Il cinema di Nanni Moretti è un cinema esistenziale ed ontologico che interroga il rapporto tra l’esistenza dell’uomo Moretti ed il mondo: un rapporto precario, opaco, caratterizzato da una differenza, una distanza non rimarginabile, che si riferisce all’eternità del tempo. Mia madre, il film di Nanni Moretti in concorso a Cannes in questi giorni, racconta la storia di Margherita (Margherita Buy) una regista impegnata nella lavorazione di un film che parla della crisi di una fabbrica e dello scontro tra l’imprenditore, interpretato da un istrionico attore americano Barry Huggins (John Turturro) e i lavoratori. Margherita sta vivendo un periodo di trasformazione, ha appena lasciato il suo compagno e deve seguire il problematico periodo adolescenziale della figlia. Margherita e suo fratello Giovanni (Nanni Moretti) accudiscono la madre gravemente malata.
La distanza tra rappresentazione e realtà è la richiesta che Margherita fa ad un’attrice del suo film: un attore deve stare dentro e fuori la parte, voglio vedere sia il personaggio, sia l’attore. Moretti ci mostra questa dialettica senza sintesi, attraverso il racconto di una storia intima e realistica, recitata con uno stile atemporale che restituisce questo iato. Mia madre interroga la differenza anche nel senso del rapporto tra presente e passato. La camminata di Margherita a ritroso della coda davanti al cinema Capranichetta, si ferma davanti a lei stessa giovane. Moretti anche in questo senso lascia aperte le domande senza giudizio, né nostalgia.
Mia madre è un film sul ruolo e sulla difficoltà dell’essere intellettuali. Margherita cerca di rappresentare la sua visione del mondo, ma mentre tenta di metterla in scena, si accorge della sua sconfitta che sta nelle parole, nei gesti, nelle immagini nel momento in cui vengono espresse. Il rapporto del cinema nel cinema denuncia l’impossibilità di questa ambizione. Essere intellettuali, per Moretti, è un dramma, un inferno, sia perché si vive sempre più confinati in un mondo indecifrabile ed irriconoscente, sia perché porta alla consapevolezza dell’incomunicabilità, all’autarchia. Vale la pena, a tal proposito, riprendere il Michele Apicella di Bianca (1984), un insegnante che lavora nella scuola Marilyn Monroe che ha abdicato alla sua funzione formativa, dove è presente uno psicologo, ma per i docenti. Michele, sempre più estraneo al mondo, cerca delle parentesi di senso, delle isole per placare il suo dolore (la Sacher torte, la nutella, il pallone). Alla fine la rigorosa morale delle intenzioni lo porta ad uccidere i suoi amici che avevano tradito la sua visione del mondo manichea. Così lascia Bianca preventivamente, perché consapevole della precarietà dei rapporti amorosi. Perché tutto questo dolore? Mi devo difendere – le dice Michele. Moretti nel suo cinema mette in scena la sua sconfitta. Essere un intellettuale isola.
Proprio da questo punto di vista, però, Mia madre si configura come una parziale novità. Tutti mi chiedono di spiegare il mondo ma io del mondo capisco ben poco – ammette Margherita – che nella conferenza stampa afferma il suo disprezzo verso il linguaggio retorico. E sembra quasi che l’accusa sia rivolta anche contro una parte recente dello stesso Moretti. Giovanni dice a Margherita: rompi almeno uno schema. E Moretti lo fa, in parte per davvero, in parte per finta. Mia madre è il suo film più autocritico ed umile. Margherita (che è Moretti) è una intellettuale capace, sincera ma con molti dubbi e fragilità. Il regista è uno stronzo – dice di se stessa Margherita. Non inganni, quindi, il fatto che Moretti interpreti un personaggio laterale; non è lui, o meglio, ne è solo una parte secondaria. Rispetto alla sorella, Giovanni è più calmo, riflessivo e ad una cena dice: il regista ha sempre ragione. Il tema freudiano dell’io diviso ritorna spesso nel cinema morettiano. Con questo apparente spostamento, con questa finta, depista gli spettatori e prende in giro chi lo accusa di narcisismo. In realtà in Mia madre, Moretti è sempre e ovunque presente. I suoi detrattori, per questo, lo hanno accusato di moralismo narcisistico, confondendo etica ed arte e non comprendendo l'(auto)ironia e il coraggio orgoglioso di Moretti. I moralisti veri sono coloro che denunciano la moralità saccente degli altri.
Margherita non comprende il mondo, se ne distanzia. Si lamenta per la scelta degli attori/operai per la loro falsità (le donne hanno labbra ingrossate e gli uomini sopracciglia rifatte) ed il collaboratore le spiega che questi sono proprio i volti della realtà. A questa constazione incontrovertibile, Margherita risponde buttando morettianamente la palla in aria: questo è il mio film per cui i volti sceglili meglio.
Anche la prospettiva politica è stata sconfitta, innanzitutto dalla Storia. Gli slogan degli attori/operai sono falsi, usurati, ogni rimpianto è improponibile. A questa sconfitta, si accompagna l’incomunicabilità tra le persone. Il suo ex compagno la accusa di essere esclusivamente concentrata su se stessa. Tra la regista/intellettuale e gli altri c’è un solco. Eppure Margherita ricerca il dialogo, seppur da una posizione autoreferenziale. “Tu che dici?” è uno degli intercalari più presenti nel cinema morettiano: domanda che richiede un rimbalzo, richiesta spesso inevasa.
Nonostante questa crisi, Moretti ci propone alcune vie d’uscita: in primo luogo quello del ritorno alla terra, al rapporto familiare con la madre/natura/storia. Il senso della vita che prosegue e che si ritrova di fronte allo specchio nel rapporto madre/figlio. E’ possibile che anche questo significato così intimo venga distrutto dallo scorrere del tempo? Che ne sarà di tutti questi libri, Tacito, Seneca? Moretti ci propone l’ermeneutica delle domande e l’ottimismo della volontà/speranza. Il film coerentemente si chiude con l’invocazione al domani della madre morente, per cui ogni morte è anche rinascita. Un’altra risposta arriva dall’umorismo, che in questo film torna ad essere (erano molti anni che Moretti non faceva più ridere) vivo e tragico. Nella scena più comica, Barry è dentro l’auto intento a recitare le sue battute, mentre è estremamente preoccupato di non andare a sbattere, perché la sua visuale è impedita dalle mdp. Le migliori gag comiche di Moretti riguardano sempre noi. Lo spettatore ride della scena e ride, così ,di se stesso che ride della scena. L’umorismo come valvola di sfogo, catartica, temporanea ma non elusiva. Infine Moretti ci propone come risposta la grandezza dell’arte. L’urlo di Barry al cielo stellato di Roma: Rossellini, Antonioni. Il richiamo del regista, in fondo, è ancora alla Ragione. Il cinema che forse più di altre forme artistiche riesce a rappresentare la complessità tra visione e nascondimento.
Le immagini più riuscite di Mia madre ci sono parse i momenti di estraniamento, di deambulazione: Margherita affacciata in terrazza oppure mentre cammina al centro della piazza notturna. La città eterna Roma viene restituita, al nostro sguardo spettatore, priva di saldi punti di ancoraggio, spaesata. Gli interni, di rimando, sono stanze graziose ed ordinate; pranzi e cene con gusto; le parole sono garbate ed educate. I corridoi si percorrono, avanti e indietro, tra le stanze degli appartamenti e negli ospedali, luoghi di cura, alla ricerca del silenzio del tempo.
Pochi i momenti deboli del film ovvero quelli inutilmente dichiarativi: l’auto schiantata al muro, l’imprecazione di Barry: Voglio tornare alla realtà. Nel complesso però Mia madre ci riconsegna un regista vivo, maturo, ringiovanito. E questa, per me, è una piacevole sorpresa, perché le sue ultime prove mi avevano lasciato interdetto. Habemus Papam (2011) era rimasto a metà strada tra elementi di innovazione (le iniziali scene del conclave dei cardinali) e stantie gag consunte (le partite di pallavolo). Il caimano (2006) poi è stato un deciso passo falso, determinato innanzitutto (ma non solo) dal suo essere un film portatore di una visione ideologica, contraddizione strutturale per la poetica morettiana. Moretti al contrario ritorna intellettuale, quando non arringa, quando non denuncia, quando non fa il Moretti ma quando è Moretti, quando torna a fare il suo mestiere di regista sincero, capace di presentarci domande universali e coraggioso nel mostrarci il suo orgoglio, la sua moralità, il politicamente scorretto, il suo egocentrismo che sono anche, in fondo, l’altra faccia delle sue contraddizioni, della sua umiltà, della sua precarietà ed (auto)ironia. Infine è opportuno sottolineare la prova attoriale sia di John Turturro, sia di Margherita Buy, due attori dotati di una recitazione spesso sopra le righe. Moretti riesce ad asciugarne gli inutili virtuosismi e riconduce la loro espressività, placata, verso il pathos naturale.
Ben tornato, Nanni.