La ricchezza di vita delle zone umide è una meraviglia per la vista, oltre che per la vita stessa.
In questa stagione, mentre osservo dal treno le risaie del vercellese e del novarese rimango abbagliata dalla complessità dei giochi di riflessione della luce sopra ogni superficie allagata. Una caratteristica che accomuna ogni area ricca per natura di stagni, laghi, ruscelli e canali.
Quanto più una zona è ricca d’acqua, tanto più è ricca di vita e una rapida osservazione a spaglio del paesaggio, si rivela superficiale e non adatta alla scoperta delle caretteristiche speciali di quel territorio, dal momento che decine di piante, insetti, pesci e uccelli sono lì presenti, nascosti e mimetizzati. Bisogna solo fermarsi e contemplare con attenzione. Sarà per quello che le vedute di decuplicano, si riflettono come in mille specchi per poter permettere almeno una doppia visione.
E’ una questione quella del contemplare, ben conosciuta da chi quei territori li abita e li vive. Non esisterebbe raccolta, caccia o pesca senza prima un’attenta ricognizione di ciò che offre l’ambiente e di quali sono parallelamente pericoli e insidie.
«Il pescatore fa dell’osservazione della natura, il suo principale strumento di lavoro. Reti, canne e tecniche sono strumenti derivati e conseguenti. La capacità di “leggere” il mondo per ricavarne una relazione con esso e scoprirne le relazioni tra le sue istanze è l’intelligenza. L’azione derivante porta a cercarne gli strumenti di intervento». Così introduce il suo Progetto “La panchina di Pattana” Radico, il Museo Diffuso sulla Civiltà Contadina di San Giuliano Terme (Pi), che intende ricordare un leggendario e quasi mitico pescatore sottolineando «la sua relazione contemplativa con la natura che navigava e che lo nutriva, e con la quale egli nutriva gli altri» un progetto che vuole portare attenzione a quella «trappola filosofica tesa a far confrontare e con/fondere la dimensione visiva del paesaggio, con la postura muscolare, le percezioni sensoriali, la fisicità e l’estetica che vento, odori, scricchiolii e il paesaggio nel suo complesso vivente, segnano nel rapporto con l’uomo».
Una relazione ben diversa rispetto a quella che oggi viviamo con i corsi d’acqua. Spesso percepiti come discariche a cielo aperto, luoghi out, dove albergano sporcizia e abbandono. «Per l’uomo della strada l’acqua, anzitutto, è infetta, è un vettore di danno, di pericoli, di paura. Questo distacco erige una barriera culturale fra le nostre generazioni e quelle che ci hanno preceduto, per le quali l’acqua poteva essere pericolosa, ma era considerata benefica, utile per tante cose». (S. Grifoni e L. Rombai, L’Arno e il suo recupero socio-ambientale nel contesto delle esperienze europee, in Quarantennale alluvione 1966-2006, “Arti e Mercature”, 43, 2 (2006), pp. 205-222).
Un discorso che equivale a quello della relazione dell’uomo contemporaneo con la terra. Altro elemento filosoficamente degno di nota nelle teorie sull’origine, ma di fatto poco appetibile nella percezione comune, tanto da spingerci alla sua cancellazione in virtù di quello sporco, della lordura ch’essa è in grado di veicolare.
Il Cluster Bio-Mediterranean di Expò Milano 2015 con il ben conosciuto tema “Nutrire il Pianeta” (Pianeta = Terra, terra = elemento, terra + pioggia = vita, vita = nutrimento per l’umanità), beh, quel Cluster è stato definito come il peggiore costruito perché la copertura esterna del telone lascia entrare all’interno la ‘sporcizia’ della pioggia e del fango. Così è stata definita dai giornali la pioggia: sporcizia. Direi che chiamandosi Bio, da βίος e avendo questo tema l’Expò, probabilmente sia il Padiglione che meglio raccoglie il significato originario legato al tema di cui si discute. L’asetticità è morte, l’anti-βίος è ciò che uccide la vita e rappresenta la relazione che l’uomo contemporaneo ha creato con l’ambiente, la terra, l’acqua, i batteri, il cibo, la vita stessa, lamentando (anche all’interno di Expò 2015) quanto questa βίος –diversità, oggisi stia perdendo.Per contro, non esiste vita se non c’è sporco, non esiste nutrimento se non c’è vita. Quando impareremo a capire che non c’è cibo senza sporcizia, allora forse rientreremo in quella relazione che riscopre l’intelligenza di chi osserva e intesse relazioni con le istanze e le azioni compiute nell’ambiente che vive e abita.
Il termine relazione è davvero un punto nodale delle difficoltà della nostra società. Esso implica varie pieghe di significato che espongono diverse sfaccettature degli attuali problemi politici. Relazione, deriva da relatore (relàt-us), ossia quella persona che era deputata a riferire (reférre) nei consigli accademici, nei tribunali o nelle piazze i rapporti tra causa ed effetto, a rivelare gli esiti di inchieste, studi condotti e in buona sostanza faccende di pubblico interesse. Una funzione quella della relazione, oggi principalmente affidata ai media, televisivi e web. Dove però la ‘relazione’ è diventata indiretta a motivo delle modalità odierne di riferimento e dell’atteggiamento della controparte pubblica, ossia le persone a cui questa informazione è diretta. Partecipazione e interesse scadono se chi relaziona è aldilà di uno schermo e al di qua c’è il cittadino sdraiato sul proprio divano e chiuso semidormiente nel nido domestico, senza più alcuna relazione spaziale con le altre persone della piazza. L’isolamento della privatizzazione degli spazi ha portato le ‘relazioni’ a non essere più dirette ai referenti, ma a un referente singolo, senza relazioni dirette e immediate con i membri del consiglio, del gruppo, della piazza a cui essa sono riferite. Un gioco di parole dal triplice significato.
La logica causa ed effetto ha poi sottolineato il significato di rapporto, causale, del termine relazione. In ogni caso da queste tre accezioni differenti la radice è una, il dialogo. La televisione genera infatti sempre e comunque un monologo, ben diverso dal riferire. Nel dialogo l’io diventa noi, la base della società. Ecco come il pensiero “Io mi relaziono” si trasla in tre coniugazioni:
Mi rapporto, mi misuro all’altro e allo spazio, relazionandomi alle altre persone, alla terra, all’aria, a tutti gli agenti esterni a me;
Mi rendo referente partecipe e attivo, chiedendo relazione degli eventi e delle faccende di pubblico interesse, dell’altro e dello spazio in cui sono inserito;
Mi relaziono, inserendo le mie azioni e i miei pensieri nel grande ciclo di causa ed effetto, il concetto di tempo entra qui in gioco, relazionandomi alle generazioni passate e future;
Slegando le nostre azioni dal rapporto di causa ed effetto, dimenticando la storia, eliminando il dialogo, sbarazzandoci dell’idea di confronto con l’altro e con l’ambiente in cui siamo inseriti stiamo scavando troppo profondamente attorno e in mezzo alle radici della società. Rischiamo quindi che l’albero dal quale traiamo nutrimento e riparo ci crolli irrimediabilmente addosso.
Un piccolo esempio controcorrente. Ogni domenica pomeriggio i parchi pubblici della città di Torino si riempiono di persone che portano ‘sporcizia’ – intesa come vita -.
A macchia di leopardo tutte le aree verdi si tappezzano di piccoli nuclei di nazionalità perlopiù rumena e sudamericana, che si affiancano attorno a un fuoco, un barbecue mobile e passano l’intera giornata mangiando a contatto con l’elemento più simile, contemplato nelle città, a quella ruralità originaria dei loro paesi. Li ho osservati molte volte. Si relazionano tra loro, si relazionano al parco e quindi alla città, si relazionano tra generazioni diverse e si rendono referenti di un luogo che ‘politicamente’ è diretto ai cittadini per permettere loro una relazione con gli ambienti naturali. E tutto ciò genera anche sporcizia. Stare in un parco sporca gli abiti e le scarpe e mangiare assieme sporca, così come il fumo impregna i capelli. I cassonetti, così come alcuni angoli dei parchi si riempiono di pattume, prontamente rimosso dagli organi di pulizia cittadina.
E ciò è male per l’asettico cittadino contemporaneo dedito a shopping e centrocommerciale-dipendente che vede in questo modello di vita una sporcizia gratuita e maleducata. Paradossale come invece la grigliata domenicale al parco, appaia invece come una semplice azione che alimenta la società. La nutre, la vitalizza, la sporca, la concretizza, in buona sostanza la realizza, in una grande rete di relazioni che porta a relazionare e contemplare ogni agente esterno al sé.