Moriremo renziani?

 

 

Alcuni mesi or sono i media italiani hanno proposto all’attenzione degli osservatori politici un tema di particolare interesse, lasciandolo però presto cadere. Il tema è questo: il Partito Democratico non è più tanto un partito di iscritti e di militanti quanto un partito di elettori. Un argomento come questo meriterebbe un’attenta riflessione perché, se esso configura una situazione reale, non c’è dubbio che non soltanto quel Partito, ma l’intera Italia si troveranno di fronte, in un giorno probabilmente non lontano, a una situazione politica notevolmente diversa da quella attuale. Lo sguardo dell’osservatore dovrebbe, per prima cosa, spostarsi dal centro alle periferie, da Roma alle province e alle regioni. Non perché a Roma non stia accadendo nulla di interessante: basterebbe pensare alla discussione in corsoalla Camera sulla legge elettorale. Ma perché certi fatti che si verificano nelle province e nelle regioni mostrano con sufficiente chiarezza che il partito che, stando a certi indicatori e alla boria di chi lo dirige, è un partito fortissimo, in realtà patisce una fragilità di cui esso stesso sembra non rendersi conto. Alcuni episodi sono noti, altri lo sono poco o non lo sono affatto. E’ noto, per esempio, ciò che accade in Liguria: un uomo dell’intelligenza politica e della notorietà di Sergio Cofferati si è dimesso dal partito e altri dimissionari, in occasione delle imminenti elezioni regionali, hanno costituito una lista antagonista a quella ufficiale del PD. In alcune zone del meridione segretari e maggiorenti locali hanno assunto decisioni in aperto contrasto con quelle della segreteria nazionale: il caso del sindaco di Salerno Vincenzo De Luca è solo il più noto e mostra chiaramente la debolezza del potere centrale di fronte agli interessi soverchianti nutriti da alcuni ras locali. Il modo balordo di intendere le elezioni primarie, per cui chiunque può parteciparvi, ha inoltre portato, in Liguria come nel Mezzogiorno, a massicce infiltrazioni di persone di destra nel corpo elettorale, con il risultato che è una destra minoritaria a gestire o a influenzare la formazione delle Giunte. L’esempio offerto da Bologna e dalla Regione Emilia Romagna è forse il più interessante. Anche perché qui i fatti negativamente esemplari si accumulano, mostrando con chiarezza irrefutabile l’immagine di un partito in crisi. Dai politogi e dai media Bologna e l’Emilia Romagna sono state spesso indicate come il laboratorio di eventi politici importanti e come modelli indiscussi di buona amministrazione. Cosa è rimasto oggi di tutto ciò, sarebbe impossibile dire. Quello che è certo è che, alle recenti elezioni per eleggere il nuovo presidente della Regione, si è registrata una diminuzione dei votanti di sinistra simile a una frana, tanto più impressionante in quanto è avvenuta là dove gli elettori sono sempre stati assai numerosi. Quasi per rimediare a questo insuccesso, i dirigenti del PD di Bologna hanno pensato di assumersi il compito di organizzare la Festa nazionale dell’”Unità”, manifestazione che ha sempre attirato un folto pubblico e impinguato le casse del Partito. Qualche dirigente un po’ più accorto di altri deve però aver fatto notare che scegliere per la Festa, come da tradizione, gli ampi spazi del Parco Nord faceva correre il rischio di un fallimento, giacché fra i militanti che si sono rifiutati di votare per l’elezione del Presidente della Regione probabilmente non erano pochi i “volontari” che di solito reggono sulle loro spalle il gravoso lavoro che richiede la gestione della Festa dell’Unità. Dunque: pochi “volontari”, piccola Festa. Così si è deciso di ripiegare sul piccolo parco della Montagnola, con pochi stands e un unico ristorante. Anche così la partecipazione del pubblico, tradizionalmente imponente, è stata esigua, con la parziale eccezione dei giorni festivi. Non bastasse, uno dei deputati bolognesi più autorevoli, il cuperliano Andrea De Maria, ha fatto partire un pericolosissimo siluro nei confronti dell’attuale sindaco Virginio Merola, tendenzialmente renziano e prossimo a scadere, dichiarando pubblicamente che Merola “non sarebbe all’altezza” di un secondo mandato. Ciò ha scatenato una lotta interna al Partito bolognese mai verificatasi con altrettanto violenza dai lontano giorni della Liberazione. Sia chiaro: Renzi rimane forte, non solo perché ha con sé numerosi fedeli, e per le divisioni e i contrasti interni alle cosiddette “sinistre”, ma anche e soprattutto perché dispone di un formidabile alleato, assai difficile da battere: la leggenda o se si preferisce lo slogan secondo il quale egli è finalmente un Presidente del Consiglio che agisce, che “fa”, che realizza, e agisce, fa, realizza “rapidamente”, “con decisione”. Per incredibile che possa apparire, lo slogan ha funzionato e continua a funzionare presso molti elettori, che non sono tutti ingenui e sprovveduti: nella trappola pubblicitaria sono caduti e continuano a cadere anche intellettuali e ex-comunisti, che ignorano o tengono in nessun conto gli ammonimenti di molti fra i maggiori costituzionalisti e giuristi democratici che esortano a guardarsi dal rischio antidemocratico e autoritario che implica l’approvazione della legge elettorale denominata “Italicum”. Concludendo: il Partito democratico scricchiola e minaccia di crollare se si guarda a certe periferie e se si tiene conto delle contese interne e del calo degli iscritti. E’ però ancora forte in ampi strati dell’opinione pubblica e dell’elettorato maggiormente influenzati dai media. Moriremo renziani?



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