Il 16 aprile scorso Gino Strada annuncia la fine dell’epidemia di ebola: «Questa volta ci siamo, l’epidemia è sotto controllo. Ci sarà “una coda”, pochi casi sporadici nel Paese, ma questa epidemia in Africa occidentale è stata vinta, finalmente». Due settimane dopo, a Milano, si inaugura l’expo 2015, il cui tema è Nutrire il Pianeta, Energia per la Vita. I due eventi paiono strettamente legati, non solo perché cronologicamente vicini, non solo perché entrambi vedono l’Italia protagonista, ma anche e soprattutto perché sembrano mettere in contrapposizione due visioni completamente contrastanti del pianeta cibo. Tutto volto a una festa, legittima ma necessariamente piena di retorica e di magniloquenza, l’expo, tutto drammaticamente teso alla morte e al lutto l’ebolavirus che ha portato a più di diecimila morti in pochi mesi. Il punto, comunque, è il cibo, visto nella contrapposizione tra il glorioso occidente e l’oscuro sud del mondo.
Lo spiega bene David Quammen, celebre divulgatore scientifico e collaboratore del «National Geographic», che nel suo corposo volume Spillover, edito nel 2012, ovvero prima dell’ultima epidemia, ma riproposto in Italia da Adelphi nel 2014, nel pieno impazzare della malattia, ricostruisce i vari casi di passaggio di un virus da una specie animale a quella umana. Si tratta per lo più di casi più o meni celebri: Hendra, Nipra, Marburg, SARS e soprattutto HIV, il caso più recente in cui la ricerca evolutiva di un virus zoonotico ha trovato nel corpo dell’uomo il suo ospite serbatoio ideale.
Quammen riporta molti dati scientifici, racconta di spedizioni nelle foreste africane alle quali ha partecipato, di interviste a persone variamente coinvolte nei casi più eclatanti. Il libro, di un genere poco frequentato in Italia come la divulgazione scientifica, ha un fascino bruciante, perché il racconto della verità si incrocia, senza apparente enfasi, col giallo investigativo, col noir, con la confessione drammatica o il genere catastrofista, senza mai dimenticare che alla base c’è la vita che viviamo, sostenuta da documenti scientifici. E quella vita ci racconta di zone del mondo nelle quali pullulano esistenze distantissime dalle nostre, in un’epoca in cui, però, le distanze non esistono più, e il passaggio da un’epidemia a una pandemia può essere velocissimo. In quelle zone, il cibo può essere ancora una risorsa irrinunciabile, anche se porta con sé un’inevitabile scia di morte.
Così si racconta l’epidemia di ebola nel villaggio Mayibout 2, al confine tra Gabon e Congo: «Un giorno dei ragazzi del villaggio uscirono per una battuta di caccia con i cani, in ricerca di istrici. Tornarono, però, con uno scimpanzé, non ucciso dai cani, ma trovato morto. Era marcio, disse Thony, con la pancia tutta gonfia e puzzava. Ma poco importava, la gente aveva fame ed era contenta di aver trovato della carne; macellarono la scimmia e se la mangiarono. Nel giro di due giorni, tutti quelli che avevano mangiato o anche solo toccato la carne cominciarono a sentirsi male».
Ecco lo spillover: ebola salta dallo scimpanzé all’uomo. Ma l’uomo non è pronto ad accoglierlo e così, invece di farlo vivere nel proprio corpo, muore. Resta l’immagine da tragedia greca di quei convitati affamati e felici, uccisi dal corpo marcio dell’animale. «Come era stato cucinato lo scimpanzé? Thony mi rispose sorpreso, come se avessi fatto una domanda sciocca: alla solita maniera africana. Mi feci l’immagine di uno stufato di scimmia coperto da salsa di arachidi e pili pili e accompagnato da fufu»: un pasto esotico, pittoresco per noi, un modo per non morire di fame per loro, e per morire di malattia.
Era il gennaio del 1996, l’epidemia causò 21 morti, un numero minimo se confrontato a quello del 2014-15, cinquecento volte superiore. La ragione di questa differenza è semplice: il villaggio Mayibout 2 dista 7 ore di piroga sul fiume Ivingo dalla più vicina cittadina. È quindi isolato da una fitta foresta equatoriale. Il virus non può espandersi, resta isolato, come la gente che contrae la malattia. Nella recente epidemia, invece, il virus ha attaccato città molto popolose come Freetown con più di un milione di abitanti ufficiali (ma il numero reale non si conosce e probabilmente è molto più alto), e condizioni sociosanitarie bassissime (la Sierra Leone è uno dei paesi più poveri al mondo, molte sono le baraccopoli nella città). È un caso sfortunato?
Come detto, Spillover è stato scritto prima dell’ultima epidemia. Sull’evoluzione di questi fenomeni può formulare solo ipotesi. Ma oggi sappiamo con un certo margine di certezza che anche l’ultima epidemia è stata causata dal cibo. Are Bats Spreading Ebola Across Sub-Saharian Africa?, titolava un editoriale di «Science» dell’11 aprile 2014: i pipistrelli, più precisamente i pipistrelli della frutta testa di martello, sono dunque i responsabili dell’epidemia? Pare di sì, anzi oggi lo si dà per certo.
Pur non potendo ancora conoscere questi sviluppi della ricerca, partendo dall’epidemia di nipah in Bangladesh e poi ripercorrendo via via tutte le altre, David Quammen giunge alla conclusione che il vero pericolo per l’umanità può giungere dagli Ospiti dal cielo, ovvero proprio i pipistrelli della frutta: «Se i pipistrelli sono animali così numerosi, diversificati e mobili, e se i virus delle zoonosi sono così diffusi nelle loro popolazioni, perché gli spillover non avvengono con maggiore frequenza? Siamo forse protetti da qualche scudo magico? O è solo la sfacciata fortuna degli incoscienti?».
«Moriremo tutti?». Con questa domanda che l’autore dice di sentirsi rivolgere ogni volta che parla pubblicamente di questi temi, si conclude il libro. Quammen la risolve con una battuta («Certo, moriremo tutti. È un fatto inevitabile di natura»), però lascia intendere che esiste un pericolo reale, dovuto in gran parte alla sovrappopolazione del genere umano (uno dei peccati capitali già rilevati a suo tempo da Konrad Lorenz). Non c’è scampo dunque?
Non si sa, certamente l’inquietante interrogativo resta senza risposta. Eppure oggi sappiamo che l’ultima epidemia di ebola ha prodotto tante migliaia di morti, contro le decine o al massimo poche centinaia delle precedenti, perché le pericolose usanze (o necessità) dei villaggi si sono trasferite in città. La pratica invalsa tra le popolazioni delle foreste di cibarsi di pipistrelli è arrivata a Freetown assieme alle persone in cerca di fortuna e all’inurbamento coatto. La ragione non tanto dell’epidemia, ma della gravità dell’epidemia è dunque non scientifica ma socioculturale. C’è troppa povertà, la gente non ha modo di sopravvivere, di mangiare, di sostentarsi. Rispetto a questa situazione, ogni modo per vincere la fame è buono. Anche i pipistrelli vanno bene. Ma l’incendio del male, in città, è assai più disastroso che nelle foreste. Le possibilità di una pandemia, con gli aerei che vanno e vengono, assai più alto. Non questa volta, per fortuna, ma la prossima? Festeggiamo il cibo con Expo 2015, ma non dimentichiamo il pericolo che viene da lì, se non ne consideriamo le componenti sociali. Questo sembra il lucido ma preoccupante messaggio di Spillover di David Quammen.