di segno iconografico di un potere statuale declinante. In realtà, in quanto parte di un dispositivo di controllo, esso partecipa della diversificazione e della disseminazione dei confini, dove la mobilità è un elemento determinante della stratificazione sociale globale. Anche il più greve, imponente e minaccioso di questi nuovi muri serve infatti a regolare piuttosto che a escludere, operando come una sorta di membrana che lascia passare alcuni flussi e ne blocca altri, contribuendo a creare quella zona di indistinzione tra legge e non-legge di cui la produzione flessibile ha sempre e costantemente bisogno.