sensibilità e giudizio

 

Il problema non sorge con Kant. È ben più antico. Antico quanto la filosofia, che sin dall’inizio pose al centro della sua indagine – e non per altro che per “ben vivere” (eû zên), per vivere, cioè, secondo giustizia – il loghizómenos, colui il quale, dotato di logos (ragione e discorso insieme), sceglie, in ogni occasione di vita, quale sia il logos migliore da seguire. È da Platone quindi che la ragione porta dinanzi al proprio tribunale se medesima. Ed è in questo momento che il problema non-filosofico, o non ancora filosofico, del rapporto pensiero-essere, parola-realtà, diviene problema autenticamente filosofico, perché investe con la relazione i suoi termini, ed anzitutto il luogo stesso del problema: il pensiero, il discorso. È in questo tempo che l’ammonimento del sophós di prestare ascolto non a lui ma al logos (Eraclito, Diels-Kranz, Fr. 50), si muta da soluzione del problema in origine d’ogni domanda. La filosofia porta la scissione all’interno dell’uomo. La fertile fantasia di Platone riconosce già dall’etimo della parola “ánthropos” (“uomo”), ricavata per contrazione da “anatrôn à ópope” (“quegli che riflette sulle cose viste”: Cratilo, 399c), la divisione tra riflessione e visione (ragione e sensibilità, in termini kantiani) che caratterizza la natura dell’uomo.

            Non a caso il compito che Kant avvertì come necessario e preliminare fu quello di indagare dapprima i ‘termini’ della distinzione che fa problema: quella tra ragione giudicante e ragione giudicata. Ragione, pensiero, intelletto, coscienza, “io” sono fuorvianti fin quando il loro significato non venga esattamente determinato. Pertanto davanti all’orizzonte rappresentazionale, entro il quale prende figura il mondo in noi e per noi, è necessità distinguere, anzitutto, quanto è opera della storia e della cultura umane e quanto della natura. Ma è possibile una tale distinzione? La visione dell’albero è opera dei sensi o della mente? o non piuttosto di entrambi? E così la visione del verde, delle foglie, o anche solo della loro figura, o dimensione? Facile ridurre tutto a pensiero, perché tutto è immagine, e non c’è essere, cui ci si possa rapportare, che non sia immagine, rappresentazione. Il problema è: quale la ‘natura’ di questa immagine, o meglio di queste immagini, ché non tutte sono eguali? L’immagine del verde è diversa da quella del movimento – e di una diversità diversa da quella tra il verde e il rosso. Ma ciò che innanzitutto si fa innanzi nell’indagine di Kant, ciò che di questa indagine maggiormente sorprende è che in essa si fa questione non di questo o quel fenomeno, né della distinzione dei fenomeni tra loro, bensì dell’accadere del fenomeno. Goria segna con chiarezza questo passaggio, che muta direzione allo sguardo filosofico. Scrive, a commento del brano di Kant sul ‘semplice sorgere’ dei fenomeni quale oggetto principale di ricerca: “Das bloße Entstehen: che qualcosa cominci assolutamente ad essere – questo è ciò che del mondo assolutamente colpisce, questo il fenomeno. La riflessione teoretica che su di esso opera, rivolgendosi al mondo più comune, è sguardo che lo sottrae alla sua ovvietà.” Il mutamento dello sguardo opera in due direzioni. Per un verso sottrae la conoscenza scientifica alla sua possibile riduzione a fenomeno culturale umano, per l’altro muta nel profondo il significato stesso dei termini tradizionali: in particolare di “soggetto”, “oggetto”, “io penso”, “intelletto”, “ragione”, che Kant impiega non sempre in modo coerente (di qui le molte incomprensioni e critiche). Quanto al primo aspetto dobbiamo dire che qui si mostra tutta l’importanza dell’Estetica. L’esperienza ‘sensibile’ – che da sempre è stata considerata per sua stessa natura relativa e prospettica, e cioè ‘soggettiva’ – è di fatto il primo elemento oggettivante del conoscere. Perché, se ciò che della sensibilità l’analisi trascendentale indaga non è il ‘fenomeno’, bensì il suo semplice sorgere, allora il passaggio dallo ‘stupore’ per l’evento alla sua esplicazione razionale passa attraverso la determinazione delle condizioni di possibilità di questo evento. Condizioni che sono certamente ‘soggettive’, ma non nel senso che dipendono dal soggetto, bensì nell’altro che lo costituiscono. C’è sensazione – questa o quella, visiva, tattile, olfattiva, uditiva…, e dell’uomo come dell’animale, e pur del vegetale (non esistono forse piante sensitive?) –; c’è sensazione se ed in quanto v’è l’orizzonte in cui essa può accadere: l’orizzonte dello spazio e del tempo. È noto che non sono mancate critiche riguardo alla distinzione kantiana dello spazio e del tempo, come “intuizioni pure” della sensibilità – ossia: puri orizzonti dell’apparire delle cose – dalle “categorie” del pensiero quali determinazioni a priori di questi orizzonti. Schopenhauer, ad esempio, poneva spazio tempo e causa sul medesimo piano. Ma la distinzione è in Kant fondamentale per sottrarre l’analisi trascendentale della conoscenza scientifica al pericolo della sua riduzione antropologica. Se per qualsiasi ente la relazione spaziale e temporale è costitutiva, non si può certo dire lo stesso della relazione causale. Il problema invero non è così semplice, perché tra i predicati dei giudizi non v’è solo la causalità, vi è anche la quantità: e in che questa può essere distinta come categoria a priori dell’intelletto da spazio e tempo come intuizioni pure della sensibilità? Si danno spazio e tempo senza molteplice? E molteplice senza spazio e tempo?

            La difficoltà di una spiegazione esauriente della distinzione tra sensibilità e intelletto non toglie però la ‘necessità’ di questa distinzione per l’analisi trascendentale. Particolarmente perché – e qui passiamo al secondo punto sopra indicato – intuizioni pure della sensibilità e concetti puri dell’intelletto non stanno le une accanto agli altri, ma sono profondamente intrecciati, essendo i secondi, come s’è detto, aprioriche determinazioni dell’orizzonte spazio-temporale. Goria avverte sin dall’inizio che fondamentale per la intelligenza del metodo critico è comprendere che nell’analisi trascendentale dell’esperienza Estetica Analitica e Dialettica non si susseguono linearmente: il passaggio dall’una all’altra sezione è un’opera di scavo alla ricerca dell’unità profonda che sostiene e tiene-insieme i tre ‘momenti’ della conoscenza: sensibilità, intelletto e ragione. Quindi non c’è mai una pura cognitio sensitiva. L’isolamento operato nell’Estetica dell’intuizione dal concetto è solo un’astrazione. Necessaria, certo, ma pur sempre astrazione. E quanto difficile! La sua realizzazione impone una radicale epoché dell’“icononologia della mente”, ovvero delle immagini o rappresentazioni attraverso cui abbiamo esperienza del mondo, dell’unico mondo che c’è, il mondo della nostra esperienza. E qui vien fatto di ricordare Vico: delle rappresentazioni puramente sensibili del mondo, quelle che possiamo attribuire ai primi figli della terra, i Gegeneîs, i Giganti, si dà a stento intelligenza, certo non immaginazione! Ma in Kant la sensibilità pura non va cercata in un passato remoto, arcaico, ma in una intemporale arché, sempre presente, attuale. Di questa “arché” la conoscenza, sempre sensibile-intellettiva, o, forse meglio, intellettiva-sensibile, ha bisogno, come della sua interna struttura ‘reale’. Reale – in che senso reale?

Nel senso della realitas phaenomenon. Del ‘fenomeno’: dell’ente, cioè, che non è ‘per sé’, kath’hautó, ma pròs álla, ‘per altro‘. Se lo sguardo sul bloßes Entstehen, sul semplice sorgere del fenomeno, portava la ricerca sulle condizioni di possibilità dell’orizzonte dell’esperienza, l’attenzione al fenomeno piega l’analisi sul ‘contenuto’ dell’orizzonte, su ciò che propriamente in questo si dà. Qui l’analisi trascendentale, raccogliendo l’eredità della mathesis universalis, s’approssima all’esperienza concreta, fattuale. Descrive il mondo fisico: un mondo radicalmente dinamico, costituito da un intreccio di forze, in cui ciascuna sollecita le altre, e dalle altre tutte è sollecitata. È l’universo delle relazioni reciproche (Wechselwirkungen), l’universo del ‘rimando’ come dice sin nel titolo del libro Goria. Definizione felice, perché mette in luce la ‘realitas’ del mondo di Kant, la sua radicale es-posizione, il suo originario essere-fuor-di-sé. La ‘forza’ infatti è tale solo esplicandosi, realizzandosi. La forza è en érgo, in opera, o non è affatto. “Certo – scrive Kant – sorprende sentire che una cosa sia costituita interamente di relazioni; ma una tal cosa è anche un semplice fenomeno e non può essere pensata affatto mediante categorie pure; essa consiste nella semplice relazione di alcunché in generale coi sensi” (A 285, B. 341). Molti problemi si addensano in queste poche righe, e se non è questa la sede per dipanarli tutti, ne diremo qualcosa tuttavia, e proprio in relazione alle acute analisi di Goria. Ma prima va precisato questo, che è essenziale: l’esser-fenomeno del fenomeno consiste, come si è detto, nell’essere-per-altro (o meglio, per-altri) e non per un altro, per il ‘soggetto’, o “io”. Il ‘soggetto’, l’“io”, non è meno “fenomeno” della pietra, dell’albero, o del popolo di Roma. Ché, come l’albero che ho dinanzi per esser visto ha bisogno non solo di occhi, sì anche della trasparenza dell’aria e della luce, così “io”, e non meno il romanus populus, siamo quel che siamo in quanto in rapporto con altri uomini e altri popoli: in quanto siamo, al pari di tutti gli altri fenomeni, “forze”, o se si vuole, “rimandi”. E cioè siamo non per-noi, ma per-altro. Quanto poi all’“io penso” che, secondo la celeberrima definizione, “deve poter accompagnare tutte le nostre rappresentazioni”, non è certamente un fenomeno tra gli altri, perché è l’orizzonte in cui tutti i fenomeni appaiono. Orizzonte tanto poco soggettivo e tanto poco oggettivo da essere il luogo in cui come il soggetto così l’oggetto sono, e cioè: appaiono, forze anch’essi, come tutti gli altri fenomeni: forze tra forze. “L’io penso” (si noti: “das: Ich denke”, e non “ich denke”, io penso), e cioè il cd. “soggetto trascendentale” (così poco “io” che Kant lo nomina anche “egli” (Er) o “esso (Es), la cosa, das Ding, welches denkt”) non è altro che “il veicolo di tutti i concetti”, e cioè una funzione logica. Come ben spiega Goria, è la regola stessa del mondo, la regola che articola l’orizzonte di apparenza nelle varie forme secondo cui i fenomeni appaiono e possono apparire. Ma di questo orizzonte, e della sua ‘regola’, “in sé e per sé” altro non è possibile dire che è = X. Il rigore kantiano nell’attenersi alla logica della sussunzione, secondo la quale sono i predicati che determinano l’essere dei soggetti, e cioè li fanno apparire, in quanto li relazionano, impedisce che si determini ulteriormente l’orizzonte, che cioè si faccia del predicato il soggetto di altri predicati. È la critica che Kant svolge nella Dialettica trascendentale al concetto dell’autocoscienza: far dell’“io” un oggetto di conoscenza significa presupporre l’“io” a se stesso, avvolgendosi così in circolo. Hegel respinge l’argomento con asprezza. Kant – dice nella Dottrina del concetto della Scienza della logica – non va oltre la rappresentazione comune, non intendendo che quel circolo, nonché essere un “inconveniente” (Unbequemlichkeit), è la natura stessa dell’autocoscienza, che diversamente dalla pietra è assoluto riferimento a sé. Goria va più a fondo nella trattazione del problema. Risale dalla Dottrina del concetto a quella dell’essenza, per mostrare come il concetto di riflessione in Hegel non resta esterno alla “cosa”, ma s’interna in essa, sprofonda in essa, per mostrare la logica naturale, inconscia che pervade tutte le nostre rappresentazioni e azioni e sensazioni. La ‘definizione’ platonica di “anthropos” viene così portata a verità: “vedere” è già “pensare”. “Wir sehen, wie wir deuten” – dirà Wittgenstein. Chiaramente la critica hegeliana rappresenta un ritorno alla logica aristotelica dell’inerenza, ché nella Logica, come in tutto il Sistema, il giuoco è condotto sin dall’inizio dal “soggetto logico”, nel quale sono già da sempre, impliciti, tutti i predicati, che la ragione, ovvero la riflessione, intima all’essenza dell’ente, non ha altro compito che quello di esplicitarli in un sillogismo tauto-eterologico. Ma proprio l’“intimità” della riflessione all’essere dell’ente – nel dettato platonico: dell’“anathrei” allo “heóraken” (o “ópope”) – è il presupposto che la ragione non può porre, senza ribadirlo qua presupposto: un bel “contraccolpo in se stesso”, come Hegel stesso dice nella prima forma di riflessione, la “setzende”. Né sembra che Hegel sia riuscito a ‘superare’ la riflessione ponente, se non con un argomento ‘esigenziale’, quello che Dieter Henrich illustrò dicendo, se non si esce dalla riflessione separando i termini del “contraccolpo” mediante la “riflessione esterna”, allora non si ha passaggio dalla logica dell’essere a quella dell’essenza (cfr. “Hegel Logik der Reflexion”, in Id., Hegel im Kontext, Frankfurt/M 1971, pp. 95-156). Che è come dire che se non si segue la logica dell’inerenza del predicato al soggetto – id est: se non si assume che l’essenza (la riflessione) è già da sempre nell’essere (nella vista, nel senso) – allora non si dà identità di predicato e soggetto, di visione e riflessione! L’identità è premessa della dimostrazione dell’identità. Che è appunto l’“inconveniente” messo in luce da Kant.

Ma questo inconveniente non è presente anche in Kant? Dire che il predicato determina il soggetto, che l’“io penso” è funzione logica, non significa conoscere l’Io penso, la funzione logica? V’è, allora, un’autointuizione pura dell’Io, una conoscenza dell’Io che non ha bisogno d’esperienza? Assolutamente no. La conoscenza dell’orizzonte non è mai “in sé e per sé”, non c’è conoscenza noumenica dell’orizzonte. Si conosce dell’orizzonte solo la sua interna costituzione, l’operante insieme di Wechselwirkungen, e non quello che è in sé: “in sé e per sé” l’“Io penso” – tanto “Io” quanto “Esso” – è solo una X. Peraltro la stessa conoscenza interna dell’orizzonte è solo “formale”. L’analisi trascendentale non va oltre la forma, non giunge mai all’esperienza effettiva. Il singolo, nella sua singolarità, sfugge alla presa del concetto, dello schema, passa attraverso le maglie dell’intuizione spazio-temporale. Le “anticipazioni della percezione” lo dicono chiaramente: della sensazione si conosce solo il ‘grado’, il numero che ne indica l’astratta quantità. Astratta, perché attribuita dall’esterno, con una misura che non appartiene alla cosa, all’ente: il numero. La stessa sensibilità su cui poggia il sapere scientifico è solo formale. L’individuum omnimodo determinatum resta fuori dell’analisi trascendentale come della scienza.

L’analisi kantiana è sospesa tra due vuote forme, l’interna che mai si realizza in un contenuto determinato, l’esterna che mai si raggiunge. La Dialettica mette a nudo questo limite che riduce molto le aprioriche certezze dell’“isola della verità”. I marosi dell’oceano non minacciano soltanto le coste, penetrano sin dentro l’isola: perché proprio la condizione fondamentale della scienza, l’individuazione della causa necessaria e sufficiente dell’accadere fenomenico, è irrealizzabile. È possibile sì giungere alla causa necessaria, ma mai alla sufficiente. Il regressus ad infinitum vanifica l’impresa, e arrestarlo è solo arbitrio.

Tutto ciò è in Kant totalmente esplicito. Il senso della distinzione tra fenomeno e noumeno è appunto questo: fenomeno dice “essere-per-altri”, e non “per-sé”. E quel “per sé” che è l’orizzonte ‘possibile’ di tutte le relazioni (di tutti i “per-altri”) è solo una X, a cui neppure i predicati dell’“essere” e del “non-essere” con-vengono – perché ad esso non con-viene predicato alcuno.

Il peggio che può accadere nell’interpretare Kant è figurarsi questa X come l’ultima Terra sicura su cui può l’uomo può poggiare fiducioso il piede. Il ‘fenomenismo’ kantiano non consente securitas alcuna. Il suo sbocco non è l’Aperto di Heidegger, ma un nichilismo composto, sobrio – la celebre Nüchternheit di Kant, prossima alla serenità di Spinoza tanto quanto è lontana dall’assolutezza della sua filosofia –, liberamente ‘sospeso’ alla possibilità del possibile.

Non è mia intenzione attrarre la ricerca di Goria nell’orbita di queste mie conclusioni. Neppure però voglio passare sotto silenzio il mio coinvolgimento in questo lavoro fine e profondo, il cui vertice è segnato dalla originale ‘lettura’ dell’io quale limite. Tra fenomeno e noumeno; o, come scrive Goria, con letteraria eleganza: “tra metafora e silenzio”, ove “il nulla della parola non è solo l’ombra che ispessisce la luce altrimenti diafana, incolore; l’ombra della parola è il suo annullamento, che ove è negato e significato, lì è respinto e, in quanto respinto, resta muto – tale mutezza la parola con travaglio e tremore esperisce quand’essa a sé è la «cosa» che nel mondo pensa.” Cosa aggiungere? Che l’io-limite pone un problema ulteriore rispetto al conoscere scientifico: il problema di come abitare questo mondo instabile e insicuro. La filosofia torna alla domanda con cui ebbe inizio: la domanda sull’eû zên. Certo, con molti più dubbi su se stessa, sulla ragione e sul mondo.

Vincenzo Vitiello

 

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