La questione femminile rappresenta uno dei pochi, grandi temi degli anni Sessanta (il decennio della rivoluzione sessuale e della minigonna), forse il solo, che hanno attraversato i lustri successivi, giungendo prepotentemente fino ai giorni nostri. Non a caso oggi i leader delle due principali forze politiche – Fratelli d’Italia e Pd – sono donne: Giorgia Meloni, la premier, e Elly Schlein. Tra i Settanta e gli Ottanta, tuttavia, è avvenuto un vero e proprio cambio di paradigma: il discorso sulla parità è stato affiancato da quello sulla differenza. E la lotta delle donne si è andata affermando come battaglia sì per i diritti, ma, al tempo stesso, «Per una rivoluzione pacifica», come recita il sottotitolo di un bel libro di Luce Irigaray, dal quale traggo il titolo del mio intervento.
Una proposta, quella dell’autrice, filosofa, studiosa di psicoanalisi e di linguistica, che affonda le radici nel concetto elaborato da Jacques Derrida di fallogocentrismo: la cultura, e non solo la famiglia, l’economia, la politica, la società, è stata finora declinata quasi solo al maschile.
Lo studio del suo capolavoro Politiche dell’amicizia, tra l’altro, ci pone dinanzi proprio a una delle radici della riflessione al femminile. Il politico (inteso come la dimensione politica della storia e della cronaca), quello, in particolare, di cui si occupa il giurista e filosofo Carl Schmitt, si nutre dell’idea del “nemico pubblico, politico”, appunto, l’hostis dei latini, ben distinto dall’inimicus, il “nemico privato”, il rivale. È a partire da tale “nemico collettivo” che si definisce “l’amico”, il campo degli “amici”. Da qui una sorta di priorità del “nemico”, rispetto all’ “amico”. E un attributo di tale “nemico” sarebbe la “possibilità reale” della sua eliminazione fisica (e dunque della guerra). Ecco, si chiede Derrida, ciò vale per un mondo al maschile: non a caso nella riflessione schmittiana non compaiono mai “la nemica” o “l’amica”. E se l’irruzione nella storia, nella “grande storia”, delle donne mutasse un quadro del genere? Come porsi al cospetto di un’idea del politico tutta al maschile? Due sono le risposte possibili: o prendere atto che non «si può combattere questa struttura che portandosi al di là del politico, del nome “politica”, e forgiando altri concetti», «per una diversa mobilitazione», oppure «conservare il “vecchio nome”, analizzare altrimenti la logica e la topica del concetto, e impegnarsi in altre forme di lotta». Ma subito dopo il filosofo franco-algerino individua una terza eventualità, e la sente sua: «la decisione consisterebbe, una volta ancora, nel rilanciare senza escludere, nell’inventare altri nomi e altri concetti, nel portarsi al di là di questo politico senza smettere di intervenirvi per trasformarlo».
Più in generale, è nota la disputa medievale sugli universali: i “generi” e le “specie” sono solo suoni emessi dalle nostre bocche, nomi convenzionali o esistono realmente? Varie le soluzioni proposte, dalle più moderate alle radicali. Ecco, analogamente, possiamo chiederci, vi è solo un universale volto a indicare tutti gli umani, oppure gli universali sono due, il maschile e il femminile?
Del resto – e ciò è paradigmatico del fallogocentrismo –, se oggi ragionamenti quali quelli sull’amicizia, sull’aimance (intesa come attrazione) o sull’empatia, e sulle loro valenze politiche, vengono sviluppati soprattutto da donne, per lunghi secoli e per millenni le trattazioni sull’amicizia quasi non hanno contemplato quella tra donna e uomo o tra donna e donna. Lo stesso Libro VIII dell’Etica Nicomachea di Aristotele, dedicato, accanto al Libro IX, proprio alla φιλία (l’amicizia), include la donna solo in quanto moglie e madre. Ascoltiamo:
La comunità di marito e moglie è manifestamente di tipo aristocratico: il marito, infatti, esercita l’autorità conformemente al suo merito, e nell’ambito in cui è il marito che deve comandare; quanto invece si addice alla moglie, lo lascia a lei. Il marito, invece, che comanda su tutto trasforma la comunità matrimoniale in oligarchia, perché fa questo al di là del suo merito, cioè non per quanto è superiore alla moglie. Talvolta, poi, comandano le mogli, quando sono delle ereditiere: quindi, la loro autorità non deriva dal valore personale, ma si fonda sulla ricchezza e sul potere, proprio come nelle oligarchie.
E, poco dopo, a proposito del legame tra genitori e figli, lo Stagirita scrive: «Da queste considerazioni risulta chiaro anche per quali ragioni le madri amano di più».
Vi è dunque, al di là della sottolineatura dei ruoli diversi fra i coniugi, il riconoscimento della differenza e dell’asimmetria legata al sesso («le madri amano di più»); non vi è, invece, riconoscimento alcuno di una parità, almeno virtuale, tra i sessi, tanto più, appunto, che l’“amicizia” al femminile viene concepita solo tra coniugi o rispetto ai figli. Non a caso, poi, si parla anche della relazione tra fratelli: le sorelle non sono incluse. Da qui il rilievo assegnato da Derrida, da Irigaray e da pensatrici come Luisa Muraro e Adriana Cavarero all’uso del maschile “indifferenziato” come fosse un genere “neutro” (“gli uomini”, ad esempio, per indicare uomini e donne, o “i fratelli”, per indicare fratelli e sorelle), subordinato tuttavia all’immaginario e alle pratiche maschili e patriarcali. Parlare al maschile, insomma, con la pretesa di comprendere anche le donne – in nome di un “universale” indistinto – escludendo dal discorso, però, l’universo femminile.
Un esempio.
Seguivo dalla tv l’ormai tradizionale Concertone del Primo maggio del 2023, in piazza San Giovanni a Roma, organizzato da Cgil, Cisl e Uil.
La show-girl Ambra Angiolini, come sempre abile comunicatrice, ha letto delle considerazioni relative, in fondo, alla parità e alla differenza. Notando come nel mondo delle professioni le donne siano retribuite, in media, con compensi inferiori del 20% rispetto a quelli degli uomini. Dinanzi a tale ingiustizia, e qui mi sento di concordare, poco o nulla valgono acquisizioni lessicali quali la vocale “a” o la vocale “e” volte a declinare al femminile quelle stesse professioni: ingegnera, avvocata, architetta (e così le “e” per il plurale). Ecco lo “scivolone” dell’artista, però. Il titolare di un’attività commerciale ha richiesto, tramite un annuncio, che le aspiranti commesse esibiscano un test di gravidanza. Anche dinanzi a ciò, Ambra ha invocato l’esigenza di badare alla sostanza, alla “ciccia”, più che alle vocali. E la “ciccia” porterebbe il nome della parità; consisterebbe nell'”essere uguali”. Ma non è a tale “uguaglianza”, in definitiva, che si appella l’esercente? Di maschi in gravidanza finora non se ne vedono. Quell’annuncio di lavoro richiede alle future dipendenti, dunque, di comprovare quel tipo di parità e di uguaglianza. Insomma: è ingiusto, profondamente ingiusto richiedere quel test. Un comportamento da condannare con risolutezza, ma in nome dell’eguaglianza nella differenza. Certo, anche i maschi dovrebbero assumersi le proprie responsabilità in fatto di paternità e il legislatore potrebbe maggiormente vincolarli a ciò, anche grazie alle tecniche biomediche legate al Dna. E tuttavia… tuttavia un’asimmetria c’è, innegabilmente. Non a caso essa è riconosciuta dalla legge “194” del 1978, quella sull’interruzione volontaria di gravidanza, forse la prima legge davvero sessuata del nostro ordinamento, confermata con un referendum, dal grande valore soprattutto simbolico, tre anni dopo.
E qui andrebbe recuperata la lezione delle donne legate al Pci, le quali compresero il valore della differenza (vocali incluse) per un reale e compiuto riconoscimento dell’aspirazione all’eguaglianza. E, forse, quelle donne, ancorate all’idea della differenza sessuale, avrebbero qualcosa da dire anche ai fautori e alle fautrici delle versioni estreme relative al “genere”. Ma, qui giunti, si aprirebbe un altro discorso. Ci torneremo.
Il Pci, quindi, e, ancor prima, il Pcd’I. Mi riesce difficile citare in poche righe l’ultimo libro di Livia Turco.
E non posso non notare come quella fosse a suo modo, quasi paradossalmente, una fucina di riformismo. Ecco un modo per distinguere tale vocabolo (e tale concetto) da quelli di tecnocrazia e di élite.
Già il 21 gennaio 1921, a Livorno, con il Partito comunista d’Italia nascono le “quote rosa” ante litteram. Ascoltiamo un frammento del primo documento ufficiale del movimento femminile comunista: si «è presa la determinazione di chiedere che in ogni sezione dove ci siano le donne comuniste, una di esse faccia possibilmente parte del comitato esecutivo. Si sono impegnati i nostri giornali a mettere a disposizione della propaganda femminile qualche colonna». Vi era stata prima, naturalmente, un’intensa gestazione, specie grazie al settimanale L’Ordine Nuovo, nato il primo maggio 1919 su iniziativa di Angelo Tasca, Umberto Terracini e Palmiro Togliatti, e diretto da Antonio Gramsci. Attorno a esso «si era costituito un gruppo di donne che diventeranno parte della nuova dirigenza del Pcd’I, impegnate soprattutto nella lotta e nell’organizzazione clandestina e poi nella Resistenza. Si tratta di Camilla Ravera, Teresa Noce, Rita Montagnana, Rina Picolato, Pia Carena». Teresa Noce, ad esempio, ricordava che quando Gramsci «andava in casa dei compagni, andava in cucina, e quel poco che sapeva fare – asciugare i piatti – lo faceva. E intanto chiacchierava, perché non era d’accordo che i nostri compagni non cercassero di parlare con le mogli». E Camilla Ravera, dal canto suo, sempre in riferimento a Gramsci, non dimenticava che «eravamo nel suo studio; io gli parlavo dei problemi dell’emancipazione della donna, del partito. Lui m’interruppe e disse: “Sulla questione femminile gratta gratta un comunista e anche lì ne viene fuori un reazionario”».
Emancipazione, dunque, liberazione e, già da allora, riconoscimento del valore della differenza, come dimostra un articolo del marzo 1921, intitolato Il nostro femminismo, scritto proprio da Camilla Ravera (perdonatemi, ma, citando i nomi delle compagne, non riesco a limitarmi al cognome): «Liberati, l’uomo e la donna, da ogni servitù economica, posti nella possibilità di scegliere quella specie di produzione verso cui si sentono più attratti e della quale si riconoscono più capaci, restituita a entrambi la vera libertà di fronte alla loro natura, l’uno e l’altra potranno cooperare insieme ed intensificare, arricchire, abbellire la vita dell’umanità». E ancora, a proposito della tutela della maternità: «La donna madre non deve perdere il diritto alla sua indipendenza economica, e tuttavia la madre, secondo noi, almeno per il primo anno di vita, deve poter rivolgere tutte le sue attività all’allevamento e alle cure del bambino». «E infine la questione della famiglia. La costituzione della famiglia in una società comunista subirà certamente delle grandi modificazioni ma la famiglia non può essere abolita». Quanto di più lontano possa esservi dai “casermoni-collegio” sovietici!
Poi, però, durante il decennio dei Settanta e negli Ottanta (ormai in pieno “riflusso”, ma tali elaborazioni lo sfideranno), ciò verrà tematizzato in maniera ancor più esplicita e consapevole, e sviluppato, grazie al pensiero della differenza.
Così proprio nella distinzione fra emancipazione e liberazione femminile potremmo scorgere uno dei motivi di fondo di ciò che sta accadendo: semplificando un po’, si è avuta emancipazione (incompleta) quasi senza liberazione. Liberazione da stereotipi, consuetudini, tabù, modi di pensare e di porsi. E non di rado le donne, pur acquisendo nuovi ruoli e avanzando nella scala gerarchica (non sempre, non in maniera compiuta), hanno finito per far propri simboli e pratiche dell’universo maschile. Rinunciando a quella rivoluzione pacifica della differenza sessuale e di genere. Accanto a un “eros” sordo e cieco, espressione del “maschile-neutro” indifferenziato e primitivo, e accanto all’amore asessuato (agápe senza eros), vi è la tenerezza (filótes), un amore “nel contempo carnale e spirituale” (non è un caso, forse, che papa Francesco si richiami spesso proprio alla tenerezza) […] Proprio Afrodite finisce per divenire l’incarnazione dell’amore come libertà e desiderio umano. Già: desiderio e libertà come binomio inscindibile. Desiderio senza libertà comporta, al contrario, la negazione dei due universi differenziati, quello maschile e quello femminile, e la sopraffazione da parte del “maschile primitivo”, troppe volte fatto proprio anche dalle donne. Un maschile-neutro, dunque, volto a conservare o a ottenere lo scettro del potere e del dominio nella mancanza del rispetto per l’altra o per l’altro.
Desiderio e libertà, quindi. Cos’è il femminicidio, tragicamente proposto dalle cronache con una frequenza raccapricciante, se non la conseguenza del venir meno di tale binomio?
Come situare poi, in tale contesto, il gender, l’idea, cioè, variamente declinata, che i generi – maschile e femminile – siano fluidi, non assegnati alla nascita, mutevoli, fino a sembrare interscambiabili? Provvisoriamente potremmo dire che l’affermazione per la quale sesso e genere siano irrelati corrisponde ad affermare, di notte, che tutte le vacche sono nere (o che, nere o bianche che siano, non fa differenza). Siamo così, di nuovo, alla sostanziale negazione della differenza. D’altro canto, il sesso non può, non deve essere concepito e vissuto come una gabbia o una prigione. Pur nella consapevolezza dei vincoli biologici, vi sono margini di libertà e di fluttuazione; ci è dato ritagliarli o conquistarli. Non nella sola biologia consiste la nostra esistenza.
Generi a parte, è opportuno parlare di differenza, al singolare, o di differenze? Sicuramente la differenza sessuale funge da apripista per il riconoscimento e la valorizzazione di una pluralità di differenze. Se ci battessimo solo per l’eguaglianza, la genetica, ad esempio, starebbe lì, pronta a mortificare e vanificare la nostra lotta. E più le condizioni sociali di partenza si fanno eque ed equilibrate, più sono pronte a far capolino le “ingiustizie” genetiche. Ma il punto di forza dell’evoluzione delle specie consiste proprio nella varietà. Nelle differenze, dunque. E qui il “darwinismo”, nell’accezione più alta, sembra congiungersi con il sogno marxiano di una cosa, di un mondo di liberi e di uguali, nel quale davvero il libero sviluppo di ciascuno sia condizione per il libero sviluppo di tutti (la “corrente calda” del pensiero marxista, direbbe Salvatore Veca). A tal riguardo, ad esempio, la segretaria dem Elly Schlein esprime, al vertice di un soggetto politico, la differenza sessuale, in quanto donna, e la differenza nell’orientamento sessuale, in quanto non eterosessuale. E ciò anche come frutto di lungo corso dell’acume di Enrico Berlinguer, che, paradossalmente, veniva a volte accusato di sottovalutare la questione giovanile (lui, che era stato a lungo segretario della Fgci), ma di certo era sensibilissimo a quella femminile.
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