In questi giorni la questione immigrazione è tornata a essere la notizia che campeggia sulle prime pagine dei quotidiani e che invade i palinsesti televisivi. Eppure, ancora una volta, ignorando sistematicamente i numeri e le proporzioni. A dominare, come sempre, è l’utilitarismo abietto dei singoli, non importa se si tratta degli Stati, delle Regioni o dei Comuni. Lo scorso anno sono arrivati dal mare 170 mila migranti (56 mila nei primi cinque mesi e mezzo del 2015) e questo è stato sufficiente a mettere a nudo, a essere benevoli, l’incapacità e l’impreparazione dell’Unione europea. Una istituzione politica nella quale vivono 500 milioni di persone non sembra capace di affrontare razionalmente un numero di persone pari a una ogni 3000 abitanti. Con l’automatismo dei riflessi condizionati, ogni Stato ha subito provveduto a ritrovare nella difesa e nel controllo unilaterale dei confini un irrinunciabile baluardo della propria sovranità. Ma in nome di quali principi le opinioni pubbliche dei paesi membri dell’Unione europea arrivano a chiedere all’istituzione che ne rappresenta la forma di vita politica, lo Stato democratico di diritto, di applicare una politica di restrizione delle frontiere a uomini, donne e bambini che fuggono da paesi flagellati da tirannie, corruzione, cleptocrazie, colpi di Stato, guerre civili, dittatori, signori della guerra, funzionari corrotti? A quali principi normativi uno Stato democratico può richiamarsi per adottare una politica dell’immigrazione che chiude la società agli stranieri e cerca di rendere ermetici i propri confini anche a costo di disapplicare le Convenzioni internazionali alle quali ha pure formalmente aderito?
Il principale di questi principi normativi è il principio di autodeterminazione. Questo principio impone che le situazioni controverse d’interesse debbano essere affrontate e risolte da istanze politiche territorialmente circoscritte. La democrazia presuppone un demos collettivo che costituisce una particolare comunità politica. La democrazia sembra richiedere la divisione dell’umanità in gruppi distinti che operano quali unità politiche più o meno indipendenti. La democrazia, in altre parole, richiede che il popolo sia diviso in popoli. Ovviamente, sostenere che la democrazia richiede l’esistenza di confini chiaramente definiti – cioè di giurisdizioni politiche differenziate – non determina preventivamente quale debba essere il regime di controllo che ne deriva: la democrazia può certo esigere dei confini, ma non è detto che questi debbano essere chiusi per effetto di un regime unilaterale di controllo esercitato dalla comunità politica territoriale.
La questione dell’esistenza e la questione del controllo, per quanto siano certamente correlate, vanno perciò tenute analiticamente distinte. La pura e semplice esistenza di un confine che delinea giurisdizioni politiche separate non dice ancora nulla riguardo alle politiche di ammissione e ai soggetti cui spetta il compito di definirle. Per fare un esempio banale, i confini tra i diversi Stati dell’Unione europea non sono stati cancellati, ma la libera circolazione dei cittadini è garantita dall’articolo 45 del trattato sul funzionamento dell’Unione e ulteriormente precisato dal diritto derivato e dalla giurisprudenza della Corte di giustizia europea. Per difendere il diritto di controllare e di chiudere unilateralmente le frontiere sono necessari ulteriori argomenti. Argomenti che si appellano invariabilmente al principio specificamente democratico dell’autodeterminazione collettiva, che, si sostiene, prevede la libertà delle comunità politiche di definire unilateralmente, non solo per i migranti “economici”, ma anche – a dispetto del diritto internazionale – per i rifugiati o i richiedenti asilo, le condizioni di accesso al territorio dello Stato.
E tuttavia, quanto è democratica la decisione dello Stato democratico di chiudere a sua discrezione i propri confini? Questa risposta dipende da come si risponde a un’altra domanda: qual è il destinatario della procedura di giustificazione democratica? Se una politica di rigido controllo rientri nella legittima discrezionalità dello Stato democratico è una questione che non può essere decisa, in un senso o nell’altro, a meno che non sia stato preventivamente chiarito quale ne sia il destinatario. E questa domanda suggerisce a sua volta una domanda ulteriore: è davvero democratica una linea d’azione politica che rimane ostinatamente sorda alla voce dei migranti? Si dirà: la competizione di stampo nazionalista che si è scatenata tra i Paesi europei è una conseguenza diretta della pressione che i vari governi subiscono da parte delle rispettive opinioni pubbliche, che – con toni allarmistici e talvolta paranoici – esigono argini contro i flussi migratori. E in democrazia, la volontà dell’opinione pubblica non può che essere “legge” per i governi. Non è esattamente così. Il principio di sovranità popolare richiede che l’esercizio coercitivo del potere politico venga democraticamente giustificato nei confronti di tutti coloro ai quali si applica. E, di fatto, il regime di controllo delle frontiere che delimitano una comunità politica rispetto alle altre sottopone sia i cittadini sia i migranti all’applicazione del potere coercitivo. Pertanto, gli oneri della giustificazione di uno specifico regime di controllo delle frontiere non sono dovuti soltanto a coloro ai quali le specifiche leggi sulla cittadinanza conferiscono il diritto di appartenenza, ma anche a coloro che ne sono esclusi – e questo proprio perché e nel momento stesso in cui lo sono.
I regimi di ammissione/esclusione adottati dagli Stati democratici non possono essere improntati al puro e semplice esercizio della forza, anche se, quando si parla di confini, piuttosto che di accoglienza o di ospitalità si parla con allarmante monotonia di pattugliamenti, controlli, monitoraggi, presidi, affondamento di barconi e talvolta di espulsioni, deportazioni o pratiche di detenzione. Il punto è che la questione dei confini implica, necessariamente e inevitabilmente, insieme a un “noi” demarcato spazialmente, anche un “loro”: per quanto la pretesa democratica di legittimare l’esercizio del potere politico faccia riferimento a coloro ai quali il potere si applica in linea di diritto, i confini civici e politici (che per definizione distinguono tra appartenenti e non appartenenti) sono pur sempre istanze di potere che si applicano, in linea di fatto, sia agli appartenenti sia ai non appartenenti – e i non appartenenti sono precisamente quelli la cui volontà, opinione o interesse il sistema politico democratico territorialmente delimitato ritiene di poter legittimamente ignorare. In altre parole, il processo di costituzione dei confini civici è un esercizio di potere che si applica sia agli insider sia agli outsider e che intrinsecamente, per il solo fatto di costituire il confine, priva gli outsider sui quali viene esercitato il potere coattivo dello Stato del “diritto di avere diritti”.
Ciò porta a ritenere che una politica dei confini chiusa all’ingresso dei migranti potrebbe essere democraticamente legittima soltanto se i processi pubblici di argomentazione e deliberazione si rivolgessero sia ai cittadini sia agli stranieri, oppure ai cittadini il cui diritto unilaterale di controllare le politiche di ingresso avesse ricevuto una sorta di mandato che fosse tale da legittimarne le decisioni agli occhi di tutti i potenziali interessati. In entrambi i casi, il regime di controllo andrebbe giustificato sia nei confronti degli uni sia nei confronti degli altri. In pratica, questo significa che il regime di controllo delle frontiere applicato da uno Stato potrebbe acquisire legittimità solo se ci fossero le istituzioni democratiche cosmopolitiche in grado di legittimare la rinazionalizzazione dello spazio politico introdotta dagli Stati in risposta alla denazionalizzazione dello spazio economico, e se questo processo prendesse cittadini e stranieri in pari considerazione.
Ovviamente, istituzioni partecipative a livello globale attualmente non esistono; nella migliore delle ipotesi, esistono in ambito limitato e riguardano gli Stati dell’Unione europea. Ciò tuttavia non impedisce di rilevare che dal punto di vista democratico gli attuali regimi di controllo delle frontiere soffrono di un deficit di legittimità: anche se vengono presentati come la naturale applicazione della dottrina della sovranità statale, sono illegittimi proprio da un punto di vista democratico, oltre che ben poco rispettosi dei più elementari diritti umani. Se la teoria democratica vuole essere coerente con la concezione della legittimità politica che le è immanente, non può non patrocinare la formazione di istituzioni democratiche cosmopolitiche che abbiano titolo e giurisdizione per definire le politiche di ingresso e di attraversamento dei confini, oppure per delegare la competenza su queste materie a particolari Stati o ad altre istituzioni. Altrimenti, come è accaduto al confine italo-francese di Ventimiglia oppure ai confini con Svizzera e Austria, il confine della vergogna diviene l’esempio estremo di una vergogna senza confini.