Nelle ultime righe de La letteratura come materia oscura definisci il libro “nato da un sospetto riguardante l’eterna e ineluttabile metempsicosi/transustanziazione delle idee”. Puoi approfondire questa visione?
Il sapere non è qualcosa di immobile, solido, eterno, immodificabile. Passa da testo a testo, da testi a teste, e poi da teste a teste, per magari tornare a diventare testo subito dopo. O no. L’importante è che in questo passaggio continuo e continuativo, che ha una coazione a ripetersi, avvengono due cose: si protrae la vita del sapere, quindi oltrepassa la propria morte, e poi il sapere cambia, si modifica. Questo in base a mille dinamiche, che possono avere a che fare con la collocazione culturale dei riceventi e a loro volta riproduttori, con lo spazio-tempo in cui si muovono, con i canali che usano, e così via. Questo battere la morte e al contempo modificarsi, implica nuove incarnazioni. Ecco cosa intendo per metempsicosi dei saperi e transustanziazione, utilizzando in questo secondo caso un gergo teologico per dare da un lato l’idea della sostanza del sapere, perché il sapere non vive in uno stato etereo ma in uno materico, e dall’altro che questa nuova «sostanziazione» è sempre in transito.
Nel libro si legge che “nella mia esperienza di traduttore di testi impossibili ed estremi, mi sono con la pratica abituato a una tecnica di scrittura che nasconde i significati non tanto dietro l’uso specifico di certi termini […] ma proprio all’interno dei termini stessi, nella loro composizione intima, nelle trame segrete che ne intessono la materia significabile. Una sorta di semiosi segreta”. Puoi fare degli esempi concreti di questa tecnica?
Facevo soprattutto riferimento al Finnegans Wake di Joyce in cui questa cosa è una teoria costante, che verifica quanto hai appena detto citando dal mio libro. Mi spiego. Ogni «non-parola-forma», ossia, ogni parola il cui senso non si esaurisce nella sua funzione sintattico-grammaticale, quindi «le parole piene di senso» – le chiamerei lessicali se in Joyce non fossero inventate e quindi non reperibili nei lessici – vive di molte anime interne. Esempio: in Athome c’è Adamo e pure l’atomo (un bell’entanglement) ma anche la casa, e anche l’espressione «a proprio agio» (at home). In ifs c’è Eva (Eve) ma al plurale, quindi Eve moltiplicate e moltiplicantesi, e poi ci sono le possibilità, i se. In Shapesphere c’è Shakespeare, c’è la paura (fear), le sfere e i mondi, c’è il Globe theatre, ci sono le forme e i modelli (shapes), c’è il plasmare (to shape). Inventando parole a partire dalle anime interne, dalla morfologia animata, direi, Joyce faceva un uso economico del linguaggio, massimizzandone le risorse e declinandolo all’infinito.
Oltre alla monumentale traduzione del Finnegans Wake di Joyce quali sono state le altre traduzioni più impegnative e significative del tuo percorso editoriale?
The Unfortunates di B.S. Johnson, Ulisse di Joyce, Ilustrado di Syjuco, Lanark e 1982 Janine di Alasdair Gray. Queste per la complessità. Per il sentimento, invece, perché non riuscivo a tradurre e trattenere le lacrime al contempo, le poesie di Bobby Sands scritte nel brutale carcere inglese di Long Kesh, dove sarebbe morto di fame ancora ventisettenne, dopo essere stato eletto a furor di popolo deputato di Westminster. Bobby fece 66 giorni di sciopero dal cibo, per la noncuranza della Thatcher, la lady di ferro e dell’infamia. Tutto ciò dopo esser stato coinvolto nella «protesta della coperta», in cui i detenuti vivevano in carcere nudi, sotto quelle coperte ruvide; e poi l’orribile «protesta sporca» in cui non svuotavano i buglioli e tenevano tutto in cella, spargendo gli escrementi sulle pareti perché si seccassero prima e quindi per dissiparne il lezzo. Lo facevano perché se uscivano dalle celle per andare in bagno, loro denutriti, nudi e scalzi mentre i secondini inglesi erano ben pasciuti e dotati di scarponi e manganelli, venivano picchiati a sangue. Ecco, scrivere poesie per gli altri in quelle condizioni significa non solo resistere ma ri-esistere, e al massimo livello. Tradurle, quelle poesie, ossia farle resistere e riesistere dando a loro, e anche a lui, nuova vita, è qualcosa di mistico e commovente.
Quanto è stato importante l’insegnamento e l’opera di Umberto Eco nella tua carriera di traduttore e di saggista?
Importantissimo. Al di là dei consigli che ci dava di tanto in tanto su come affrontare certi passi del Finnegans che stavo traducendo con Fabio Pedone, credo che sia stato con Giulio Giorello il più raffinato lettore di Joyce in Italia. Non si fermava alla filologia joyciana, ne riviveva lo spirito giornalmente. E quando parlava di Joyce, anche negli ultimi tempi più tristi, gli brillavano sempre gli occhi. La sua idea di opera aperta, che io intendo quale opera infinita, è tuttora il miglior modo di avvicinarsi a Joyce. Poi, per quel che riguarda la mia attività di saggista, credo di aver appreso da Eco l’importanza della «leggera profondità», la preminenza del performativo, la voglia di ridere e sorridere anche quando si fa critica con la massima serietà, l’essere sempre eretici, e poi l’idea che si scrive sempre per qualcuno, non nel vuoto.
Come consideri invece le riflessioni di Maurice Blanchot sull’atto letterario?
Non sei il primo a chiedermi questa cosa. Iniziamo col dire che non sono affatto un lettore sistematico di Blanchot, ma che tutte le volte che lo leggo – e lo leggo soprattutto così, per caso – mi accorgo che le cose che mi capita di dire di tanto in tanto della letteratura, quando parlo dei grandi classici inconoscibili fino in fondo, e per questo inesauribili, oscuri, trova una consonanza con le sue idee. La letteratura che «non appartiene», la sua natura di processo infinito, la frammentarietà dell’illuminazione, lo spazio di oscurità che abita prossimo a quello della morte, mi fanno pensare che scrivere, per i grandi, e non ce ne sono molti per me, deve aver rappresentato un modo di differire la fine donandole un fine. Io credo che la grande letteratura sia una continua circonvoluzione, una sorta di spirale che si estende all’infinito. Forse queste cose le ho prese inconsciamente anche da Blanchot, che lessi a Dublino, e in inglese, molti anni fa, e che ogni tanto mi capita di incrociare; ma senza sistematicità, e quasi direi per ventura.
Quando è iniziata la tua elaborazione di un’interpretazione quantistica della letteratura?
Era la notte di capodanno, forse del 2020. Durante la pandemia ascoltavo molti audiolibri tra cui alcune opere di divugazione scientifica. A Dublino anni prima avevo letto Quantum Gravity di Carlo Rovelli e dopo pochi anni se non sbaglio anche i suoi testi italiani iniziatono a circolare molto. Poi, sai con il Finnegans ti imbatti spesso in tante parole quantistiche; quindi avevo questa curiosità, assieme al desiderio di capirci di più. Nella notte di Capodanno, fumai un paio di sigari forse troppo velocemente, e iniziai a scrivere. In qualche ora, prima dell’alba, scrissi una ventina di pagine, e le mandai a Rovelli, che non conoscevo e che non ho mai incontrato. Non mi aspettavo una risposta. Invece lui fu così gentile da rispondermi dicendo che alcune cose gli erano piaciute e che la mia scrittura gli ricordava la musica di Schubert. Conservo quella mail cordiale, e non dovuta, con grande affetto, e spero un giorno di incontrarlo. Da lì, convinto di poter dire qualcosa di nuovo, mi sono messo a leggere tanto, poi ho proposto la ricerca ai Lincei, ho vinto il concorso per prof distaccato dei Lincei per un triennio, che sta per finire, e ho lavorato a questo progetto. In fondo, il senso che tento di evocare è quello di una letteratura misterica, indeterminata, e relazionale, e i principi filosofici della quantistica, alcuni, mi sembrano molto utili a leggere in maniera inaspettata l’arte dello scrivere.

Un capitolo centrale de La letteratura come materia oscura si intitola Tradurre ovvero estraniare. Nel trasportare i concetti da una lingua all’altra, quali strategie adotti per non ridurre il carico di significato dell’originale?
Non si può rispondere a questa domanda senza scrivere un libro. Non credo alle strategie, quelle le hanno gli editori, che vogliono un certo tipo di traduzione, spesso nobilitante, e lo ottengono quasi sempre senza troppi clamori e senza che nessuno se ne accorga. Io credo alla creatività. Tradurre è tante cose, tra cui scrivere. E non è che puoi avere strategie che portino alla creatività. Certo, tradurre non è soltanto scrivere, è anche e soprattutto leggere. Leggere in profondità, studiare, fare ipotesi, non solo interpretative, ma anche di stile, di priorità che ti vuoi dare. Detto questo, se si pensa che si possano adottare strategie, tanto vale farli tradurre dall’intelligenza artificiale i testi perché quella le strategie le ha eccome. Una su tutte la disambiguazione, mentre la grande letteratura, ambigua è, e ambigua deve restare. Sono consapevole che molti colleghi, traduttori e studiosi, non credono a questa mia via eretica al tradurre. Ma io sono convinto che è il determinismo, o direbbe Bruno, la «pedantaria» a uccidere i testi. Quanti libri meravigliosi ho letto in originale e poi in traduzione non mi piacciono più? Basterebbe questo a dimostrare che, 1) la traduzione è scrittura, 2) la traduzione che applica strategie – tolte quelle base, ovviamente, io li chiamo «i trucchetti» – è destinata al fallimento, perché rimpiazza la creatività con il riduzionismo deterministico, per cui ogni cosa va compresa «fino in fondo». Grande rischio applicare la geometria perimetrante all’arte. Ci dimentichiamo sempre che se siamo noi a leggere, questo noi significa io, ed è la pluralità di identità che ci compongono quali esseri differenti. Non è un noi cumulativo. Non tutti vedono le stesse cose in un testo e non tutti hanno le stesse priorità. Anzi.
Parlando in termini strutturali e assoluti, quali sono le affinità e quali le differenze “quantistiche” tra l’italiano e l’inglese? Quale tipo di discorso si incarna meglio nell’inglese e quale nella nostra lingua?
Non sono certo di aver capito. Si applica l’aggettivo «quantistico» a tante cose, e non sono sempre d’accordo – anzi quasi mai – che questa cosa possa essere utile. In letteratura credo lo sia per evidenti affinità di concetto, tra cui la sovrapposizione, l’entanglement, l’indeterminazione, la relazionalità. Ma al rapporto tra le lingue mi sfugge un suo utilizzo appropriato. Le lingue, soprattutto quelle distanti tra loro, e l’italiano e l’inglese lo sono, non come l’italiano e il francese o lo spagnolo, ad esempio, si muovono su percorsi spesso paralleli, che non si incrociano quasi mai in termini di sintassi, e solo ogni tanto in termini di lessico. L’altra cosa a cui non credo è che una lingua possa essere più adatta di un’altra a un certo tipo di discorso. C’era un re inglese che diceva di parlare inglese a corte, francese con le donne, italiano con le amanti e tedesco con il cavallo; ma questa non è che una boutade. Come quella che vorrebbe certe lingue più incisive nel dibattito filosofico di altre (cosa smentita dalla storia, perché le lingue della filosofia sono sempre state tante e si sono sempre alternate gioiosamente). Quello che posso dire è che tradurre dall’inglese all’italiano crea enormi spazio di indeterminazione. Cambiando del tutto i suoni, e il ritmo (l’inglese è pieno di parole monosillabiche), quando si tenta di tradurre uno stile bisogna avere l’umiltà di ammettere che è lo stile che vediamo noi quello che stiamo provando a riprodurre, non lo stile oggettivo di un’opera o un autore. Ma non tutti hanno questa umiltà, mi pare.
In che modo le tue esperienze di traduttore ti hanno guidato nell’esordio alla narrativa con A Beautiful Nothing?
Dal punto di vista della scrittura, molto, perché traducendo si sta attenti alla lingua, si revisiona compulsivamente, si lima il testo fino a quando poi non lo si manda all’editore, e da lì riprende tutta una serie di nuove limature da parte di revisori, editor e altri, a volte fortunate, a volte meno. Quindi, quando traduci, un libro lo leggi tante volte, in originale e in traduzione, e lo riscrivi tante volte. Questo mi ha aiutato con il mio romanzo, perché mi sono messo a soppesare le singole parole, le singole frasi, in termini di suono e di architettura interna. Tutte cose soggettive, intendiamoci, tant’è vero che ad alcuni la mia scrittura piace mentre ad altri no. Invece, in termini di approccio narrativo, il fatto di aver privilegiato nella mia vita la traduzione di libri in cui la trama è spesso secondaria rispetto ad altro, ha fatto sì che anche nel mio romanzo la trama intesa come plot narrativo ceda il passo a un rumore di fondo più importante, a una radiazione testuale e cosmica che intesse il testo con lo spirito, la vita con la finzione, l’esistenza con la letteratura. E anche questa cosa, ad alcuni piace, ad altri no.
