Dolby Atmos ed evoluzione del suono spazializzato nel cinema contemporaneo

 

 

La completa dissoluzione dei confini dello schermo cinematografico ha costituito lo stringente obiettivo, dalla seconda metà degli anni Settanta in avanti, di una lunga vicenda di sperimentazioni tecnologiche e creative in special modo sull’asse dell’immersività sonora. Una lunga vicenda che, passando per il Surround, ha agito notoriamente entro la cornice di un’esperienzialità spettatoriale sottoposta massivamente a quelle seduttive sollecitazioni sensoriali cui richiamava debitamente l’attenzione già alla fine degli anni Novanta Laurent Jullier (Il cinema postmoderno): schermi giganti, schiere di altoparlanti visibili, rispondenti all’allestimento del «film-concerto», protagonista di una liberazione di suoni che coprono l’intera scala dinamica e imitano in maniera illusionistica la presenza di fonti inglobanti, conducendo ad un bagno di sensazioni.

 

Ebbene, è entro questa vicenda appena richiamata che si colloca l’avvento della piattaforma audio digitale Dolby Atmos. Una piattaforma dalla potente e sotto diversi aspetti innovativa performatività che permette di gestire dinamicamente fino a 118 «oggetti sonori», posizionandoli e muovendoli (in fase di postproduzione) sia sul piano verticale che orizzontale in tutte le direzioni possibili, con totale precisione rispetto al punto di ascolto e consegnandoli in fase di riproduzione a sale cinematografiche configurabili fonicamente fino ad un massimo di 64 canali. Una piattaforma che, in ragione di tali caratteristiche, costituisce una feconda occasione per abbozzare alcune rapide considerazioni circa l’utilizzazione creativa della spazialità sonora da essa consentita. E, nello specifico, considerazioni in ordine alle più o meno effettive conseguenze linguistico-espressive negli oltre 200 film che, a diverso titolo e pregnanza, a cominciare dall’esordio con Brave (2012) di Mark Andrews, ne hanno finora assunto i protocolli costitutivi (coinvolgendo registi, tra gli altri, come Peter Jackson, Alfonso Cuarón, Ang Lee, Danny Boyle) ma anche di quelli che potrebbero essere configurati in un più o meno breve futuro. Nel mentre, va aggiunto, il Dolby Atmos conosce già sia una traduzione(via Blu-ray) per Home Theater che, attraverso un algoritmo sviluppato specificamente dalla Dolby, per dispositivi mobili quali tablet e smartphone.

 

Entriamo nel vivo della questione, all’altezza di un preliminare quanto ineludibile interrogativo. Se cioè con il Dolby Atmos ci si trovi in presenza di un’ennesima quanto sofisticata variazione sul versante prestazionale della mera (per quanto altamente spettacolare) sollecitazione sensoriale, del bagno di sensazioni. O, diversamente, il dispiegamento delle opportunità di configurazione sonora assegnabili all’Atmos profili in linea di principio qualcosa di maggiormente qualificante per la drammaturgia e la narratività filmica odierna. Un interrogativo non abusivo, detto sia pure di passaggio, alla luce di un contesto generale che registra le diversificate contromisure adottate, principalmente da Hollywood, per arginare la vistosa crisi di presenze nelle sale (tra il 15 e il 20% in meno nel 2014) ancorchè la crescente e aggressiva competizione innescata sul terreno prettamente cinematografico da Netflix, Amazon e Facebook. Contromisure nel cui ventaglio rientrano, oltre alla sperimentazione nei teatri di proiezioni laser 3.0 (è il caso di Imax), l’apertura di un ampio numero di nuove sale 4DX technology-based movie experience, con odori, vento e pioggia oltre che movimenti durante le proiezioni (è il caso della catena Regal Entertainment Group, in possesso di oltre 7000 cinema in più di 600 città statunitensi).

Torniamo sul Dolby Atmos, sul plesso di nuova configurazione dell’udibile filmico cui si farebbe attivo portatore, entro la già rammentata capacità di esercizio di una processualità sonora all’insegna del micro-dettaglio, articolazioni dei piani e opportunità di distribuzione spaziale di notevole efficacia sul terreno sensoriale. Pur con la necessaria cautela derivante dalla consapevolezza di misurarsi con uno stadio ancora embrionale nell’uso creativo della piattaforma in questione, la mia idea è che non ci si trovi esclusivamente in presenza di una rapinosa risorsa attrazionale. Sebbene questa opzione di incremento spettacolarizzante, in molte circostanze filmiche in 3D che si possono prontamente identificare (da Transformers: Age of Extinction a TheAmazing SpiderMan 2 a Godzilla e via discorrendo sull’asse della cinematografia mainstream), operi diffusamente prevalendo in special modo e in potenza sonora sul versante di disorientamento nella geometria dello spazio rispetto alla realtà immaginaria del film. Attrazionalità a parte dunque, esplicitandolo in maniera serrata, nulla in linea di principio preclude al fatto che si possa giungere alla dischiusione di un effettivo allargamento dello spazio diegetico filmico operato dall’Atmos. Ad una pregnante incidenza tale da sollecitare a vario titolo e magari forzare in chiave originale i fondamenti linguistici audiovisivi (ben al di là delle modalità di accelerazione sintattica cui spinge decisamente l’incremento della sonic velocity fin dai tempi del Dolby Digital). Così come non è difficile immaginare che attraverso l’Atmos si possa pervenire a marcare una profonda congruenza drammaturgica rispetto al visivo di segno incrementato e differente rispetto a quanto abbiamo conosciuto tramite l’impiego dei precedenti sistemi di tecnologia sonora multi-canale. E in quest’ultima direttrice evocata, il riferimento all’esperienza materializzata da Cuarón (e dal supervising sound editor/sound designer Glenn Freemantle) con Gravity (2013) si fa in tutta evidenza inaggirabile. Un’esperienza che sancisce adeguatamente come la configurazione sonora, lungi dal costituirsi nei termini di esclusivo fattore proteso al bagno di sensazioniallestiti nei confronti della percezione/emozione/cognizione spettatoriale, innervi in notevole profondità di registri il disegno concettuale e formale, la calibratura drammaturgico-narrativa del film. Basti solo pensare alla scena iniziale, ai primi 12 minuti in pianosequenza. Un pianosequenza volteggiante così largamente (e giustamente) enfatizzato per la sua complessa genesi e suggestiva resa visuale, ma non mi sembra altrettanto doviziosamente interpellato circa la processualità architetturale in esso della componente sonora (pur nella primazìa verbocentrica) e del suo rilevante dispiegamento selettivo multi-direzionale grazie all’Atmos, non poco produttivi nella studiatamente lenta opera di catalizzazione spettatoriale nell’ambiente diegetico e al contempo nel quadrante di senso che questo inizia a profilare.

Ho parlato poc’anzi di stringente congruenza drammaturgica possibile tra visivo e sonoro. Ebbene se questa si dà, come nel caso di Gravity, è perché reputo sia in gioco un’elaborazione discorsiva che accorda ad ottico e acustico opportunità configurative in non sbilanciata misura, consentendo all’acustico, anche per via dell’Atmos, di esercitare in diverse occasioni, a partire dal lungo stadio iniziale richiamato, una veicolazione di senso non facilmente trascurabile. Aver sottolineato, in rapporto alle valenze dischiuse dall’Atmos, la sintonica correlazione di ottico e acustico nella processualità discorsiva del film muove in una precisa direzione. Che è esattamente quella che impegna, a costo di menzionare una condizione ovvia, la maniera di far lavorare reciprocamente entrambi i registri in una prospettiva immaginativa e formale forte, capace di intensificare creativamente il sapere che il film produce. Che è poi evidentemente il compito di una cooperazione scritturale quanto mai sensibile, in prima istanza, tra regista e sound designer (in relazione al dispositivo sonoro adottato). Al momento, riscontri di tale diffusa efficacia in questa specifica angolazione non riesco ad individuarne molti. Ma ho già in precedenza riferito che il perimetro d’elezione della piattaforma è finora, prevalentemente, quello concernente il cinema mainstream americano, flesso (con le dovute eccezioni, s’intende) perlopiù a predisporre una spettacolare intensificazione simulativa dei suoni extra-musicali in chiave mimetico-realistica. E tuttavia, stante l’ineludibile fatto che anche all’interno della stessa tipologia cinematografica appena richiamato agiscano esperienze orientate in varia accezione e sottigliezza nella ricerca immaginaria e concettuale, si può ragionevolmente ipotizzare che non tarderanno sperimentazioni maggiormente audaci in plurime direzioni. Sperimentazioni che riescano ad investire consistentemente e preziosamente anche la struttura formale del film secondo molteplici e produttive combinazioni. Sperimentazioni magari inerenti la predisposizione di una diversa canalizzazione separativa tra suoni interni e suoni esterni (Chion) o separativa tra voce narrante e voci e suoni diegetici. Oppure implicanti una differente articolazione restituiva nello spazio d’ascolto della musica diegetica ed extra-diegetica. O ancora…

 

Ma è davvero opportuno far avanzare ulteriormente il ragionamento in chiave ipotetica? Non è forse più legittimo auspicare semplicemente che, mediante l’adozione dell’Atmos, possano emergere elaborazioni cinematografiche tali da consentire sostanziali esperienze spettatoriali di segno distante e diverso da quelle, a vario peso e natura, oggettivamente partecipi dello spettacolo generalizzato che ci circonda? Entro il quale (necessita davvero ricordarlo?) la costante sollecitazione sensoriale costituisce fin troppo spesso arma potentemente seduttiva quanto, e non poco, reificante.

 

 

 

 

 

 



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