Fare filosofia a partire da una vita non è una novità. Per dirne qualcuna, l’ultimo scritto di Deleuze, Immanenza: una vita (1995), così come l’intera filosofia di Ricœur che vedremo meglio, ne sono una chiara evidenza. Non stupirà, allora, la nostra ambizione di avanzare un’analisi di fenomenologia dell’esistenza (narrativa) attraverso un romanzo che parla di una vita. I miei stupidi intenti di B. Zannoni (Sellerio, 2021), infatti, è la storia di vita di Archy.
Il nostro intento qui è cogliere l’occasione letteraria di Zannoni per esplorare ciò che, con Heidegger, possiamo chiamare la cosa in questione nel libro: il flusso dell’esistenza. Nello specifico, vogliamo ragionare sulla fattibilità di una fenomenologia dell’identità narrativa che, scandagliando le critiche – non solo, ma specialmente – di Ricœur a Husserl, concepisca su base trascendentale l’avviluppo dell’identità narrativa. Trascendentale e narratività sono in contraddizione? Con I miei stupidi intenti possiamo parlarne.
1. Quale stupido intento?
Quella de I miei stupidi intenti è la storia dell’esistenza Archy con tutti i suoi movimenti, le sue crepature e insenature; i suoi rallentamenti e singhiozzi, gli inabissamenti così come le vertiginose vette. Il romanzo sceglie una struttura semplice ma efficace: racconta una vita dal vagito della nascita al sospiro stanco della vecchiaia.
Ciò che si srotola nel corso dei capitoli non è, in questo senso, un intreccio di accadimenti inscatolati gli uni sugli altri, ma il gomitolo degli eventi (Ereignisse) che riguardano quell’esistenza che porta il nome di Archy. Si tratta dell’«insieme dei fatti o dati su cui […] si fonda la storia (interiore ed esteriore) della vita di questa individualità» (1) e, per queste cose, «In base alla storia della vita, il nome proprio perde la funzione di mera denominazione […] e assume il significato della fama del nome» (2).
Questo romanzo racconta gli stupidi intenti di Archy: dice del suo primo amore e del suo amore maturo; dice di un bambino che diventa adulto, e di un adulto che diventa padre senza sapere cosa sia un genitore; dice di Dio, delle sue bontà e cattiveria, o forse della sua medusea indifferenza agli spasmi della vita; racconta l’intento forse più stupido di tutti, quello di «scappare, come tutti dall’inevitabile» (3): la morte. La trama de I miei stupidi intenti è ingarbugliata: ha tanti temi proprio come la nostra esistenza che «può ritrarsi dalle tesi e lasciare scivolare via dalla sua ‹presa› i correlati tetici: ‹presta attenzione a un altro tema›» (4). L’esistenza scivola da un tema all’altro, scavalca certi interessi instaurandone degli altri, sottostà all’assurdità del caso che rimescola le carte del mazzo della vita. E il caso, nella vita, penetra spesso sbriciolandone il flusso.
C’è solo un modo di strillare I miei stupidi intenti, dice Missiroli nella quarta di copertina del libro, ed è leggere «questo romanzo in stato di grazia». Noi ci sovrapponiamo allo strillo di Missiroli facendogli un’eco rimbombante: quella di Archy non è una storia che si legge, ma che si vive in un atteggiamento davvero fenomenologico. Per quanto si tratti di un personaggio immaginario, l’intero essere di Archy è, per così dire, incapsulato nelle pagine del libro: il rullo della sua esistenza scorre con il voltare delle pagine; le sue sensazioni, i suoi stati mentali ed emozionali, gli struggimenti e le malinconie, così come le formidabili gioie e letizie, sono lì inchiostrati e disposti al nostro farne empatica esperienza (5) – «un amico viene da me e mi dice di aver perduto un fratello ed io mi rendo conto del suo dolore» (6). A mano a mano, leggendo I miei stupidi intenti, Archy diventa nostro amico.
2. Narrare il mondo, narrarsi nel mondo
Ma allora, qual è la cosa in questione ne I miei stupidi intenti? È vero che, come dicevamo, il romanzo è imbrogliato perché rispecchia l’imprevedibilità del moto dell’esistenza ma, appunto per questo, è l’esistenza a essere il tema fondamentale della narrazione: il protagonista è lo scorrere dell’esistenza di Archy. Protagonisti sono gli arresti del flusso, i suoi cortocircuiti, gli inciampamenti nel torpore della malinconia.
Questa particolarità ci concede un’occasione fenomenologicamente preziosa: ragionare in maniera narrativa sui modi del flusso esistenziale. Di nuovo, non si tratta di una novità: l’idea ricoeuriana di vita è fondata sulla narrazione o l’autobiografia (7).
L’idea è di trattare l’esistenza personale, quella che ci riguarda in quanto soggettività irripetibili, come un’annodatura di accadimenti. Il mio sapere di me stesso, delle mie tendenze motivazionali così come delle mie inclinazioni emozionali, dipende dal fatto di sapermi raccontare: un po’ come se, appunto, dovessi sciogliere i fiocchi della mia vita. Le idee ricoeuriane, seppure generalmente fenomenologiche, si distanziano dal metodo della fenomenologia (8) specie per via di un fattore condiviso con, ad esempio, Sartre (9) o Derrida (10): secondo Ricœur, c’è un io «signore di sé», quello husserlianamente puro e trascendentale, da trasfigurare in un «io discepolo del testo» (11) ermeneuticamente nel mondo.
Qui si gioca una dinamica nota in fenomenologia, che riguarda l’autonomia trascendentale dell’ego puro dal mondo. Quello che sostengono questi autori, che su Husserl si sono formati, è che l’io husserliano non sia solo ordinatore dell’esperienza ma anche costruttore del mondo. Come si legge in Husserl stesso, in effetti, «Gli oggetti […] si costituiscono originariamente negli atti di questo io» (12). Questo vuol dire che il mondo di cui facciamo esperienza è fondato su riempimenti di senso (13) attraverso cui gli oggetti vengono «animati da un’intenzione» (14). E se queste intenzioni sono mie in quanto sono io il cogito che non solo pensa, ma pure «che parla, legge, balla, si arrabbia e urla, che si difende o attacca» (15), allora questo mondo è mio perché è costruito sulle mie peculiarità personali o proprietà di carattere (16). Infatti, se questa intenzione proviene da un cogito, e questo pensare sono io come «soggetto dell’attuale ‹io vivo›, patisco e agisco» (17), il mondo non è solo vissuto secondo le mie inclinazioni emozionali ma è pure costruito sulla base di queste stesse.
Ciò che viene imputato alla fenomenologia husserliana, in questo senso, è di cadere in un solipsismo trascendentale (18), per quanto raffinato e sui generis: questo mondo qui è mio e solo mio, «un mondo ‹per me›» (19) vissuto in modo assolutamente irripetibile. Tuttavia, questo implica che le mie sensazioni non sono mai pienamente comprensibili dall’altro. In un certo senso, si vive il mondo con la stessa unicità con la quale posso dire di sapere solo io come percepisco il mio toccare un punto del mio corpo, o gli stati emozionali da cui sono affetto quando mi manca qualcuno o sono circondato da persone che mi vogliono bene. Posso certamente comunicarlo, ma il linguaggio manca l’originarietà fenomenologicamente irripetibile della mia esperienza vissuta. In altri termini, i «mondi soggettivi sono tanti quanti sono gli individui umani» (20).
Insomma, l’elefante nella stanza lasciato da Husserl riguardava la chiusura monadica delle soggettività in mondi personali trascendenti – ovvero impenetrabili e “inesperibili” – l’uno per l’altro. Solo io vivo le mie sensazioni, i miei pensieri e le mie fantasie. Si badi, però: la trascendenza delle nostre esperienze vissute non implica che tra mondi personali ci sia incomunicabilità. Piuttosto, le critiche evidenziano l’insufficienza di una fenomenologia che tratta l’intersoggettività come «un analogo del mio e del mio mondo circostante» (21): noto che altri interagiscono e sono emozionalmente motivati come me dalle cose del mondo e, per questo, sono spinto a credere che «nell’entropatia [empatia, N.d.R.] […] ogni uomo, di fronte alla stessa cosa […] ha le ‹stesse› manifestazioni» (22). Tuttavia, «in nessun modo l’altro può avere (quanto allo statuto originario del vissuto […]) la stessa manifestazione che ho io» (23); di conseguenza, «Le mie manifestazioni appartengono a me, le sue a lui» (24).
L’ambizione husserliana di venire a capo del «soggettivo in senso originario e autentico» (25) porta allo svelamento del «soggetto motivazionale di queste circostanze motivanti» (26), ovverosia alla comprensione dell’«io personale in relazione con […] contesti dell’esperienza» (27), ma al contempo rinchiude questa soggettività unicamente personale nella sua stessa unicità.
Quando Ricœur dice di voler portare la soggettività dallo stato di signoria a quello dell’ermeneutica intende proprio questo: schiodare il soggetto personale dall’illusione di un mondo trascendentalmente costruito dalle sue intenzioni, per restituirlo alla fluente dinamicità di un mondo narrativamente aperto. Si tratta di questioni fenomenologiche ancora oggi ardenti, che trovano ampio respiro tanto nell’esternalismo emozionale dell’atmosferologia di Griffero (28) – che cerca di riconsegnare al soggetto certe sfere qualitative del sentire derivanti dalla spontaneità emozionale di un mondo emozionalmente vivo e autonomamente atmosferico –, quanto nell’impostazione ontologicamente gradualista e correlazionista di De Vecchi (29), dove le qualità sono nelle cose ma “portate fuori” dall’incontro col soggetto.
A questo punto, poniamo la nostra domanda: si può parlare di esistenza narrativa nella fenomenologia di Husserl, nonostante il suo assetto trascendentale? È vero: il soggetto husserliano costruisce la sua esperienza del mondo, ma questo non vuol dire che si dia come persona già individuata una volta per tutte (30). Infatti, «Un uomo non si ‹conosce›, non ‹sa› che cos’è; impara a conoscersi» (31). In questo senso, «L’esperienza di sé […] si amplia costantemente» (32). Dunque, c’è da fare una precisazione: le critiche a Husserl colpiscono nel segno la fondazione soggettivistica del mondo, ma il trascendentale non esclude l’idea fluente di una persona in divenire che si narra nella sua esistenza. Come appena detto, «l’io si sviluppa costantemente» (33).
Intendere la coscienza in maniera trascendentale non significa né determinarne a priori la persona né, tantomeno, separarla da quel mondo che pur costruisce. Possiamo dire che la coscienza è nel suo mondo: un’eventuale narrazione trascendentale dell’io ci fa guadagnare da un lato che «Lo stesso spirito non può essere due volte» (34) e, dall’altro, che «questo io si lascia determinare dal suo di-fronte» (35). Addirittura, l’io «ha l’individuazione secondaria del di-fronte» (36) e la sua essenza, per quanto organizzata in modi trascendentali, è «un’essenza fluente» (37) che interagisce e si sviluppa nel (suo) mondo. Nel trascendentalismo non si perde nessun mondo, al massimo ce n’è un altro che, seppure ottenga «la sua individuazione attraverso la relazione con l’io» (38), contatta quest’ultimo sviluppandone la persona. In un certo senso, l’io si sviluppa in sé stesso attraverso sé stesso.
Questo sviluppo dell’io avviene nella sua esistenza che, ancora, è assolutamente unica e insostituibile, e non solo perché si dispiega in avvenimenti irripetibili, ma pure perché ogni evento è vissuto in modo esperienzialmente non rimpiazzabile. Questo sviluppo esistenziale dell’io, poi, è necessariamente narrativo in quanto si tratta di «un percorso solitario, nei meandri di se stessi, dove ogni cosa sparisce, e si tenta di riacciuffarla» (39). Ne I miei stupidi intenti lo vediamo bene.
3. Quel mio stupido intento di esistere
Archy, invero, è gettato (geworfen) al mondo. D’altronde, perché «nessuno chiede di nascere» (40) potrebbe credersi che «morire mi appariva un sollievo» (41). L’esistenza scorre narrativamente e, anche quando si vorrebbe infiacchire nel quieto sconvolgimento della malinconia, bisogna raccogliere «tutta la mia stupida esistenza in quell’unico sforzo disperato, gridando la mia voglia di vivere» (42). L’esistenza è un flusso mica lineare: in certi punti lo scorrere frena, sbiadendo nell’insignificanza o inchiodando in assordanti sofferenze.
Lo sviluppo dell’io racconta una storia esistenziale un po’ sgangherata, che spesso incespica come se il reticolato della vita si sfilacciasse. Come se, in uno di quei punti di sfilacciamento, ci si sentisse «più morto che vivo, in uno spazio sospeso» (43). Come se, insomma, l’esistenza saltuariamente si arrestasse; come se in vita si morisse più volte. La vita affronta la peripezia di non morire una sola volta: il trascendentalismo può rendere conto del nostro modo di strutturare e organizzare l’esperienza, riuscendo forse a intuire di quale senso riempiamo questo nostro vivere, ma il suo scorrere è messo alla diabolica prova degli eventi. E quando qualcosa si rompe, ci si lascia «affondare nello sconforto e nella tristezza» (44). E seppure «Mi chiedevo perché andare avanti» (45), alla fine «Andavo avanti lo stesso» (46).
Questo flusso però, di nuovo, è un po’ sgangherato: avrà punti di sfibramento, ma anche spannung di gioia. Agli inabissamenti più profondi seguono sferzate improvvise, dove «Sentii il blocco svanire; il mondo rimpicciolì all’istante, mi si strinse tutto attorno, in un brivido di calore» (47). In questi momenti il flusso tumultua così tachicardicamente che la gioia di un presente colpevolmente fulmineo, alla fine, appassisce nella «nostalgia del nulla» (48), nel mesto scorrere dei pensieri verso quello che è stato o che, forse, non è stato mai; verso quello che volevamo che fosse, o verso quel qualcosa che si vuole tanto profondamente da poterselo immaginare come vissuto, provando un’affascinante e terribile nostalgia naufragante nel non-essere. Chi incolpare? Forse Dio? D’altronde, «sapendo di chi era il mondo, ero costretto ad avere un nemico» (49).
Che sia forse uno stupido intento come un altro? Uno dei tanti, in effetti, che si inventano per essere felici – o forse rassegnati? – dell’incessante avanzare del flusso. L’esistenza non ci aspetta: dopo che ogni stupido intento si rivela per ciò che è, una stupidità, appena giunge quel momento dove il flusso fa per arrestarsi per sempre, «Rimasi nello sconforto per giorni, tormentato dal quando» (50). È qui che emerge l’intento più stupido di tutti: soggiogare l’arrestarsi dello scorrimento – «Non voglio scomparire, davvero, non voglio nemmeno pensarci» (51).
Conclusione
Con questo articolo, avevamo soprattutto l’obiettivo di capire se la fenomenologia husserliana compromettesse l’idea di esistenza narrativa. Per farlo ci siamo soffermati specialmente, come comprensibile, sulle critiche mosse da Ricœur. Infine, abbiamo cercato di cogliere I miei stupidi intenti come esempio dell’imprevedibilità del flusso narrativo dell’esistenza scorgendone le intrinseche fratture, gli avvallamenti e le riprese a picco, capendo ancora una volta che è la vita stessa a essere l’inaspettato da fissare negli occhi, e nessun trascendentalismo potrà mai cambiare tutto ciò.
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(1) L. Binswanger, Il caso Ellen West, Einaudi, Torino 2011, p. 51.
(2) Ibidem.
(3) B. Zannoni, I miei stupidi intenti, Sellerio, Palermo 2021, p. 242.
(4) E. Husserl, Idee per una fenomenologia pura e per una filosofia fenomenologica, vol. I: Introduzione generale alla fenomenologia pura, tr. it. di V. Costa, Einaudi, Torino 2002, §122, p. 305.
(5) Sul tema dell’identificazione empatica in letteratura, cfr., fra gli altri: L. Zunshine, Why We Read Fiction: Theory of Mind and the Novel, Ohio State University Press, Stati Uniti 2006; S. Keen, Empathy and the Novel, Oxford University Press, Oxford 2007.
(6) E. Stein, Il problema dell’empatia, Edizioni Studium, Roma 2009, pp. 71-72
(7) Cfr. P. Ricœur, Sé come un altro, Jaca Book, Milano 1993; id., Tempo e racconto, vol. I, Jaca Book, Milano 1991; id., Tempo e racconto, vol. II: La configurazione nel racconto di finzione, Jaca Book, Milano 1999; id., Tempo e racconto, vol. III: Il tempo raccontato, Jaca Book, Milano 1999; id., La persona, Morcelliana, Brescia 1997.
(8) Per una ricostruzione sistematica del problema, cfr. M. Feyles, L’undicesimo studio: considerazioni critiche sull’identità narrativa in Ricoeur, in Rivista di Filosofia Neo-Scolastica, vol. 111, n. 2, 2019, pp. 451-472. Doi: 10.26350/001050_000120.
(9) Cfr. C. Adinolfi, La ricezione critica del pensiero husserliano nel primo Sartre. Intenzionalità, Ego e coscienza, in Revista Portuguesa de Filosofia, vol. 78, n. 3, 2022, pp. 953-984. Doi: https://doi.org/10.17990/RPF/2022_78_3_0953.
(10) Cfr. J. Derrida, Il problema della genesi nella filosofia di Husserl, Jaca Book, Milano 2016; id., La fenomenologia e la chiusura della metafisica. Introduzione al pensiero di Husserl, Morcelliana, Brescia 2023; id., La voce e il fenomeno. Introduzione al problema del segno nella fenomenologia di Husserl, Jaca Book, Milano 2021. Come ulteriore approfondimento sui rapporti teoretici tra Derrida e Husserl, cfr. V. Costa, La generazione della forma: la fenomenologia e il problema della genesi in Husserl e in Derrida, Jaca Book, Milano 1996.
(11) P. Ricœur, Fenomenologia ed ermeneutica: partendo da Husserl, tr. it. di G. Grampa, in id., Dal testo all’azione, Jaca Book, Milano 2004, p. 51.
(12) E. Husserl, Idee per una fenomenologia pura e per una filosofia fenomenologica, vol. II: Ricerche fenomenologiche sopra la costituzione, cit., §54, p. 218, corsivi aggiunti.
(13) Questi riempimenti di senso costituiscono uno dei punti più controversi e misteriosi, ma al contempo prolifici ed effervescenti, della fenomenologia tradizionalmente husserliana. In gergo, si parla di morfologia noetico-noematica. Senza avere la presunzione di esaurire in una nota la vertigine teoretica di questo concetto, l’idea è che l’esperienza sia sempre animata da significati (noemi) che la caricano di senso (noesi). Per esempio, dopo aver fatto esperienza (noetica) di un oggetto che vivo come bello, posso ricavarne il correlato noematico (significato) della bellezza come tale. Da queste cose, «Si può abbozzare una universale e pura morfologia dei noemi, a cui si contrapporrebbe correlativamente una universale e non meno pura morfologia dei concreti vissuti noetici» (E. Husserl, Idee per una fenomenologia pura e per una filosofia fenomenologica, vol. I, cit., §98, p. 252). Ne consegue una «fenomenologia della ragione […] [che] deve quindi studiare i diversi accadimenti che sono a priori delineati» (ivi, §138, p. 344, corsivi aggiunti): per quanto a ogni noema può corrispondere una molteplicità di trasformazioni e variazioni noetiche, se la coscienza funziona in modo trascendentale, la pur molteplice variazione può ricondursi a un’unità determinata di variabilità. Com’è intuibile, questo significherebbe riuscire a rendere fenomenologicamente conto di ogni esperienza possibile in generale, in quanto una simile fenomenologia della ragione può «abbraccia[re] realmente l’intero mondo naturale e tutti i mondi ideali […]: li abbraccia come ‹senso del mondo› mediante l’insieme di leggi eidetiche che annodano il senso dell’oggetto e il noema in generale con il concluso sistema delle noesi» (ivi, §145, p. 360).
(14) Ivi, §55h, p. 240.
(15) Ivi, §55h, p. 243.
(16) Cfr. ivi, §57, p. 250.
(17) Ivi, §57, p. 249.
(18) Per un approfondimento sul tema, cfr. M. Smargiassi, Solipsismo e intersoggettività nella fenomenologia trascendentale di Edmund Husserl, in Dialegesthai. Rivista telematica di filosofia, anno 11, 2009. URL: https://mondodomani.org/dialegesthai/articoli/mario-smargiassi-04 (ultimo accesso: 14 Febbraio 2025).
(19) E. Husserl, Idee per una fenomenologia pura e per una filosofia fenomenologica, vol. II: Ricerche fenomenologiche sopra la costituzione, cit., §50, p. 190, corsivi aggiunti.
(20) Ivi, §47, p. 172.
(21) Ivi, §46, p. 170.
(22) Ibidem, corsivi aggiunti.
(23) Ibidem.
(24) Ibidem.
(25) Ivi, §54, p. 219.
(26) Ivi, §57, p. 250.
(27) Ibidem.
(28) Tra i vari, i principali: cfr. T. Griffero, Atmosferologia. Estetica degli spazi emozionali, Mimesis, Milano 2017; id., Quasi-cose. La realtà dei sentimenti, Mondadori, Milano 2013; id., Il pensiero dei sensi. Atmosfere ed estetica patica, Guerini, Milano 2017.
(29) Cfr. F. De Vecchi, La società in persona. Ontologia sociale qualitativa, Il Mulino, Bologna 2022; per un ulteriore approfondimento: cfr. S. Santamato (a cura di), Ontologia qualitativa, fenomenologia della persona. Intervista a Francesca De Vecchi, in Mimesis Scenari, 2 Maggio 2024. URL: https://www.mimesis-scenari.it/2024/05/02/ontologia-qualitativa-fenomenologia-della-persona-intervista-a-francesca-de-vecchi/ (ultimo accesso: 14 Febbraio 2025).
(30) A riprova di questo, si sta recentemente riconsiderando l’influenza della psicoanalisi nella fenomenologia husserliana: il soggetto personale organizza la sua esperienza sensata del mondo non solo attraverso interessi emozionali e conseguenti motivazioni espliciti, ma pure sottintesi o inconsci. Per approfondire: cfr. V. Costa, Margini del trascendentale. Questioni metafisiche nella fenomenologia di Husserl, Morcelliana, Brescia 2024; S. Santamato, Atmosfere emozionali nella clinica psicoterapeutica. Alcuni dubbi sulla psichiatria atmosferologica, in Psicoterapia e Scienze Umane, vol. 59, n. 1, 2025, pp. 21-49 [in corso di pubblicazione]. L’indice è consultabile qui: https://www.psicoterapiaescienzeumane.it/2025.htm (ultimo accesso: 20 Febbraio 2025).
(31) E. Husserl, Idee per una fenomenologia pura e per una filosofia fenomenologica, vol. II: Ricerche fenomenologiche sopra la costituzione, cit., §58, p. 253.
(32) Ibidem.
(33) Ivi, §58, p. 254.
(34) Ivi, §64, p. 299.
(35) Ibidem.
(36) Ibidem.
(37) Ibidem.
(38) Ibidem.
(39) B. Zannoni, op. cit., p. 153.
(40) Ibidem.
(41) Ivi, p. 198.
(42) Ivi, p. 214.
(43) Ivi, p. 146.
(44) Ivi, p. 97.
(45) Ivi, p. 139.
(46) Ibidem.
(47) Ivi, p. 29.
(48) Ivi, p. 53.
(49) Ivi, p. 98.
(50) Ivi, p. 234.
(51) Ivi, p. 236.
