Il “Gold Standard”, socio occulto della crisi del luglio 1914

 

Nell’ampio ventaglio delle ricerca delle cause della I Guerra Mondiale spicca l’assenza della componente finanziaria. In questi mesi poi, nei quali fioriscono le pubblicazioni e le commemorazioni del centenario 1914-2014, tale assenza appare ancora più vistosa proprio perché la crisi economica attuale, nata da un eccesso di finanza creativa ma non del tutto causata da essa, potrebbe indurre a guardare quella crisi del ’14 con l’ottica della dimensione finanziaria; ebbene, le pagine seguenti ambiscono a stimolare una ricerca in questa direzione.

 

Fra gli strumenti finanziari dei quali si avvalse l’economia internazionale fra Otto e Novecento, emerge il cosiddetto Gold Standard, la convertibilità fissa del rapporto oro-sterlina. A esso non si giunse presto, specie perché con l’avvento della moneta cartacea, si era preferito un parametro che contemplasse accanto all’oro anche l’argento. La Gran Bretagna iniziò, tuttavia, un’inversione di tendenza quando, nel 1844, emanò il “Peel Act” per il quale la sterlina – oro era stabilita a 22 carati e la Banca d’Inghilterra era autorizzataad acquistare oro e a rivenderlo con un aggio determinato. Così, nella City il valore dell’oro fino fu fissato in 4,25 sterline per oncia. Era la risposta finanziaria alla crescita economica e si basava sull’opzione momometallista aurea, sostenuta da illustri economisti, fra i quali lo stesso D. Ricardo ma era soprattutto il frutto di un’evoluzione progressiva che doveva tenere conto di molte variabili, non ultima la crescita dello stock aureo mondiale, specie dopo la scoperta delle vene aurifere sudafricane. Il Gold Standardera l’effetto di un sistema semplice e complesso allo stesso tempo. In teoria bisognava che chi emetteva le banconote fosse in possesso di un’equivalente riserva di oro, sufficiente per assicurare la convertibilità della banconota stessa ad una parità prefissata. In pratica, la Banca emittente doveva essere considerata capace di garantire lo scambio con l’oro. Fatto si è che giunti al 1870, la Gran Bretagna era riuscita imporre la sterlina come parametro-oro sebbene le riserve auree della Banca d’Inghilterra non fossero affatto proporzionali.

 

Riserve auree delle maggiori Banche Centrali

al 1913 in milioni di dollari del periodo

Paese Riserve auree
Gran Bretagna 165
Francia 679
Germania 279
U.S.A. 1290

 

Fonte: Y. Cassis, 2008

 

Come si riuscì in questa impresa? Come era riuscita la Gran Bretagna a godere del privilegio di misurare con la sua sterlina l’oro del mondo? La risposta immediata potrebbe essere semplice: lo poteva fare perché a sua volta l’oro del mondo misurava la sterlina ma tale affermazione costituirebbe soltanto una bella suggestione linguistico – retorica.In realtà la risposta consiste nel ruolo assunto dalla “Banca d’ Inghilterra” nella gestione del credito internazionale. Si tenga presente un essenziale dato dimensionale: nel bel mezzo dell’Ottocento, nel 1855, l’investimento estero mondiale britannico era pari a 420 milioni di sterline; quindici anni dopo, poco prima che i prezzi cominciassero a scendere fortemente, era di 1,3 miliardi di sterline, per superare i 4,5 miliardi nel 1900 e a raggiungere, nel 1914, la poderosa cifra di ben 9,5 miliardi di sterline. La Gran Bretagna era il numero uno mondiale degli investimenti internazionali, e lo era da mezzo secolo.

 

Capitale investito fuori dal territorio nazionale nel periodo 1873-1913

(in milioni di dollari del 1998)

Paese % mondiale TOTALE % in Europa
Gran Bretagna 43,4 20.000 5,2
Francia 21,0              9.700 55,7
Germania 12,7              5.800            44,0
U.S.A. 7,6 3.500              20,0

Fonte: Y. Cassis, 2008

Secondo punto: la ” Bank of England” deteneva lo straordinario strumento del tasso di sconto; era così straripante il numero di operazioni che cominciavano, si sviluppavano e si regolavano nella City di Londra che la Banca d’Inghilterra, semplicemente decise per molti anni quasi da sola l’andamento del costo mondiale del denaro. A ciò era giunta partendo da lontano e ben prima delle altre banche che sarebbero state chiamate “centrali”. Allora gli attori del mondo finanziario internazionale erano così pochi da prendersi il lusso di un’intesa addirittura sulla parola; non esiste nessun documento, infatti, che abbia un valore obbligativo nella direzione del Gold Standard britannico. Esso presupponeva la totale libertà di movimento di oro in entrata e uscita dalla Gran Bretagna e l’altrettanto libera circolazione della sterlina che doveva muoversi liberamente poiché i pagamenti si regolavano sempre in riferimento all’oro, sì, ma attraverso la sterlina. Il tutto, purché all’atto della transazione vi fosse la certezza che sulla piazza di Londra tanto oro corrispondesse esattamente a tante sterline, anche poiché far viaggiare l’oro non soltanto era rischioso ma soprattutto costava. Ora, siccome la fluttuazione massimo – minimo veniva seguita con leggendaria attenzione dai funzionari della Banca d’Inghilterra, chiunque disponesse di sterline dormiva sonni tranquilli. I punti di oscillazione dell’oro divennero, così, i limiti entro cui il tasso di cambio della sterlina tra la piazza nazionale e quella estera poteva fluttuare. Tanto la cosa funzionava che dopo il 1880, i sistemi creditizi francesi e tedeschi accettarono sistema monometallistico britannico anche perché il bimetallismo ormai funzionava male. Come ha scritto R. Mundell a proposito di quel periodo, ormai “Le valute non erano altro che un modo di nominare particolari pesi in oro”. Il Gold Standard fu un successo perché garantiva stabilità e consentiva a tutti di mantenere in equilibrio il sistema internazionale ed era proprio ciò a dare spazio a quelle che si cominciavano già a chiamare “Banche centrali”; vediamo perché. Esistevano due livelli limite di calcolo del rapporto fra l’oro e la valuta britannica e cioè il cosiddetto Gold import point e il Gold export point, entro i quali la valuta poteva oscillare liberamente, sì, ma poco. La differenza-distanza tra gold import point e  il gold export point era  espressa in punti percentuali e consentiva alle banche centrali uno spazio di manovra fra la svalutazione e la rivalutazione della propria moneta. Per dimensionare il dato, si consideri che nel 1913 in Gran Bretagna, quel tipo di Spread oscillava attorno tra i 0,7 e i 0,9 punti .

La distanza tra i due punti era determinata solo dalla compravendita di oro sulla quale pesava tanto il costo del trasporto che alla fine a farlo ci si guadagnava pochissimo. Nel caso poi del rapporto Dollari americani e Sterlina, si trattava di un’equivalenza perfetta e cioè che una Sterlina valeva sempre 4,8 Dollari. Dal che la stabilità del mercato finanziario. Il dubbio che invece proprio quel sistema avrebbe potuto essere causa di dissesti non si manifestò fino alle critiche fatte nel 1913 da J. M. Keynes. Osservano, non senza ironia, M. D. Bordo e F. E. Kidland che nella letteratura di storia economica “Il periodo che va dal 1880 al 1914 è spesso visto come una fase di regime monolitico cui si adeguavano religiosamente tutte le nazioni seguendo I dettami della fissazione rigida del valore dell’oro.” In effetti tutto ciò non corrispondeva alla realtà nella quale, piuttosto, gli interventi sulle oscillazioni erano costanti. L’Appeal del Gold Standard britannico si radicava nell’esigenza della manovrabilità della bilancia dei pagamenti. Infatti, se si tiene presente che la bilancia dei pagamenti comprende anche i flussi di capitale, grazie al Gold Standard ogni banca centrale poteva ricorrere a variazioni del tasso di sconto per attirare o respingere capitali. Così, i Governi degli Stati più ricchi si misero nelle condizioni di agire sul deficit della bilancia dei pagamenti semplicemente manovrando il tasso di sconto di quel tanto da influire sull’andamento dei tassi di interesse di mercato, cosa che avrebbe prodotto un aumento/diminuzione del capitale in entrata. Come si vede, il Gold Standard non aveva un statuto rigido ma dipendeva dal controllo attento delle oscillazioni e consentiva un’elevata stabilità e a tutto vantaggio dei paesi industrializzati mentre quelli che o lo erano meno , o non è erano più o non lo erano punto rimasero nel ruolo che il sistema assegnava loro; prendevano, è vero, soldi a basso tasso di sconto, ma allo stesso tempo si indebitavano in oro e non vi era niente da fare perché per quanto potessero stampare moneta era sempre la stessa musica; contava l’oro; o meglio, il cambio oro-sterlina. I danni erano sotto gli occhi di tutti. Intanto, l’uso di valuta estera come riserva aumentava: dal 36% nel periodo 1880-89 si passò al 356% del periodo 1899-1913. Nel frattempo, l’oro delle riserve ufficiali aumentava del 160 % nel periodo 1880-1903 , ma solo 88 % dal 1903 al 1913.

L’effetto politico di questa meccanica finanziaria fu che i Paesi sviluppati costituirono una specie di Club ristretto il cui presidente perpetuo era la Gran Bretagna. Inutile e ipocrita, allora come oggi, chiamare tutto ciò globalizzazione; fu sfruttamento, eccome. In un certo senso è lo stesso ragionamento che si può e si deve fare in merito al Protezionismo di quello stesso periodo: esso aiutò (e molto) i Paesi ricchi e bloccò la crescita di quelli poveri, come ha dimostrato K. H. O’ Rourke, emendando sia pure parzialmente l’intuizione di P. Bairoch. Con il tempo, si pervenne a un equilibrio tanto stabile da diventare rischioso. Dov’è scritto che la stabilità sia una fattore di pacificazione mentre l’instabilità un fattore di rischio? Se la stabilità congela la dinamica, diventa a sua volta fattore di rischio; cosa che accadde allorché la Germania guglielmina, per altro a corto di liquidità, esaurì ogni possibilità di sviluppo economico se non passando per l’estrema istanza, ovvero la guerra. Senza scomodare le affascinanti teorie matematiche, anche l’occhio dello storico dell’economia coglie facilmente che il concetto di stabilità e quello di rigidità sono parenti stretti, troppo stretti per fare fronte a una crisi, se è vera crisi. Tra il 1890 e il 1914, quando il Regno Unito era stato già oggetto dei sorpassi industriali di U.S.A. e Germania, la finanza britannica la faceva comunque da padrona e non solo per gli ingenti Overseas Investments, ma anche grazie al fatto che i capitali derivanti dalle colonie funzionavano bene proprio grazie all’adozione del Gold Standard. Ma se è vero che la guerra è una cosa troppo seria per farla condurre ai generali, così l’economia è una cosa troppo seria per farla condurre dai finanzieri: il 24 luglio del 1914 L’Austria – Ungheria inviava l’ultimatum e immediatamente le banche britanniche iniziavano un’immane operazione di rientro dai prestiti, specie quelli a breve, imponendo ai mediatori (Bill Brokers) di scontare i propri titoli alla Banca d’Inghilterra che si svenava mentre un’enorme quantità di denaro entrava nelle casse delle banche di credito (Joint – Stock Banks); i tanti agenti di borsa che lavoravano con i prestiti delle banche estere scaricarono i propri titoli sul mercato determinandone un crollo pur di restituire i soldi presi; il 30 luglio la Banca d’Inghilterra aumentò il tasso di sconto di un punto; ma era nulla, anche perché era sceso troppo in precedenza. Il 31 la direzione della Borsa di Londra ordinò l’interruzione delle transazioni. Il Governo interruppe la convertibilità, oro-sterlina; il Gold Standard era morto in 4 giorni. Quattro giorni. Fu una resa senza condizioni. Tutti sapevano che ci volevano più soldi per affrontare la guerra e tutti sapevano che la formula adottata, “emergenza e temporaneità”, era una bugia, come un po’ patetico era l’aplomb mostrato dalla Banca d’Inghilterra. La verità era che bisognava stampare più banconote, non bastava più regolare il valore di quelle degli altri.

Piccola conclusione: imperversa da una trentina d’anni il modo di dire per cui la storia non si fa con i “se” e con i “ma”. Una sciocchezza che recupera arnesi positivisti; invece la storia si fa anche con i “se” e con i “ma”. Se lo storico dovesse riportare i fatti e chiuderla lì non sarebbe tale e la sua, a dirla tutta, non sarebbe Storia; egli deve partire dai fatti e ragionarci sopra senza tradirli, ovvio, ma interpretandoli. Questa presunta oggettività dell’analisi nella storia economica è insulsa come nelle altre storie di settore. Parafrasando l’immortale la frase di E. H. Carr per cui ”I fatti parlano da soli se lo storico li fa parlare”, diremmo che i fatti economici parlano da soli se qualcuno ha la buona creanza di chiedergli qualcosa.



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