Mentre ci barcameniamo per riuscire a seguire una stagione seriale che oltreoceano procede vivace, tra la ripartenza un po’ malinconica (perché di ultima ripartenza si tratta…) di Mad Men e quelle di The Good Wife e Game of Thrones, constatiamo che è una serie italiana ad aver catalizzato, nel bene e nel male, l’attenzione di critici e studiosi.
L’impatto di 1992 non stupisce: ricostruzione degli scandali di Tangentopoli, delle stragi di mafia, dell’affermazione della Lega e della discesa in campo di Silvio Berlusconi, tra la Milano della pubblicità e la Roma della politica (ma sempre più invischiate), 1992 si colloca perfettamente e strategicamente nella produzione seriale Sky (Romanzo criminale e Gomorra), che rielabora la nostra storia recente e l’identità nazionale ed è l’unica a cercare e sperimentare alternative a quella sorta di rassicurante (l’espressione, molto giusta, è di Luca Barra) “medietà” di racconto, di temi e di linguaggio delle produzioni Rai e Mediaset, una medietà che pare al contempo condizione “naturale” ed esito “inevitabile”. Ma questa volta, lo ammette anche Barra, abbiamo a che fare con “scelte di casting e scrittura, dietro le apparenze, piuttosto tradizionali e ‘generaliste’”. Insinuazione di un dubbio che diventa, in altre sedi, plateale “stroncatura”.
Tre fenomeni nella ricezione di 1992 mi hanno colpita: la sua lettura problematica in relazione alla produzione Sky (in un motto, “1992 non è Gomorra”); la sua lettura (sempre problematica) in relazione alla serialità statunitense (1992 è un po’ Mad Men, 1992 vorrebbe essere Mad Men); infine, e in maniera particolare, il fatto che, pur nella consapevolezza di alcuni difetti vistosi, nessuno se ne perde una puntata. La cosa che mi pare interessante è che questi tre fenomeni sono tra loro interrelati, e proverò dunque a ripercorrerli in maniera, necessariamente, reticolare e ricorsiva.
A scagliarsi contro la prima tesi (“1992 non è Gomorra”) è sicuramente Andrea Bellavita. Mentre Gomorra disponeva di modelli di genere ed esperienze narrative (l’epica criminale) nel cinema italiano, 1992 non poteva rifarsi né alla fiction nostrana (quasi inevitabilmente agiografica) né al cinema di impegno civile (Francesco Rosi). E perché? Perché, spiega categorico Bellavita, “la fiction di Sky non ha nessun intento, e meno che mai obbligo, educativo, ma deve realizzare puro entertainment, e quantificarlo in termini di share e permanenza. 1992 non ha (e, ribadiamolo, non deve avere) il compito e l’obiettivo di spiegare e rendere ragione di Tangentopoli e della nascita del berlusconismo, ma semplicemente usare questo oggetto […] per attrarre pubblico. A meno che qualcuno sia pronto a sostenere che Mad Men [vuol far] riflettere sulle conseguenze socio-culturali dello sviluppo della comunicazione persuasiva negli anni ’60”.
Dunque a cosa poteva guardare, 1992, oltre che al Sorrentino de Il divo? Alla fiction prodotta oltreoceano, naturalmente (col che si intercetta il secondo fenomeno). Ancora Bellavita: “Che gli autori dichiarino di ispirarsi a Mad Men è una fortuna, che il nostro immaginario condiviso non sia quello degli USA è un fatto, che Leonardo Notte non possa essere Don Draper è un effetto”.
Concordiamo in pieno sul riconoscimento del ruolo dell’entertainment e sulla necessità di sgombrare il campo della riflessione da supposti (o del tutto arbitrariamente imposti) obiettivi educativi e documentari – e anzi, stupisce il fatto di doverlo ancora ribadire. Concordiamo un po’ meno sul riferimento a Mad Men. Certo, chi penserebbe che Mad Men debba o voglia far “riflettere sulle conseguenze socio-culturali dello sviluppo della comunicazione persuasiva negli anni ’60”. Mad Men fa qualcosa di molto diverso e infinitamente più interessante, e senza smettere di essere entertainment. Attenzione: citiamo Mad Men perché è tra i riferimenti costanti quando si parla di 1992, ma lo stesso si potrebbe dire, pur su temi diversi e con diverse modalità, di serie come House of Cards e, prima, The Wire. Mad Men è il melodramma di Douglas Sirk senza più “deus ex machina” che assicurino il lieto fine, è il melodramma sirkiano rifatto oggi con un’intelligenza molto vicina a quella di Todd Haynes in Lontano dal paradiso: period drama accuratissimo, sì, ma che sfrutta tutte le risorse della messa in scena e la forza compositiva del quadro anche per trascendere riferimenti storici troppo circoscritti e raccontarci un’America desolata in cui i personaggi si dibattono nel vano tentativo di fuggire da ciò a cui sempre, inevitabilmente, sono condannati a fare ritorno, incapaci di instaurare relazioni positive con il mondo esterno e di comprendere i propri desideri agendo di conseguenza – le finestre che imprigionano, piuttosto che dare accesso, il ricorso sistematico al décadrage, gli specchi che rimandano a un’immagine che rimane altra.
Period drama è anche 1992, è vero, ma con due problemi che Mad Men non ha. Da un lato la perenne sensazione di un “puro e semplice accumulo di rimandi e frammenti” (Cineforum) e dall’altro, ma per Barra i due aspetti sono collegati, la stereotipizzazione dei personaggi, prevalentemente ridotti a quelle che vengono definite “macchiette” o, laddove si voglia comunque provare a salvarli, exempla: ““Le magliette dei Nirvana, i cellulari, le riviste, i televisori accesi in sottofondo sono gli arredi di un mondo narrativo che rischia troppo spesso di fermarsi al ricalco, preso dall’ansia compilativa, e intanto si dimentica di costruire dei personaggi a tutto tondo” (Barra).
Sgombriamo subito il campo da un possibile equivoco. Concordiamo con Roberto Manassero (Cineforum) quando addita la logica dell’accumulo, ma divergiamo completamente rispetto all’analisi che ne propone, secondo la quale tale logica deriverebbe appunto dal riferimento a modelli statunitensi (dal “desiderio di realizzare non una serie tv italiana come l’avrebbero potuta fare gli americani, ma proprio una roba americana e basta, ricalcando cioè il modello di serie tv ormai diventate mainstream – Mad Men e House of Cards su tutte”) e sarebbe “figlia di una subalternità culturale affermata e compiaciuta”. Mai c’è in Mad Men il senso della citazione gratuita, dell’inserto immotivato, dell’omaggio supponente. Che cosa avrebbe allora a che vedere la logica compilativa con il desiderio di realizzare “una roba americana e basta” (che poi, cosa sarebbe…) e, soprattutto, con questa presunta subalternità culturale? Subalternità che, peraltro, scontiamo in ben altri campi: magari, verrebbe da dire per paradosso, imparassimo laddove c’è innegabilmente qualcosa da imparare, fatta salva la profonda diversità di vincoli e risorse dei relativi mercati.
Più condivisibili, rispetto alla logica del repertorio, altre letture, che per esempio hanno messo in evidenza il funzionamento strategico dell’elemento nostalgico nelle produzioni seriali, la fascinazione di un passato ormai piuttosto lontano ma che ritroviamo familiare, e che ci piace fare finta di riscoprire. Lo dice bene Chiara Grizzaffi su Serial Minds: “Quello che riesce meglio alla serie è trasformarsi nella madeleine che noi trentenni ci meritiamo”; e anche noi quarantenni, aggiungo io.
Seppur stia sicuramente in questo “effetto madeleine” uno degli elementi dell’attaccamento sviluppato nei confronti della serie, su questa linea è possibile fare un passo ulteriore. È vero che è una nostalgia un po’ perturbante, quella prodotta da 1992. Non sono certa che rappresenti il motivo di chi denuncia gli eccessi di semplificazione, come sembra suggerire Bellavita, ma quello che è certo è che la serie produce, non importa se intenzionalmente, il disagio di quello che potremmo chiamare un “plagio per anticipazione”, di uno sgradevole anacronismo per cui è il passato che sembra “citare” il presente. Lo dice bene Barra: “Il punto di vista della serie ci costringe continuamente, come diceva McLuhan, a ‘guardare il presente in uno specchio retrovisore’, a indossare occhiali fin troppo contemporanei per rileggere i primi anni Novanta con ampie concessioni al senno di poi: e così Accorsi/Notte che convince l’inserzionista di Publitalia a investire su Non è la Rai con allusioni al limite del lecito non è pensabile senza la polemica sulle veline e il corpo delle donne, e così l’ingresso dei leghisti in Parlamento ricalca quello dei grillini, e così il navigato politico democristiano che festeggia in terrazza arriva dopo Jep Gambardella e La grande bellezza, e così ancora il compleanno in Costa Smeralda con le amiche di una Barbara Berlusconi ancora bambina non può prescindere dagli scandali che verranno”.
E di questi personaggi exempla, al netto delle polemiche sulle performance attoriali, che cosa resta da dire? L’impressione di una semplificazione macchiettistica è, nei fatti, molto lontana dalle dichiarazioni d’intenti di produzione e cast. Stefano Accorsi per il suo dottor Notte ha parlato di “un’ambiguità che non viene mai tradita”; Lorenzo Mieli di Wildside ha menzionato alcuni modelli eccellenti nella lunga serialità statunitense, da I Soprano a Breaking Bad, da Dexter a House of Cards. Ma attenzione. Perché c’è un ma sostanziale. A chi si sovviene del modello di complessità nella costruzione dei personaggi e dell’intreccio tra finzione e cronaca rappresentato dal film di Francesca Comencini A casa nostra, Mieli risponde: “È vero” […] “ci siamo rivisti tanti film, quello in particolare è un racconto corale perfetto”.
E allora è qui che i conti non tornano più: nel guardare verso House of Cards o Mad Men e poi finire, inevitabilmente, a casa nostra. Sono andata per curiosità a rileggere alcuni miei commenti al film apparsi sulla rivista Comunicazioni sociali nel 2007. “‘Casa nostra’ è Milano […]. La Milano della prostituzione, delle truffe finanziarie, dei politici corrotti, delle modelle ingenue e arriviste, degli arrampicatori sociali, della gente per bene che fatica ad arrivare a fine mese. C’è davvero tutto: c’è troppo, forse”. Vi ricorda qualcosa? E ve lo ricordate il personaggio di Rita, interpretato da Valeria Golino? Capitano della Guardia di Finanza, professione maschile così come maschili appaiono di Rita la determinazione e l’abbigliamento. Se non fosse che il perdurare di rappresentazioni stereotipate obbliga a far pagare al personaggio il prezzo della professionalità con una disarmante immaturità e fragilità sentimentale, che naturalmente imprigiona Rita dentro a un amore inutilmente incondizionato verso un uomo inutilmente cupo e inutilmente tormentato. Lasciamo per un attimo da parte la coppia Don Draper / Lorenzo Notte. Che cosa c’entrano Rita, Veronica Castello, Bibi Mainaghi o Viola Notte con Peggy, Betty, Megan o Sally? Niente.
L’abbiamo guardata con piacere 1992, perché ci diverte stare al gioco dell’anacronismo e ci diverte il dialogo con modelli narrativi seriali estranei (purtroppo) alla produzione nostrana – ma giunti quasi alla fine del viaggio (mentre scriviamo attendiamo gli ultimi due episodi) predomina la sensazione di essere rimasti, tutto sommato, nei pressi di casa nostra.