Le sorprendenti somiglianze degli opposti: note su un viaggio agli estremi d’Oriente e d’Occidente

 

 

 

Atterrare a Chicago provenendo da Tokyo è come guardare in un ologramma. Midwest americano e Giappone metropolitano dovrebbero essere separati da un oceano concettuale almeno tanto ampio quanto quello reale, eppure a considerarli insieme oggi le loro immagini si sovrappongono, ricomponendosi l’una dell’altra e mettendo in discussione ogni tentativo di tracciarvi nel mezzo una chiara linea di demarcazione culturale. Mi ripetevo però che era la storia a impormi di farlo, vicina e lontana: cosa ci poteva essere in comune tra buddhismo esoterico, culto dell’imperatore, confucianesimo o addirittura scintoismo animista, e gli antenati spirituali di Washington, Jefferson e Rockefeller, identificati da Weber nelle figure chiave della tradizione cristiano-protestante europea? Per non parlare di tutta la retorica espansionistica prima e vittimistica poi con la quale nell’ultimo secolo il Giappone ha cercato così caparbiamente di esprimere la sua diversità rispetto all’Occidente, arrivando a produrre cataste intere di quella letteratura pseudo-scientifico-sciovinistica sul cosiddetto “Nihonjin-ron” ovvero sull’unicità antropologica della civiltà giapponese. Ciò che ho rilevato questa volta con un’evidenza che mi è parsa indiscutibile – dopo averlo soltanto intuito in altri viaggi – è invece che oltre alla dimensione universale che lega la cultura umana nel suo complesso c’è una convergenza in corso tra estremo Oriente ed estremo Occidente non superficiale ma profonda, e che fa pensare a come la modernità contemporanea sia un fenomeno globale in senso forte: non tanto cioè un’imposizione del capitalismo euro-americano quanto l’orizzonte inevitabile della storia del mondo.

 

La vita degli esseri relazionali che siamo viene determinata anche dai più brevi scambi interpersonali, per questo l’incontro col moderno avviene fin dalle buone maniere, che però nelle lobby di Tokyo o negli uffici di Chicago non potrebbero – quantomeno in apparenza – essere più diverse. Non sono americani e giapponesi descritti così spesso come l’epitome della volgarità da una parte e dall’altra della cortesia? In effetti l’inchino orientale e la moltitudine di scuse che lo precedono e seguono (l’espressione giapponese è “sumimasen” e significa, appropriatamente, “non c’è fine”) donano alla vita interpersonale anche al di fuori di ambienti formali un aspetto rituale e formulaico che pare assolutamente introvabile sull’altra sponda dell’oceano. Quegli inchini sono spesso apparsi, non soltanto a semplici visitatori ma anche a molti sociologi, come l’espressione di un modo particolare di intendere la persona e la vita sociale: caratterizzato da una propensione più spiccata che nelle società di ascendenza europea ad accettare la presenza dell’altro nel sé integrando completamente il proprio io alle dinamiche esterne – tanto da incrinare lo stesso diaframma interno-esterno. E in quelle manierine non c’è assolutamente nulla di poco rispettabile, tutto il contrario, inchini e sospiri si susseguono nelle più oscure bettole di Tokyo come se si fosse alla corte del Re Sole (altro luogo centrale nella storia della modernità) per di più con curiosa allegria, abbandono vitalistico, vero entusiasmo anche quando commesso o impiegato ciondolano esausti dopo ore di lavoro.

 

No, niente da spartire con ciò che avviene negli Stati Uniti in uffici, autobus, biblioteche, aule e fin penso alla Casa Bianca, dove non ci si aspetta da colleghi e conoscenti tutt’al più che un “how are you?” Alquanto cialtrone, certo, ma soprattutto così incredibilmente prevedibile, come la sua risposta, l’inevitabile e intollerabilmente fasullo “I’m fine”. Eppure non dovrebbe essere la società americana il luogo di massima realizzazione dell’io, non era questo che volevano i padri fondatori? E come può l’io realizzarsi nella prevedibilità e nella formula? Tuttavia rispondere qualcosa di diverso (“Awful, awful, I think all of this is awful, and you are stupid”) equivarrebbe a diventare l’untore di se stesso, e d’altronde la seconda domanda sarà altrettanto scontata “So what are you doing these days?” Si passa quindi necessariamente a parlare del proprio lavoro, rispondendo che si è naturalmente “very busy” ma in ogni caso “it feels good to be challenged”. E si ha allora il sospetto che l’America delle cattive maniere non sia meno formulaica di una certa vita giapponese. Chi ha abitato negli Stati Uniti sa quanto vi è grande il numero di limitazioni alla capacità di esprimersi in pubblico: non si può parlare tra amici di religione ed è meglio evitare la politica (d’altronde dai party si torna a casa alle 22 e nei pranzi dei giorni lavorativi è maleducato spronare le chiacchierate con l’alcool); la galanteria con le ragazze è assolutamente da evitare né si possono criticare le istituzioni dello stato o, men che meno, il dogma insindacabile della centralità del lavoro nella vita. E soltanto raramente si è sfiorati dal pensiero di quanto tutto ciò sia rituale, quasi come se ci si trovasse non in un’università – “a great one” naturalmente – ma tra la folla stipata nei vagoni della metropolitana di Tokyo. Sono, è vero, gli unici posti del Giappone dove sia ammesso sgomitare contro il proprio vicino ma vi si vive l’anonimato come in pochi luoghi al mondo; e salendo e scendendo per le scale mobili tra moltitudini di altre braccia e gambe, sbucando da tunnel e premendo tasti colorati alle biglietterie elettroniche si sente ad ogni respiro come la vita sia ridotta a una serie di procedure che come specchi rifrangono la propria individualità spezzettandola e frastagliandola, e rendendo impossibile ogni tentativo di percepire la singolarità della vita.

 

Nella trasformazione del rapporto tra io e gruppo in una sequenza di formule sta forse una delle chiavi di comprensione della modernità contemporanea – così come è stata studiata ad esempio da Hannah Arendt, che vedeva nell’evoluzione da “work”a “labor”(centrale negli sviluppi più recenti della modernità) una trasformazione della vita professionale in un infinito “process” e quindi, per certi versi, in una serie di procedure. Ritornato nella mia università degli Stati Uniti, tra studenti di college ossessionati dalla “propria realizzazione”, vedevo emergere tra di essi una forma di anonimato ancora più insidiosa e frustrante di quella che avevo incontrato in Giappone, perché basata sull’illusione dell’individualità. Ho sempre pensato con ammirazione alla straordinaria invenzione dell’anima immortale, e a come l’idea di un’essenza individuale, eterna e divina interna a ciascuna donna e uomo abbia guidato l’Occidente nella sua evoluzione socio-culturale conducendo pian piano fino ai diritti umani e alle istituzioni cosiddette democratiche; tuttavia proprio il suo compimento secolare nelle società liberali (dove ciascuno dovrebbe essere “libero” di essere “se stesso”, a prescindere dallo stesso rapporto col divino) l’ha paradossalmente distrutta – pensavo passeggiando per la lobby della Regenstein Library – astraendola eccessivamente e trasformandola in un’entità giuridico-economica destinata a vivere in una semplice ricombinazione di processi e formule. Forse l’anima, essenza a un tempo individuale e condivisa, aveva già in sé le basi del suo superamento, fatto sta che attraverso di esso le società occidentali hanno potuto incontrare nella loro storia quella giapponese. Lì il corrispettivo di quei luoghi dello spirito par excellence che sono le grandi cattedrali europee è la sukiya o chashitsu, la piccola casa da tè. Edificio minuscolo e fragile ma forse ancor più perfetto delle ciclopiche realizzazioni gotiche, dove regna non l’io nel suo rapporto personale con Dio ma invece la natura formulaica e procedurale di ogni singolo atto della cerimonia del tè, con lo scopo confessato proprio di decostruire e abbandonare ogni idea di essenza individuale. Tuttavia – questo è cruciale – ogni procedura serviva soltanto per rendere evidente, oltre e contro essa stessa, la singolarità irriducibile di ciascun istante e minimo atto – irriducibile perfino all’idea di Dio: la cerimonia del tè, in altri termini, è un rito che vuole distruggere ogni ritualità. Si tratta di un’invenzione con un rilievo di primo piano nella storia socio-culturale giapponese, tuttavia la sua progressiva trivializzazione ha avuto il risultato di negarne i presupposti: contribuendo a costruire una società dell’obbedienza e dell’inchino sorridente, insomma dell’“I’m fine. How are you?

 

Altri tratti accomunano il Giappone agli Stati Uniti d’oggi: un certo rapporto col denaro ad esempio. S’è ripetuta spesso la teoria weberiana di come il capitalismo occidentale (che ha trovato il suo compimento proprio in America) abbia investito la sfera secolare dell’afflato religioso che guidava il rapporto del credente protestante con Dio. Di fronte all’impossibilità di essere salvati se non per grazia divina – escludendo cioè il ruolo che nella teologia cattolica hanno le opere – non ci si ridusse ad abbracciare il fatalismo: ciò che accadde fu invece che il successo professionale divenne il riflesso, l’indizio, della grazia divina. Di conseguenza il denaro e la capacità di accumularne – la dimensione cioè più fortemente secolare che si possa immaginare – venne investita di un’aura religiosa che qualsiasi visitatore contemporaneo negli Stati Uniti non può effettivamente mancare di notare. Quei bigliettoni verdi (o meglio le carte di credito e tutti i beni che esse rendono possibili) sono una materializzazione della trascendenza, un riflesso del paradiso, oltre che un altro potentissimo strumento di de-singolarizzazione dell’io, che attraverso di essi può essere totalmente ridotto alla sua dimensione economica. Peccato che non siano maneggiati come accade in Giappone dove il denaro viene consegnato con immancabili inchini ed entrambe le mani, quando non ritualmente imbustato: le banconote giapponesi – piene di volti serissimi, gradevolmente lisce e sempre misteriosamente nuove di zecca – possiedono in effetti un’aura ancor più avvertibile sebbene per ragioni opposte: esse sono infatti l’espressione di un’immanenza assoluta, dove nell’assenza di una qualsiasi dimensione metafisica (mai pienamente elaborata dalle principali tradizioni religiose giapponesi) l’individuo non può che riferirsi al gruppo per ogni attribuzione di valore al (non)sé, valore di cui si fa carico ciascun pagamento. Il dollaro e lo yen sono effettivamente due monete sacrosante in quanto emblemi della supremazia assoluta dell’economico su qualsiasi altra sfera di vita, e non mi pare proprio che la vecchia lira o nemmeno l’euro ricoprano la stessa funzione antropologica: altro indizio di come l’Europa stia perdendo il treno della modernità (e per fortuna)?

 

È curioso ma niente affatto illogico che a questa sacralizzazione del denaro sia associata una venerazione per lo stato – altro elemento che la cultura europea contemporanea ha invece abbandonato. J. P. Arnason ha studiato ad esempio come l’istituzione imperiale giapponese sia stata investita fin dall’origine, a differenza di altri lignaggi imperiali dell’umanità, di una dimensione particolaristica che la faceva coincidere nonostante la sua ascendenza “divina” (che ha comunque ben poco a che fare con ogni idea di trascendenza monoteistica) a un popolo geograficamente ed etnicamente definito. Tra molti altri fattori fu forse anche questo che condusse il Giappone ad alternare fasi di esasperato insularismo ad altre di espansione violentissima e cieca, incapace di creare sfere imperiali culturalmente integrate e piuttosto tendente all’annichilimento di popoli sudditi – come accadde durante la prima invasione della Corea, la guerra di Cina e la Guerra del Pacifico. Gli Stati Uniti hanno una storia troppo breve per poter fare un confronto su queste linee, ma un altalenare per certi versi simile si può forse ritrovare negli ultimi cento anni di politica americana. Ciò che è sicuro è che l’attaccamento allo stato si riflette in entrambi i paesi in una tendenza fortissima al revisionismo storico in senso nazionalistico, evidente nei luoghi chiave dell’immaginario americano e nipponico come l’Arizona Memorial a Pearl Harbor e il museo Yushukan a Tokyo, che per certi aspetti sono l’uno il rovescio dell’altro. C’è poco da stupirsi che le rispettive società appaiano fondamentalmente autoritarie, e che in esse il rapporto tra io e altri resti soggetto a una fortissima determinazione ideologica; si tratta però in entrambi i casi, io credo, di un autoritarismo impolitico poiché pone ogni simbolo ideologico (sia esso il Campidoglio, la Casa Bianca o il tempio Yasukuni) al servizio della sfera economica, che per dispiegarsi al massimo non può che sfruttare il potere costituito: così il parlamento degli Stati Uniti più che luogo della sovranità del cittadino è quello dove la corporation esercita il proprio potere di lobbying, e non tanto differentemente il parlamento e i ministeri giapponesi sono, come è stato largamente commentato da centinaia di studiosi, i due vertici di un sistema di collusione e compenetrazione di poteri forti che ha nelle grandi aziende il terzo fondamentale membro.

 

In questa situazione non si può pensare, evidentemente, che sia semplice prendere coscienza della singolarità della propria vita, anzi pare che ogni tensione a farlo sia addomesticata, isterilita, pacificata: non a caso le società giapponese ed americana contemporanea sono probabilmente, nel mondo d’oggi, quelle che hanno maggiormente marginalizzato l’esperienza estetica. Sono società non soltanto profondamente antintellettuali ma soprattutto straordinariamente inestetiche, dove la creatività è incanalata in modo quasi esclusivo nelle professioni tecnico-ingegneristiche e nella cultura videoludica e multimediale. Si può forse individuare un emblema della loro affascinante convergenza contemporanea proprio nel fenomeno digitale del selfie, che coinvolge naturalmente anche molte altre società. È stato spesso ripetuto come rappresenti il trionfo del narcisismo, e sono d’accordo, ma esso vi trionfa nel momento stesso dell’annullamento dell’io, della completa assunzione di un’incapacità di esprimere la singolarità di una vita che è invece abbandonata a una serie di azioni rituali: il photoshopping, l’upload, il click. L’astrazione dell’essere in un insieme di pixel ha la conseguenza socio-politica di liberare la sfera di vita non-digitale da ogni tentativo di singolarizzazione, lasciando che le dinamiche economiche la travolgano totalmente (non a caso si va tanto spesso su Facebook nelle pause del lavoro, magari accedendovi da un qualche piccolo cubicle per poi ritornare a sgobbare e, se possibile, consumare). In Giappone e Stati Uniti il selfie è insomma lo straordinario punto di convergenza di due genealogie culturali in apparenza lontanissime, ma che paiono oggi condividere un modello di vita sempre più globale: probabilmente perché, come accennava la Arendt, la modernità ha in sé qualcosa di incredibilmente arcaico e quindi di totalmente condiviso – nel modo ad esempio in cui pare imitare coi suoi ritmi le procedure biologiche intrinseche al nostro corpo (il respiro, la fame, la sete), quasi fosse la realizzazione non come spesso si ripete dell’inumano ma di ciò che abbiamo di più umano: la paura dell’oblio e della morte, il bisogno di riconoscimento e di espressione attraverso l’altro da sé, la predisposizione al sapere tecnico, ecc. Se ci sentiamo prigionieri della modernità è forse perché lo siamo prima di tutto della nostra natura… che poi quella natura abbia tra le sue caratteristiche anche quella di voler uscire da se stessa è un’altra storia.



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