di Ilaria Guidantoni e Nicola Posteraro
In questo momento storico, più che in altri, la bellezza è divenuta un valore primario e indispensabile per affrontare una “sana” vita di relazione; se non addirittura il valore fondante della società, l’unico per poter parametrare capacità, forza, passione, intelligenza e simpatia d’una persona: tutti, più o meno consapevoli e consenzienti, viviamo in simbiosi con il nostro corpo che, in tale prospettiva, dev’essere necessariamente bello, sano, perfetto ed eterno. In quest’ultima declinazione, troviamo una delle chiavi di accesso per capire le ragioni dell’ascesa della bellezza nella sua centralità: il mito della giovinezza, che da sempre l’umanità rincorre ma che oggi non trova compensazioni. Il decadimento fisico non è infatti protetto dalla saggezza, ad esempio, e da altri valori consolatori. La divinizzazione del corpo porta ad una reificazione dell’io ridotto a corpo e, quindi, al di là dell’apparenza, prigioniero della propria carnalità. L’illusione di poter intervenire sulla propria fisicità diventa presto, infatti, una costrizione che non riesce a trovare il bandolo della matassa, “un assegno circolare”, una tossico-dipendenza che si autoalimenta. Se in passato ci sono state ragioni legate alla moda, allo spettacolo, al sociale in genere, all’origine della necessità di conservare la bellezza, modificarla secondo le esigenze della società e del lavoro, rispondendo a bisogni indotti per ragioni economiche, oggi, ci sono motivazioni più interiori che denunciano un disagio – se non un disturbo – dell’interiorità. Della prima questione, tra gli altri studiosi, si è occupata molto Naomi Wolf, nel suo libro Il mito della bellezza, oltre a tutti coloro che hanno mosso una critica sia alla società capitalistica e consumistica, sia a un maschilismo o machismo imperanti.
Attualmente, se da un parte il disagio si è approfondito e interessa ragioni dell’io introiettate, d’altro canto, si sta sviluppando un antidoto sul quale è interessante porre l’attenzione: la globalizzazione nel segno dell’integrazione, della co-appartenenza, in una società migrante.
L’immagine, in ogni caso, diventa il mezzo di comunicazione più rapido e diretto tra le persone; e “solo i superficiali non fanno caso alle apparenze”, per dirla alla Oscar Wilde.
La bellezza “contaminata” di Ilaria Guidantoni
Occupandomi di dialogo tra le due sponde del Mediterraneo, tra la cultura arabo-musulmana e quella cristiano-europea nonché dei movimenti femminili e femministi, ho prestato naturalmente attenzione al tema della bellezza in tal senso considerando la corporeità e il suo linguaggio, come ogni lingua, una visione del mondo. Secondo la visione fenomenologica del filosofo tedesco Edmund Husserl, l’uomo è una coscienza incarnata e orientata, nel tempo e nello spazio, dunque – tradotto – un’aspirazione all’infinito nella storicità incarnata, figlia del proprio ambiente. Su quest’ultimo carattere intendo mettere l’accento per evidenziare, come in parte ho accennato anche nel mio libro Il potere delle donne arabe – uscito a firma congiunta con Mariagrazia Turri per Mimesis Edizioni nel gennaio 2015 – che la femminilizzazione crescente della società – alla quale purtroppo fa da contrappeso un impoverimento del maschile a vantaggio del machismo (come dichiara Joumana Haddad nella sua opera Superman è un uomo arabo) – ha riportato al centro il tema della bellezza. Da un certo punto di vista la spinta che al tema arriva da culture ‘altre’ rispetto a quella europea e statunitense ma anche dell’America Latina, apre le porte alla speranza di reintrodurre il concetto di libertà in senso autentico e non come capriccio. Dagli anni Sessanta del Novecento in avanti c’è stata una massificazione della bellezza, un’esigenza indotta in parte, più spesso pretesa dal sociale rispetto al singolo, di fronte alla quale per essere accettati spesso ci si è dovuti conformare; non solo, questo parametro si è improntato a caratteri scelti dal modello dominante, in termini politici ed economici, per cui le persone sono diventate pedine di un possibile impero. Inutile ricordare che la storia scritta dai vincitori ha preteso prima la diffusione di un modello nordico e di donna androgina, poi del mito della mulatta con caratteristiche fisiche nordiche però, fino ad un prevalere di quel carattere “castano” che rientra nella media delle europee e delle americane. Perfino le bambole si sono adattate a questo principio, per non parlare della moda che ci ha presentato figure filiformi, sempre più spogliate ma desessualizzate a guisa di bambole; e poi “gazzelle nere”, come prede ridisegnate secondo il capriccio degli stilisti e via discorrendo. Anche per l’uomo, sempre più femminilizzato e in qualche modo delegittimato, è venuto il tempo della reificazione. Ora questa dittatura è messa in discussione dal fatto che si affaccino sulla scena internazionale donne e modelli, forti e vincenti, anche se molto diverse. E’ della vigilia di Pasqua un servizio sul potere delle donne arabe apparso sul settimanale “D di Repubblica” che ci fa fare i conti con modelli diversi da quelli registrati ma non per questo meno affascinanti. La stessa industria deve tener conto della “diversità” e cavalcare quest’onda significa anche muovere nuovi affari. Se questo rappresenta un nuovo rischio, dobbiamo accettarne il fermento che scatena, come una buona occasione di riflessione per evidenziare come la libertà sia l’accettazione del sé e la pretesa di un riconoscimento per la propria individualità. In tal senso il tema del velo che disvela è una delle questione centrali, come la cosmesi ħalāl, permessa dal Corano, che ha spopolato in un padiglione multiculturale al salone Cosmoprof di Bologna, recentemente. La bellezza sta diventando sempre più “contaminata” e questo dato di fatto consente un esercizio diverso della fantasia e la possibilità di scardinare i parametri rigidi che diventano una gabbia. In prospettiva saremo sempre più “meticci” con una fisionomia mediterranea e quello che è avvenuto nel cibo accadrà probabilmente nell’estetica. Ci sono due piani – è bene precisare per non fare confusione – quello appena citato della contaminazione, dell’incontro, della ricchezza delle differenze e quello dell’apertura verso modelli diversi che non devono essere necessariamente assunti ma conosciuti e ritenuti uno specchio nel quale verificare che il proprio gusto non è universale ma solo uno dei possibili. Naturalmente sul tema della bellezza, femminile ancor più che maschile, si innestano valori sociali, etico-religiosi e in particolare legati al mondo della sessualità. In questo senso è evidente che fenomeni come l’imenoplastica o la ricostruzione degli organi sessuali – permessa in certe condizioni dal Corano, per non rendere frustrante o difficoltosa la vita sessuale della coppia – non possono essere ritenuti semplicemente degli interventi di chirurgia estetica ma una sorta di intervento chirurgico dell’anima. In una società sempre più plurale almeno tre piani interesseranno la bellezza e il costume: quello socio-economico del gusto e dello stile; quello etico del confronto, della tolleranza e dell’accettazione; e quello, più complesso, del profilo giuridico.
Dialogo tra etica e diritto di Nicola Posteraro
di Nicola Posteraro
Nonostante l’apertura alle varie culture e la contaminazione delle tradizioni siano aspetti positivi nell’ottica dell’arricchimento culturale della società, al contempo, sono fenomeni che sollevano evidenti problemi sul piano dell’etica e del diritto. Sul piano etico l’uomo che non accetta la propria fisicità e cerca di modificarsi in base a certi standard, spersonalizza la propria identità e fa del proprio corpo un oggetto plasticamente disponibile alle proprie voglie, forzando le proprie fisicità per adattarsi alla moda. I modelli della tv diventano l’obiettivo quindi ci si rivolge alla medicina, cercando di usufruire della chirurgia estetica e snaturando la funzione salutare della pratica stessa, banalizzandone l’utilità.
Nella reificazione, il corpo viene tramutato in un abito che, nell’ottica dell’imperante cultura del prodotto commerciabile, si indossa per mostrarsi agli altri, farsi accettare dagli altri, finendo per diventare “un’identità altra”.
La medicina si trova così a far fronte a pressanti richieste esterne di un “pubblico sofisticato” che non sempre corrispondono a veri e propri bisogni umani, quanto a dei meri sogni del soggetto paziente.
Weber, contrapponendo la figura del selvaggio a quella dell’uomo contemporaneo, sintetizza la nostra mentalità tecnologica nell’espressione disincantamento del mondo: l’homo faber diventa schiavo d’un processo scientifico del quale non può più fare a meno.
Il corpo, simbolo del mezzo tramite cui l’uomo entra in comunicazione con gli altri uomini e che riveste il ruolo primario di “medium” della comunicazione, alla luce di un tale rischioso “scientismo”, diviene un oggetto di acquisto, cambiamento, scarto e modifica; e, come tale, può essere usato, manipolato, aggredito, venduto: diviene un (pericoloso) filo conduttore tra realtà e desiderio.
In tale ottica, l’identità si esteriorizza e non rappresenta più quel carattere che ciascuno di noi ha come singolo individuo inconfondibile, ma diventa il riflesso della modificazione esterna del corpo a progetto, del corpo rimodellato a mio piacimento.
Il ricorso al bisturi rappresenta la frontiera estrema della libertà non condivisibile e della responsabilità individuale,il limite tra il lecito e l’illecito, la linea sottile tra realtà naturale e artificialità (s)formata.
Quanto vale autodeterminarsi alla luce della crisi della propria identità? È lecito intervenire sul singolo, laddove manchino motivi di salute atti a provocare la manomissione?
Se manca lo sfondo terapeutico, è normale (ed è giusto!) che etica e diritto vadano ponendosi delle domande.
Sul piano giuridico, inoltre, tra gli altri problemi, questa modifica insensata e superficiale porta ad un contrasto effettivo tra la volontà del singolo e l’articolo 5 del Codice civile dove si precisa che gli atti di disposizione del proprio corpo sono vietati quando cagionino una diminuzione permanente della integrità fisica, oppure, quando siano altrimenti contrari alla legge, all’ordine pubblico o al buon costume.
Ebbene, una manomissione della propria fisicità, laddove quest’ultima non sia giustificata da motivi salutare e terapeutici, non è forse una disposizione che contrasta con i principi generali dell’ordinamento?
Si pensi al caso d’un intervento non necessitato al seno, di mastoplastica additiva; la mancanza di terapeuticità, ben potrebbe rendere ingiustificata la cattiva riuscita dall’intervento da cui sia derivato il problema della futura, impossibile lattazione: non potrebbe quindi questo essere definito come manomissione illegittima del corpo, forse? Si veda pure il caso dell’imenoplastica, da cui derivi un problema all’apparato riproduttore: se è vero, infatti, che dominus membrorum suorum nemo videtur, allora, non è strano pensare ad una limitazione effettiva di tali superficiali interventi inutili.
Ad oggi, l’unico modo che abbiamo a disposizione per vedere diminuiti i casi di rifacimento estremo anche quando non dovuto, è sperare esistano professionisti chirurghi estetici capaci di riconoscere rectius la superfluità dell’intervento, rifiutando l’attività medica quando si rendano conto che essa non è esattamente relata ad una esigenza di salute.
Ma, in un regime di attività libero-professionale retto più dalle leggi del profitto che da quelle dell’etica, ciò accade di rado. Spesso, inoltre, il chirurgo plastico non sa bene se il motivo è di ordine medico (comprendendo in questo anche gli aspetti psicologici) o cosmetico.
Dunque, si dovrebbe decidere di assoggettare il complicato intervento ad un’analisi psicologica che previamente (ovvero contestualmente al colloquio preliminare che l’interessato intrattenga col suo chirurgo) venga effettuata da specialisti della materia e attesti la necessità dell’intervento: lo psicologo può ben capire, infatti, quale sia la necessità del proprio paziente; e, dunque, indirizzarlo verso cure di psicologia (quando attesti che il desiderio di rifacimento derivi da una problematica psicologica più grave -quale il dismorfismo – e sia superabile tramite la cura di quest’ultima, piuttosto che con un l’utilizzo di un bisturi); ovvero, ancora, indirizzarlo verso l’intervento chirurgico quando necessario per la psiche del malato che vive un disagio non altrimenti superabile.
Curarsi non può, non deve voler dire modificarsi a tutti i costi, e ancora, spersonalizzarsi, entrare in crisi con se stessi senza più riconoscersi. Un corpo curato va valorizzato. Non ridicolizzato o, peggio, scomposto in pezzi di ricambio.
E allora se è vero che il diritto è specchio della società, vuol dire che è necessario esso vada apprestando meccanismi idonei a guidarla, soddisfarla e tutelarla. Bisogna porre un confine tra ciò che è accettabile e ciò che invece va bandito.
Occorre che il diritto, realizzando la sua essenziale funzione di promozione e trasformazione della società, mostri attenzione costante alla molteplicità di aspetti, politici e sociali, ma anche ideologici.
Nicola Posteraro
È dottorando di ricerca in Diritto Amministrativo presso l’Università degli Studi Roma Tre e ha conseguito, nel 2014, con lode, il master di secondo livello in ordinamento e Funzionamento degli Enti Locali. Nel 2013, in qualità di vincitore di una borsa di studio bandita dall’Istituto di Ricerche sulla pubblica amministrazione, ha studiato e approfondito il tema del diritto alle cure oltre lo Stato.
Ha tenuto seminari e lezioni su diritto alla salute, bellezza, chirurgia estetica, pubblica amministrazione e diritti fondamentali. Ha partecipato a convegni, in qualità di relatore, sugli stessi temi