25 luglio 1965, Newport (Rhode Island, USA): sul palco dell’annuale Newport Folk festival sale, attesissimo, Bob Dylan.
The unwashed phenomenon, the original vagabond (1) è il più celebrato interprete di musica folk, osannato dai circoli intellettuali progressisti, guardato come un porta-bandiera dalla generazione dei contestatori, inseguito per strada dalle ragazze.
Non è da solo, con la sua chitarra acustica e l’armonica a bocca: questa volta lo accompagna una rock band e lui imbraccia sì una chitarra, ma elettrica.
Il pubblico si aspettava di ascoltare i successi folk engagées (da Blowin’ in the Wind a The Times They Are A-Changin’, a Masters of war) e accoglie l’assetto rock del suo beniamino con fischi e boo, ma Bob e il gruppo partono, incuranti, con Maggie’s Farm.
È la protesta di qualcuno che ha deciso di dire un no e di andarsene:
I ain’t gonna work on Maggie’s farm, no more
No, I ain’t gonna work on Maggie’s farm, no more
Well, I try my best to be just like I am
But everybody wants you to be just like them.
È evidente l’ispirazione autobiografica del testo: Dylan rivendica quella libertà creativa che lo sta spingendo oltre l’ambiente della musica folk che gli ha dato la fama.
La folla rumoreggia e tra gli organizzatori dell’evento scoppia un parapiglia.
Uno di loro cerca di interrompere l’alimentazione agli strumenti elettrici: si tratta del famoso folk singer Pete Seeger, co-fondatore del festival di Newport, amico di Bob e uno dei primi a credere nel talento di quel ragazzino del Minnesota arrivato quattro anni prima a New York solo con uno zaino, una chitarra e una poetica potente.
Con il gesto di collegare il cavo della chitarra all’amplificatore, Bob Dylan ha appena consacrato la famosa ‘svolta elettrica’ (2), che segna un passaggio cruciale nel suo percorso artistico e uno snodo rivoluzionario per la storia della musica pop-rock.
Al di sopra del vociare e dei fischi, la band attacca imperturbabile il secondo brano: Once upon a time you dressed so fine….
È l’inizio di quel capolavoro senza tempo che si rivelerà Like a Rolling Stone.
È stato detto, tra le moltissime altre cose, che si tratta di una composizione dal senso sfuggente (‘a chi parla? Chi condanna? Chi esalta? Che cosa sta cercando di dire? Che cosa vuole farmi fare?’ (3)) eppure spiazzante e ineludibile quando incalza con quel How does it feel?
How does it feel,
how does it feel
To be on your own
with no direction home
Like a complete unknown
like a rolling stone?
Proprio dal ritornello di Like a rolling stone è ripreso il titolo del biopic di James Mangold uscito nelle sale italiane il 23 gennaio 2025, A Complete Unknown.
Il completo sconosciuto è ovviamente lui, Bob Dylan.
Non è un caso che i titoli di altre opere cinematografiche già dedicate all’artista statunitense siano ispirati a un campo semantico analogo, a una definizione per negazione: Martin Scorsese per il film-documentario No Direction Home: Bob Dylan uscito nel 2006 riprende da un altro verso di Like a rolling stone, mentre ilmusical drama diretto da Todd Haynes nel 2007 è intitolato I’m Not There, con la trovata geniale di far interpretare l’identità complessa e sfuggente del protagonista da ben sette attori diversi, uomini e donne.
In tutte queste scelte è chiara la volontà di evidenziare l’inafferrabilità della personalità di questo poeta errante, libero, spigoloso e avverso al compromesso.
Il film di Mangold inizia dal gennaio 1961 con l’arrivo a New York di uno sconosciuto cantautore diciannovenne che si chiama Robert Zimmermann ma ha scelto il nome d’arte di Bob Dylan (in onore del poeta Dylan Thomas) e ha già una forte consapevolezza del proprio mondo interiore da esprimere in musica. La narrazione arriva fino alla rottura rappresentata dalla svolta elettrica dell’estate 1965.
La pellicola ha, fra i vari pregi, quello di non essere un ritratto agiografico.
Sia pure in un panorama critico grandemente favorevole, qualche lettura rimprovera alla narrazione delle significative omissioni. (4)
Eppure al netto di qualche lacuna nel ritrarre la temperie politico-sociale in cui si colloca il fenomeno Dylan e di qualche superficialità nel rappresentare due presenze femminili, Sylvie Russo (nella realtà Suze Rotolo) e Joan Baez, che ebbero un ruolo fondamentale nella maturazione di Bob (5), il risultato non scontato che il film consegue è mostrare che “Dylanè ancora attuale, nonostante tutto”(6), o meglio attualizzabile: l’uscita del biopic sta portando a quella che è stata definita una Dylanmania, soprattutto tra i più giovani (7) che possono così scoprire un mondo musicale e, magari, contenutistico a loro prima ignoto.
E qui bisogna spostare necessariamente l’attenzione su un fattore che sicuramente influisce su questo fenomeno: il Bob Dylan di Mangold è interpretato da Timothée Chalamet, beniamino internazionale della Generazione Z e non solo, del quale già nel 2018, dopo l’esordio come protagonista del bellissimo Chiamami col tuo nome di Luca Guadagnino (2017), il britannico The Guardian scriveva «He’s a young actor who inspires mania wherever he goes» (8). Per dare misura della portata dell’onda di entusiasmo per ‘Timmy’, è stato coniato il termine Chalamania (9).
Chalamet si rivela come l’interprete-alter ego ideale del biografato.
Prima di tutto c’è una forte compatibilità di fisionomia; si rende poi apprezzabile un’inattesa dote canora di cui l’attore dà prova nei molti brani che canta nel film (10); dato l’ormai riconosciuto talento del giovane franco-statunitense, non è motivo di troppo stupore la sua capacità di entrare in modo credibile anche nei panni scomodi di un personaggio ‘intoccabile’ come Bob Dylan (11): al punto che il pubblico del film, anche quello più giovane attratto al cinema dalla presenza di Chalamet più che dal richiamo del nome Dylan, può tranquillamente dimenticarsi che quello è Chalamet, mentre lo guarda trasformato in Dylan; e i dylaniani e dylanologi duri e puri, gelosi custodi di una leggenda vivente, che si schierano scettici davanti allo schermo, non possono storcere il naso di fronte alla rappresentazione chalamettiana dell’inimitabile artista. Insomma, come è stato detto, ‘la verità è che Timothée Chalamet è mostruosamente bravo’ (12).
La trasmutazione di Timothée in Bob funziona anche per una doppia caratteristica propria della figura di Chalamet: si tratta da un lato di un naturale magnetismo della personalità, dall’altro di una sotterranea risonanza con l’inquietudine anticonformista dello spirito dylaniano.
Il magnetismo personale dei due artisti è di opposta ‘composizione’: in Dylan è una forza introversa, ombrosa e impassibile, che incide con potente determinazione e poi si sottrae, funziona per provocazione ed elusione, ammalia sul confine del non-sense; in Chalamet è una vitalità solare contagiosa e vibrante di empatia, sovrabbondante di luminosità e di slancio, non senza qualche eccesso di spontaneità o, per contro, di timidezza e ‘sovraccarico’ emotivo (13).
Al ‘fenomeno Chalamet’, esploso in questi anni in un vortice forse fin troppo incalzante, non sono certo estranee le potenti macchine dello star system e dell’industria della moda (14), che hanno cavalcato le qualità espressive e le inclinazioni estetiche anticonformiste dell’attore facendone una vera icona pop e simbolo di un nuovo modo di essere cool.
Ma al di sotto e prima di questo, a spiegare la forte risposta istintiva di un’intera generazione c’è qualcosa di più autentico, che risiede nella personalità naturalmente charmante, complessa, sfaccettata e fluida del giovane newyorkese, in un’energia che ‘buca’ lo schermo e viene testimoniata anche dal verbale e dal non verbale dei suoi interlocutori (che lo hanno diretto, che hanno recitato con lui, che lo hanno intervistato…).
Quanto alla sintonia con l’inquietudine dylaniana, è presente in Chalamet una sicura capacità di intuire, per esperienza personale, quell’istinto di insofferenza dell’identità alle aspettative esterne che muoveva la ribellione del giovane Dylan (15).

Certo Dylan ventenne degli anni Sessanta era già abbastanza libero da rimanere fedele a se stesso secondo il motto «Ma cosa t’importa di quello che pensano gli altri?» (16), mentre il trentenne Chalamet di oggi forse non è ancora così forte da poter ignorare le aspettative dello show business.
D’altra parte, gravano sulle spalle della generazione a cui appartiene decenni di pressioni individualistiche e ansie narcisistiche. Il meglio che, forse, ci si può aspettare è una consapevolezza del fardello e una volontà di faticosa liberazione (17).
Chalamet si è preparato lungamente, durante cinque anni, per sintonizzarsi con il mondo di Dylan.
In una trasmissione televisiva francese, l’attore dichiara “ça c’est le film, le rôle où je me suis donné le plus et qui m’a donné le plus aussi, où j’ai appris comment je veux vivre ma vie comme artiste et comme homme et comme personne, à cause de cet homme là vivant” (18).
Un accurato lavoro è stato compiuto per cantare con un timbro simile a quello inconfondibile di Dylan, per imparare a suonare chitarra e armonica, per riprodurre movenze, gestualità, accento dello chansonnier del Minnesota (19).
Si direbbe, però, che almeno per un aspetto Timothée non abbia dovuto studiare molto: l’uso dello sguardo. Il languore ironico e un po’ irriverente, l’espressione schiva ma seducente, l’aria trasognata eppure penetrante non devono essere state affatto innaturali per lui da restituire perché quello stesso modo di guardare gli appartiene.
Forse più che in qualsiasi scena di film o apparizione a video, il potenziale espressivo dello sguardo di Chalamet è stato condensato al massimo e valorizzato da un’altra realizzazione artistica, estremamente sintetica, che lo vede protagonista: lo spot del profumo Bleu de Chanel, a firma di Mario Sorrenti uscito nel giugno 2023, precedente allo short film promozionale girato da Martin Scorsese (2024).
È una pubblicità di forte carica emotiva veicolata con un linguaggio innovativo.
Soprattutto, lo spot presenta implicazioni culturali molto interessanti e parla ad una sensibilità nuova che serpeggia nel corpo sociale e per questo qui conviene parlarne.
Si tratta appunto di solo mezzo minuto di immagine e musica.
In quei 30 secondes d’absolu (20) si vede il volto di un giovane uomo, che dapprima avanza lentamente a testa china di profilo, da destra a sinistra, seminascosto dietro a un vetro (che è una bottiglia del profumo, ripresa in primissimo piano), poi appare nitidamente e si volta a guardare in camera. L’inquadratura è stretta: il viso incorniciato dai capelli, il collo e un bavero di pelle.
La scena è in bianco e nero con una color correction di tono blu, a richiamare il nome del prodotto. Perfetta la colonna sonora: un frammento di Nights in white satin dei The Moody Blues (1967), con il suo incedere morbido e sensuale.
Innanzi tutto colpisce la concisione dello spot. Non c’è alcuno storytelling, non c’è claim.
La semplicità consente non solo di portare su un piano più profondo la comunicazione, ma anche di veicolare una forte novità legata al modello di mascolinità proposto, in forte controtendenza rispetto allo standard degli spot di fragranze maschili, che ricorrono a scenari grandiosi e immaginifici, azioni iper-dinamiche e seduzione muscolare, esaltando valori di virilità, potere, volitività, conquista, autoaffermazione.
Con il Bleu 2023 di Mario Sorrenti questo linguaggio viene rivoluzionato. (21)
L’intimismo qui usa per sottrazione la presenza corporea dell’interprete: l’inquadratura lascia fuori il corpo in senso stretto ed è focalizzata solo sul volto, sede privilegiata di espressione delle emozioni e dei sentimenti. Fondamentali per catalizzare il coinvolgimento emozionale diventano così i più piccoli particolari: la postura chinata della testa, la lentezza del movimento, il profilo disegnato, gli occhi abbassati. Infine la profondità eloquente dello sguardo, quando finalmente entra in gioco.
L’assenza di altri elementi narrativi, scenici, dinamici, lascia tutto lo spazio a un’attrazione che si trasmette dall’interiorità del protagonista, prima ancora che dalla pura immagine esteriore.
Al posto della muscolarità qui s’impongono gentilmente la sensibilità, la complessità e anche la vulnerabilità, l’imperfezione.
Il richiamo metaforico al tema dell’imperfezione sta in una piccola cicatrice sulla guancia sinistra, che sarebbe stata difficilmente visibile se non fosse stata ben evidenziata dal gioco di luci, con un effetto certamente voluto.
Anche quel Just what you want to be, you will be in the end, cantato dai The Moody Blues proprio mentre il volto appare da dietro il vetro, è un verso che in questo contesto, associato alla delicatezza dell’immagine, non suona come esortazione al senso di onnipotenza narcisistica del ‘volere è potere’ ma come un invito a ricercarsi e mostrarsi veri.
Lo sguardo, si diceva: la lentezza, quasi esitante, con cui si solleva verso la camera da presa è carica di emotività e profondità. Questo è il punto di forza dello spot: il protagonista maschile della pubblicità di un profumo che rivolge uno sguardo così carico di espressività, che ‘interagisce’ con il pubblico e così intimamente, è una novità. Si arpiona l’attenzione con un meccanismo che non è quello della proiezione narcisistica che stimoli l’idealizzazione o l’identificazione in un modello distante; il trigger è piuttosto la relazione, la sensazione di contatto stabilita da quel modo di guardare, che è del tutto diverso dalle strette occhiate ‘assassine’ degli hunter eyes tipici della tipologia ‘maschio alfa’.
Chi guarda lo spot diventa coprotagonista e, stando al di qua dello schermo, si trova chiamato nella parte del soggetto-oggetto dello sguardo, tanto da avere la sensazione che «He was looking right at me, personally» (22).
Passando quindi in rassegna i fattori intrinseci dell’efficacia di Bleu de Chanel 2023 – semplicità, nuovo maschile, interiorità e vulnerabilità, sguardo e contatto – si può concludere che la convergenza e la sommatoria di queste caratteristiche creino un effetto moltiplicatore di forza espressiva e rendano lo spot un unicum del suo genere, molto innovativo, affidato ad un interprete come Chalamet, del tutto sintonico con queste componenti, non solo per il suo fascino non aggressivo ma anche per la qualità gentile del suo relazionarsi, percepita e apprezzata dal pubblico.
Unendo i puntini, ci possiamo chiedere dunque se, al di là del ‘fattore Chalamet’, abbiano qualche presupposto in comune fenomeni come il successo di botteghino del film di Mangold e la Dylanmania che ha innescato, la precedente Chalamania, la realizzazione dello spot di un profumo che propone con linguaggio originale i nuovi paradigmi culturali relativi al maschile, all’interiorità, alla relazione.
Quello che si ipotizza è che in tutti questi casi sia intercettata quella vibrazione sociale che tende a sintonizzarsi su lunghezze d’onda alternative rispetto al modello antropologico narcisistico (si direbbe di ‘maschile tossico’) dominante da decenni nel sistema occidentale.
In particolare nelle generazioni più giovani si trovano segni di sofferenza acuta ma anche di insofferenza critica e presa di coscienza.
Si respira una stanchezza diffusa verso una società dell’ego, della competizione, della performance, del risultato, del successo, abitata da soggetti di prestazione, estenuati da aspettative di realizzazione economica, da un feroce e spesso inconsapevole autosfruttamento lavorativo (tutti imprenditori di se stessi), da un’immagine idealizzata di sé da costruire, da un risultato sempre più ambizioso da perseguire, perseguitati dalla vergogna del fallimento e bisognosi di approvazione come dei bambini.
Siamo un corpo sociale frammentato e disilluso che, svelato l’inganno, si trova davvero with no direction home, in un pericoloso bilico tra derive barbariche regressive e un’occasione di maturazione in consapevolezza. Proprio like a rolling stone…
Una rifondazione dell’immaginario e del mondo emotivo e relazionale, una risposta creativa alla crisi di senso esistenziale dovrebbe passare per un cambio di paradigma, attraverso il rifiuto del dettame prestazionale e della retorica machista del vincente, la rinuncia al mito del perfezionismo, l’affermazione del diritto alla vulnerabilità e all’errore, l’ascolto dei propri autentici bisogni e desideri e il rispetto di quelli altrui, la conquista di un’autentica libertà di espressione, oltre i canoni tradizionali (23).
Sembra quindi di vedere un filo rosso che collega, a distanza di sei decenni, l’antieroe carismatico e provocatorio Dylan dei primi anni Sessanta e il non-eroe delle emozioni fragili Chalamet che nel nostro tempo lo ha interpretato in A Complete Unknown: se Dylan infervorava le folle intonando The Times They Are A-Changin’ e faceva brillare di speranza gli occhi di Pete Seeger e del pubblico quando cantava gli ultimi della provincia americana, Chalamet oggi può al massimo incoraggiare la sua generazione a scrollarsi di dosso la maschera omologante del vincente, augurandosi di poter ‘help anyone, a guy, a girl, realise that being vulnerable is not a weakness, not a social barrier. It doesn’t mean you’re crazy or hyper emotional, you’re just human […] Humans are complex; we need to feel a lot of things. We are not homogeneous’ (24).
Ciò che lega due istanze, così vicine e così lontane, sta in mezzo ed è la storia di una caduta di orizzonte, di una disillusione totale, il crollo fragoroso del sogno americano, lo sfaldamento degli ideali di giustizia sociale e di pace messi in poesia e musica da Dylan come, prima di lui, dal suo maestro Woody Guthrie.
A ben guardare, A Complete Unknown, chiudendosi con il fiasco voluto e rivoluzionario del 1965 a Newport, ci ricorda che Dylan aveva già capito lo svanire delle illusioni, era pronto a cantare il disincanto e Like a rolling stone era infatti ‘un inno sadico e empatico alla disillusione’ (25).
La pellicola di Mangold si chiude con Bob, occhiali scuri, che di buon mattino inforca la sua moto e sfreccia via da solo, lasciandoci soli.
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[1] Versi tratti dalla canzone di Joan Baez Diamonds and rust, struggente ballata che la famosa folksinger dedicherà nel 1975 all’inquieta relazione d’amore che dieci anni prima l’aveva legata a Bob.
[2] Elijah Wald, Dylan Goes Electric!: Newport, Seeger, Dylan, and the Night That Split the Sixties, Dey Street Books, 2015
[3] Sull’importanza e il significato di Like a rolling stone: Alessandro Carrera, Perché ‘Like a Rolling Stone’ di Bob Dylan è una canzone sconfinata, in Rolling stone, 30 gennaio 2021
https://www.rollingstone.it/musica/perche-like-a-rolling-stone-di-bob-dylan-e-una-canzone-sconfinata/548932/
Mario Gerolamo Mossa, Bob Dylan & Like a Rolling Stone. Filologia, composizione, performance, Mimesis, 2021.
[4] Ad esempio Giovanni Ansaldo su Internazionale rileva che “nel 1965 Bob Dylan non era solo un ragazzo ribelle che prendeva le distanze dal mondo del folk per seguire la sua strada […]. Dylan, a partire dal 1965, mise in scena un affronto epico alla cultura statunitense e a certi suoi perbenismi. Alterato dalle droghe – un aspetto che nel film sembra quasi censurato – metteva in imbarazzo ipocrisie e rigidità dei salotti buoni. Anche per questo canzoni come Like a rolling stone e Ballad of a thin man sono diventate storiche, anche per questo Dylan è ancora attuale, nonostante tutto.”. Giovanni Ansaldo, Bob Dylan, un completo sconosciuto, in Internazionale, 28 gennaio 2025, https://www.internazionale.it/notizie/giovanni-ansaldo/2025/01/28/bob-dylan-film-recensione
Altra interessante recensione è quella di Alessandro Carrera, Bob Dylan, un illustre sconosciuto, in Doppiozero, 26 gennaio 2025 https://www.doppiozero.com/bob-dylan-un-illustre-sconosciuto
[5] Paola De Angelis, A Complete Unknown fatica a rappresentare le donne di Dylan, in Lucy sulla cultura, 23 gennaio 2025, https://lucysullacultura.com/a-complete-unknown-fatica-a-rappresentare-le-donne-di-dylan/
[6] Alessandro Carrera, Bob Dylan… cit.
[7] David Browne, L’effetto Chalamet sul catalogo di Dylan in Rolling stone https://www.rollingstone.it/musica/storie-musica/leffetto-chalamet-sul-catalogo-di-dylan/967071/
Beppe Ardito, A complete unknown. Effetto Dylanmania in The souncheck https://thesoundcheck.it/2025/02/05/a-complete-unknown-effetto-dylanmania/
[8] https://www.theguardian.com/film/shortcuts/2018/apr/06/is-timothee-chalamet-the-new-leonardo-dicaprio
[9] La critica e giornalista cinematografica da Billie Oliver ha pubblicato: Chalamania: 50 reasons your Internet Boyfriend Timothée Chalamet is the perfection (Smith Street Books, 2020).
[10] Come si osserva: “Timmy a volte canta anche meglio di Dylan (qualcuno dirà che non ci vuole molto, ma non è così semplice; chiunque può cantare meglio di Dylan, nessuno canta come Dylan)”: Alessandro Carrera, Bob Dylan…, op. cit.
[11] Chalamet ha incassato anche un non scontato apprezzamento dallo stesso Dylan che è stato coinvolto nella supervisione della sceneggia tura del film: «Timmy è un attore brillante, completamente credibile nei miei panni».
Antonio Dini, “A Complete Unknown” è un grande film su Bob Dylan, in Fumettologica, 24 gennaio 2025 https://fumettologica.it/2025/01/a-complete-unknown-bob-dylan-film-recensione/
[12] Paola De Angelis, “A Complete Unknown” fatica a rappresentare le donne di Dylan, in Lucy sulla cultura, 23 gennaio 2025 https://lucysullacultura.com/a-complete-unknown-fatica-a-rappresentare-le-donne-di-dylan/
[13] V. ad es. la conversazione con Harry Styles su «ID Magazine», 1/2/23: https://id.vice.com/it/article/evwwma/intervista-timothee-chalamet-harry-styles
e l’intervista di Giles Hattersley, 11/10/22, pubblicata su «Vogue Italia» (inizialmente su «British Vogue») https://www.vogue.it/news/article/timothee-chalamet-intervista. In questa ultima, fra l’altro, l’intervistatore commenta: «Possedere un’antenna ininterrottamente sintonizzata sull’energia di coloro che ti circondano è una risorsa formidabile per un attore, ma snervante per un essere umano».
[14] L’apparizione più eclatante e anticonformista di Chalamet come icona fashion è stata nel settembre 2022 alla Mostra del Cinema di Venezia 79 per la première di Bones and all di Luca Guadagnino: la sua falcata disinvolta sul red carpet con uno sfavillante completo rosso di Haider Ackermann, pantaloni e top smanicato a schiena nuda, è stata rilanciata con grande enfasi dalla stampa internazionale e dai social.
Sulla eco di Venezia 79 v. ad es. https://www.ilfattoquotidiano.it/2022/09/03/timothee-chalamet-show-a-venezia-il-look-rosso-fuoco-con-schiena-nuda-infiamma-e-spiazza-il-red-carpet-foto/6790325/
Perché Timothée Chalamet che mostra la schiena è una lezione (non solo di moda) a tutti https://www.vanityfair.it/gallery/timothee-chalamet-schiena-nuda-look-festival-venezia-lezione-foto
[15] https://www.vogue.it/news/article/timothee-chalamet-intervista
[16] La frase è stata detta da Dylan al regista Mangold, preoccupato di essere criticato per l’inserimento di una scena inventata nella sceneggiatura, su richiesta dello stesso Dylan: Brian Hiatt, ‘A Complete Unknown, Bob Dylan ha insistito per mettere nel biopic una scena inventata, in Rolling stone, 16 novembre 2024, https://www.rollingstone.it/cinema-tv/news-cinema-tv/a-complete-unknown-bob-dylan-ha-insistito-per-mettere-nel-biopic-una-scena-inventata/951967/
Per un’analisi delle licenze poetiche presenti nella pellicola v. Fabrizio De Palma, Dieci errori in “A Complete Unknown”
Il fact checking del film su Bob Dylan, in NSS Magazine, 27 gennaio 2025 https://www.nssmag.com/it/lifestyle/39677/a-complete-unknown-errori-storici
[17] “Ognuno di noi deve essere se stesso e non perdere mai la propria originalità e libertà, anche se non è facile. Assistiamo alla minaccia esistenziale del riscaldamento globale, ai governi nazionalisti che emergono qua e là, a una sorta di ritorno al passato e al pensiero autoritario dove l’individualismo viene celebrato invece di essere condannato”.
https://www.marieclaire.it/attualita/gossip/a41942187/timothee-chalamet-film-bones-and-all/
[18] Quotidien, 22 gennaio 20025, https://www.youtube.com/watch?v=PExzHabypBI
[19] Brian Hiatt, Timothée Chalamet. Il ragazzo elettrico, in Rolling stone, 22 gennaio 2025, https://www.rollingstone.it/cinema-tv/interviste-cinema-tv/timothee-chalamet-il-ragazzo-elettrico/959933/
[20] Commento sotto il video di Bleu 2023 dal canale youtube di Chanel
[21] «Con l’aiuto di Chalamet, Chanel sceglie di rappresentare cosa è veramente maschile, attraente, erotico oggi: istintività, sensibilità e raffinatezza, che si mescolano rivelando un uomo complesso, profondo, in continuo divenire»: https://www.esquire.com/it/stile/bellezza-uomo/a43888355/timothee-chalamet-chanel-testimonial-profumo/
[22] È uno dei molti commenti di simile mood leggibili sotto il video dello spot, sul canale youtube di Chanel: https://www.youtube.com/watch?v=JAGVLUKdlP0
[23] https://www.amica.it/video-post/timothee-chalamet-bob-dylan-oggi-difficile-essere-se-stessi/«comunque è difficile trovare un equilibrio, essere se stessi non vuol dire schiacciare gli altri. Oggi credo che sia più difficile uscir fuori per quello che sei e che vuoi essere: ci sono molte più informazioni, molta più pressione. Ma è importante provarci. E poi ognuno di noi è unico».
[24] V. ad es. la conversazione con Harry Styles, cit.
[25] Luca Mastrantonio, Bob Dylan l’enigma di una voce, in Corriere della sera, 28 febbraio 2025.
