Quando il 23 di marzo è deceduto, all’età di 91, la stampa ha subito ripreso le dichiarazioni del leader delle maggiori potenze globali sul suo conto. Obama lo ha definito un ‘modello per i leader mondiali’, mentre il presidente cinese ha sottolineato che la sua morte è una grave perdita per la comunità internazionale. Lee Kuan Yew, il re-filosofo, il padre-padrone di Singapore, era stato primo ministro della città Stato modello delle tigri asiatiche dal 1959 fino alle sue dimissioni, nel 1991. Trent’anni di potere, trent’anni in cui Lee ha delineato le differenze tra la cultura asiatica e la cultura occidentale, diventando, assieme al primo ministro malese Mahathir bin Mohamad, al politico giapponese Ishihara Shintaroe ad altri leader politici asiatici, uno dei maggiori teorici della differenza asiatica rispetto alla cultura occidentale. In una celebre intervista di Fareed Zakaria per Foreign Affairs, Lee aveva delineato questo approccio fatto di critica all’individualismo ed esaltazione del primato della comunità e, in fondo, dell’autorità e del ‘padre’. Aveva affermato Lee che “la differenza fondamentale tra le idee occidentali e quelle est-asiatiche della società e del governo – quando dico est-asiatiche intendo la Corea, il Giappone, la Cina, il Vietnam in quanto distinte dall’Asia sud-orientale, la quale e un mix sino-indiano, sebbene la cultura indiana anch’essa da importanza a valori simili – e che le società orientali ritengono che l’individuo esista nel contesto della sua famiglia”. Si tratta di una concezione comunitarista che ha molto contribuito alla crescita economica delle potenze asiatiche poiché, teorizzando la primazia della società, metteva naturalmente al primo posto lo scopo collettivo del conseguimento del benessere nazionale. Prima la società e lo Stato, dopo l’individuo. A questo ragionamento non poteva non corrispondere, nell’ambito dei diritti umani, la critica alle tradizionali libertà associate alla cultura occidentale: le libertà liberali, e i diritti politici. Lee e i sostenitori di quel movimento che si sarebbe chiamato dei valori asiatici (gli Asian values) e che molta eco ebbe negli anni ’90 del secolo scorso, sostenevano che non si può pretendere che i diritti civili, politici e sociali (nonché economici e culturali), in cui tradizionalmente viene tripartito il ‘pacchetto’ dei diritti, si affermassero tutti insieme e contemporaneamente, così come pretenderebbero le culture occidentali. Secondo Lee, prima lo sviluppo, anche a discapito dei diritti civili e politici, e poi la libertà. Gli Asian values dunque teorizzavano che il benessere dell’individuo fosse possibile solo entro il quadro di quello della comunità, e non contro di esso; laddove il benessere è da intendersi come‘sviluppo economico’, che dunque risulta essere primario rispetto ai diritti tipici dell’individualismo occidentale, quelli civili e politici. Da tale postulato – l’Occidente è ‘individualista’, l’Oriente ‘comunitarista’– si dipanava una serie di corollari, illustrata dalla contrapposizione fra due ‘tavole’ di valori: quelli attribuiti a un indistinto‘Occidente’ e gli Asian values. Se l’Occidente predilige la liberta individuale, l’Asia l’armonia sociale; alla figura deontica del diritto soggettivo l’Asia preferisce quella del dovere; il consumismo occidentale si contrappone alla parsimonia orientale; tra gli Asian values il duro lavoro prende il posto della ricerca occidentale del tempo libero; per quanto riguarda la concezione dello Stato, gli asiatici ritengono – contro la logica occidentale del libero mercato – che la politica debba essere dirigista in economia, che la leadership politica meriti un rispetto ‘filiale’, che il governo debba perseguire lo scopo dello sviluppo economico anche mediante politiche autoritarie. I sostenitori degli Asian values ritenevano che tali valori fossero l’incarnazione di alcune virtù cardinali del confucianesimo, e che tali virtù fossero in netta contrapposizione ai valori ‘occidentali’, compresi quelli espressi dalla dottrina dei diritti umani, per l’appunto.
Ora, è chiaro che questo atteggiamento critico era emerso, in contesti diversi, quando i paesi non occidentali avevano rimproverato all’Occidente di aver messo fondamentalmente l’accento sulle libertà borghesi e liberali tipiche della sua cultura. Del resto ciò era quanto avevano fatto i paesi socialisti già al momento della firma dei Patti sui diritti del 1966. In sostanza, si riteneva che fosse una pretesa tutta occidentale, e dunque imperialistica ed etnocentrica, quella di affermare che i diritti stanno o cadono a seconda che vengano presi tutti insieme o separatamente. Ciò che l’Occidente affermava è che per esempio il benessere economico avesse poco senso senza le libertà civili e politiche; e viceversa che queste ultime avessero poco senso senza i diritti culturali, sociali, economici: a cosa serve poter votare se non ho il diritto all’istruzione e quindi sono in grado di capire? A cosa serve avere il benessere economico, il diritto sociale all’assistenza sanitaria, se poi non posso votare e vivo sotto l’oppressione di una dittatura?
Naturalmente, la critica andava anche più in profondità, e sosteneva che questa inseparabilità dei diritti fosse, per gli occidentali, più una ipocrita dichiarazione retorica che una convinzione rispetto alla quale essere conseguenti.
Queste critiche ebbero successo perché coglievano degli elementi di verità, e anche perché rappresentavano una solida risposta alle tentazioni missionarie e civilizzatrici dell’Occidente, spesso sostenute dal grimaldello teorico dell’universalizzazione dei diritti umani. Infatti l’architrave del discorso dei valori asiatici era il principio di sovranità: non ci si può ingerire negli affari interni di uno Stato sovrano, non si può pretendere di ficcare il naso nelle sue faccende domestiche pretendendo di giudicare come amministra i diritti. Anche qui, i teorici dei valori asiatici (che nel frattempo avevano avuto grande successo nell’area del sud-est asiatico e in Cina in particolare) rimproveravano agli occidentali una certa irritante ipocrisia: pretendete di giudicare il nostro rispetto dei diritti umani senza guardarvi allo specchio.
In realtà, ci si sarebbe aspettati che le carte costituzionali e dei diritti asiatiche avessero fatto riferimento ai diritti consuetudinari e alla tradizione, mentre invece a uno sguardo comparativo nulla di tutto questo è dato evincere in quei documenti (nella costituzione del Vietnam si cita perfino il diritto alla felicità di memoria statunitense!).
Naturalmente, è difficile non vedere nei ragionamenti di Lee e degli altri sostenitori di quella dottrina (invero piuttosto riduzionista, con questa dicotomia netta Oriente/Occidente) l’intento di giustificare l’autoritarismo dirigista dei regimi asiatici, i quali infatti subito colsero l’occasione fornita da questa nuova dottrina per contestare l’universalismo occidentale. I diritti sono, sostenevano, un ostacolo allo sviluppo economico. Tesi che si è peraltro dimostrata falsa quando le tigri asiatiche hanno affrontato un sonoro tracollo economico-finanziario.
Che oggi Obama parli di Lee come un modello è sinistramente coerente con ciò che le democrazie occidentali stanno diventando, ovvero dei gusci vuoti nei quali si annida via via il parassita del decisionismo dirigista. Ci aveva visto lungo Sir Ralf Dahrendorf, in realtà, quando aveva associato l’‘autoritarismo industriale’ asiatico alle esperienze della Germania imperiale o alle politiche economiche dei governi Thatcher e Berlusconi. Altri anni, ma una tendenza che Dahrendorf aveva ben intuito e che intanto si trasforma, facendosi aggressiva non più solo nei confronti dell’economia, ma della democrazia stessa.