Che accadrebbe se domattina ci svegliassimo in un mondo avulso dal progresso post-industriale e non avessimo le comodità pratiche, tecnologiche e digitali della nostra quotidianità?
E’ una domanda che negli ultimi trent’anni si presenta spesso nel pensiero e nelle attività di tutti coloro abbiano coscienza dell’estrema velocità con cui la nostra civiltà procede verso il non-ritorno. A preoccupare è senza dubbio il destino delle nuove generazioni e non è un caso che nel 2008, all’inizio di quella grande catena discendente di domino, che è stata e che continua a essere la crisi finanziaria, il regista Andrew Stanton abbia deciso che i tempi erano maturi per mostrare al pubblico la storia del piccolo WALL.E, ideata agli inizi degli Novanta, ma arrivata a noi più d’un decennio dopo.
La pellicola d’animazione premio oscar del 2009, si rivolge alle nuove generazioni come utenza ufficiale, ma possiede in realtà numerosi elementi di riflessione, così densi e profondi, che sembra essere più diretta agli adulti che non all’innocenza dei bambini.
Il mondo ‘vergognoso che ci è stato consegnato’ – cito mia figlia di 13 anni – irrimediabilmente compromesso per certi aspetti – come per il clima che riguarda l’involucro nella sua globalità e la distruzione delle specie botaniche e faunistiche delle microaree, che hanno ripercussioni anch’esse sul globale – non dipende dalle nuove generazioni, ma da chi negli ultimi due secoli ha avuto energia e potere per surriscaldare fisicamente la superficie terrestre.
E’ pura fisica. Il lavoro, misurato in joule è l’unità dell’energia e del calore. Il lavoro eccessivo capitalistico e industriale esercitato sulla superficie terrestre non poteva che innescare un surriscaldamento globale, con gli effetti devastanti che abbiamo ogni giorno davanti agli occhi: inondazioni, esondazioni, frane, crolli, tropicalizzazione dei climi. E paradossalmente più lavoro subiva la crosta terreste, più deboli si facevano gli uomini artefici e protagonisti storici di questo ‘progresso’.
WALL.E è il robottino che ha il compito di ripulire tutta la lordura accumulata dall’uomo in questo periodo di sovraccumulazione di oggetti – e quindi di lavoro e di calore – e si accorgerà con grande sorpresa della ripresa biologica sul pianeta, allorquando un seme germoglierà all’interno di un frigorifero abbandonato. Sarà quello il segnale atteso dall’umanità per rientrare sul pianeta, da secoli in esilio sullo spazio. Un’umanità obesa, goffa e inetta che ha perduto completamente la propria capacità di muoversi e quindi di lavorare, perché dedita esclusivamente a passatempi oziosi all’interno dell’Axiom, la stazione spaziale in orbita nell’universo.
Le ossa di quella generazione umana ideata da Stanton sono scollegate le une dalle altre, i muscoli appaiono ritratti e inesistenti sotto gli strati di adipe e solo l’eccezionale forza d’animo del Comandante dell’Axiom, avrà la meglio sul tentativo di golpe messo in atto dal supercomputer che gestisce ogni strumentazione della nave spaziale, riuscendo in un guitto energetico d’estrema fatica a schiacciare il pulsante rosso del suo spegnimento. Il gesto eroico di un dito all’indomani dell’era digitale.
L’umanità pigra e oziosa, sdraiata sui divanetti personali ergonomici, che si fa lavare i denti da microrobottini e vive con l’ologramma di uno schermo davanti agli occhi, incapace di usare le mani e ignara di cosa sia l’oggetto libro, ogni giorno che passa si rivela sempre più come idea plausibile rispetto al futuro della nostra civiltà.
La nostra preoccupazione in merito alla capacità di sopravvivenza delle nuove generazioni ha molto a che vedere con le leggi del mondo animale: pesce grande mangia pesce piccolo, la gazzella deve correre più veloce del leone. Le tecniche del settore primario per il reperimento del cibo e delle risorse necessarie alla vita, nel nostro mondo occidentale sono ormai sconosciute ai più. E’ una banalità, ma la forza fisica delle generazioni passate sembra perdersi sempre più mentre avanziamo col progresso.
Difficilmente sopportiamo il dolore e l’industria farmaceutica prospera grazie al nostro malsano modo di vivere. Le gambe camminano poco, le braccia rimangono sotto sforzo solo per pochi minuti al giorno, l’ipermercato è l’unica oasi che contiene cibo per la sopravvivenza nell’idea dei più. Il corpo spesso dimenticato, da secoli, lotta contro la mente che inganna.
E’ quando pensiamo a questa forza fisica necessaria alla sopravvivenza che ci rammarichiamo delle nuove generazioni, i nostri figli, i nostri nipoti. Saranno in grado di schivare il pesce grosso? Riusciranno a correre più veloce del leone?
Abbiamo votato la nostra civiltà alla democrazia, alla logica e al razionale, alle idee dunque, ma abbiamo voluto seppellire quei valori di fisicità che richiamano alle menti liberali la rozzezza del “tutto muscoli e niente cervello”, dei totalitarismi che ideologicamente puntavano sulla perfezione fisica. Epperò, se pensiamo ai giovani occidentali ai quali evitiamo qualsiasi sforzo e li paragoniamo ai coetanei che hanno vissuto problematiche più crude in altre zone del mondo, cresciuti senza i paradisiaci strumenti dell’eliminazione fisica della modernità, appare la debolezza di un popolo, il nostro, in piena decadenza e non sulla via del progresso. E’ questa l’idea che vogliono suggerire i video e le immagini dirette ai nostri occhi da parte degli attivisti dell’Is, per esempio.
Telecamere che si spostano sapientemente sui dettagli della loro forza. Armi, abbigliamenti che permettono fluidità di movimenti e posture mascoline, facendo intuire cosce turgide e tendini tesi, contrariamente alla flaccidità del nostro stile di vita. Braccia alzate con il peso delle armi mostrate con orgoglio. Teste mozzate senza la minima esitazione, mostrate a noi che ci straziamo all’idea del pollo macellato, mentre ingurgitiamo nuggets al fast food. La vita nel deserto, senza’alcuna comodità, con la sabbia che scricchiola sotto i denti e il vento caldo che asciuga ogni spirito, lo stesso acclamato da ogni profeta come l’essenza della vita umana, il luogo che fa apparire orpello qualunque accessorio che non sia acqua e fede nel dio assoluto.
Ogni spettacolo di distruzione di vita, cultura e dei valori civici che mettono in scena è diretto alla nostra indignazione, ma anche a far leva sulle contraddizioni del nostro stile di vita.
Nella stessa settimana abbiamo assistito ai danni subiti dalla Barcaccia del Bernini ad opera di un gruppo di tifosi olandesi ubriachi e alle distruzioni del patrimonio archeologico di Mosul, la grande e antichissima Ninive per mano di attivisti dell’Is.
In entrambe i casi il messaggio voleva essere distruttivo e irrazionale. Nel primo caso abbiamo avuto modo di saggiare il gruppo inconcludente e barcollante d’individui incapaci di governare il proprio corpo e la propria mente, arrecando perciò danno a ciò che avevano attorno. Nel secondo caso abbiamo potuto osservare quella che Salvatore Settis chiama «furia iconoclasta programmaticamente barbarica» (La Repubblica, 28.02.15), che è molto più affine ai roghi della vanità di Girolamo Savonarola, alle ingerenze e distruzioni dei suoi Piagnoni, che per circa trent’anni tra XV e XVI sec., a ondate successive dispersero testi, opere d’arte e preziosi in nome di una iconoclastia radicale e pura.
La lotta si espresse nel sangue e nel corpo a corpo. Il popolo fiorentino l’otto aprile del 1498 attuò una difensiva nei loro confronti che «cominciossi una fierissima zuffa, la quale, fra il baglior delle fiamme, il fumo densissimo, e le grida e le bestemmie dei feriti e dei morenti, era cosa spaventosa a udire e a vedere » (Marchese,V.F. Memorie dei più insigni pittori, scultori e architetti domenicani, Le Monnier, Firenze 1854). La storia pullula di esempi simili a queste programmatiche distruzioni della cultura e del patrimonio figurativo e iconico, questo è solamente uno dei tanti e nemmeno il più atroce. Ma sarebbero oggi in grado, per atteggiamento mentale e per forza fisica queste nuove generazioni di contrastare chi volesse sopraffarli fisicamente?
Penso alla compattezza di questi reparti della morte, ideatori di un esercito e di uno stato ideologico, mentale, politico e religioso che si espande, che ha saputo convertire gli strumenti occidentali in mezzi utili alla propria propaganda. L’utilizzo e la conoscenza dei social network, dei meccanismi del web, la lettura dei testi di critica dei new media per creare video pellicole studiate nel dettaglio, il “narcinismo” del divenire protagonista globale della storia attuale, seppur spersonalizzato nella propria identità nella copertura dei visi, ma in virtù di questo eletti a supereroi della causa.
Penso quindi ai giovani occidentali nutriti a Real Time e Videogiochi, dove la vita reale per loro è solo ciò che si trova aldilà dello schermo. Picconano le pareti di una miniera con il mouse, piantano alberelli e costruiscono casette, distruggono piramidi di caramelle o giocano a fare le spie o i killer professionisti osservando uno schermo.
Dove, televisivamente parlando, tutto è un reality nel quale i sogni e le speranze del protagonista di turno si basano sulla volontà di diventare chef, ballerino o cantante, mostrando emozioni travolgenti all’idea di provare nella realtà a impersonarsi tali. Valori etici, civili e morali diluiti e melliflui, le vere armi disponibili: una tastiera o lo schermo di tablet e smartphone nel primo caso, il telecomando nel secondo.
Chissà quanti riusciranno a portare a compimento la medesima impresa del comandante dell’Axiom, premendo a fatica quel tasto di spegnimento del supercomputer per riprendere in mano l’esistenza ed essere catapultati improvvisamente nella vita reale e ‘fisica’ finora governata da un solo dito.