Ormai non si tratta più di una provocazione diffusa da qualche commentatore politico: ci stiamo tutti abituando a prendere atto che la democrazia è in affanno. La democrazia come la conosciamo, la forma di governo che si basa sulla combinazione di diritti individuali e sovranità popolare, sembra in fase di recessione e gli scricchiolii nella costruzione istituzionale in cui si è svolta la vita politica in modo sostanzialmente ininterrotto dal 1945 si fanno sentire in modo sempre più percepibile. La “crisi di rendimento” dello Stato democratico di diritto sembra mettere a repentaglio la tenuta stessa della democrazia liberale, cioè un sistema politico fondato sulla complementarità tra libertà negativa e libertà positiva, tra la libertà di cui i cittadini possono godere in quanto privati e la possibilità di prendere attivamente parte alla vita politica. L’erosione dello Stato di diritto e di quel sistema di pesi e contrappesi che ne è alla base sta spingendo molti osservatori a parlare di una “regressione” della democrazia verso forme illiberali.
È in atto ormai da tempo, infatti, anche nelle democrazie apparentemente consolidate, la tendenza ad affermare uno stile della politica volto a rendere la democrazia più fortemente maggioritaria e meno liberale. I segnali sono numerosi: la messa in discussione della centralità del parlamento, la promozione di forme personalistiche di rappresentanza in funzione di un rafforzamento del ruolo dell’esecutivo e della verticalizzazione del consenso, la svalutazione della divisione dei poteri, l’ostilità pregiudiziale della maggioranza egemone per l’opposizione partitica e le minoranze. Si tratta di una prospettiva politica ispirata al tentativo di dissociare la democrazia dal liberalismo, ovvero dalla cultura che riconosce nel pluralismo, nei diritti individuali fondamentali e nelle limitazioni del potere politico i fondamenti della società democratica. L’esito di questa tendenza è una sorta di “autoritarismo di maggioranza”, un regime che combina elezioni periodiche a suffragio universale e un orientamento in direzione di una trasformazione in senso carismatico-autoritario del potere democratico.
È anche alla luce di queste considerazioni che va salutata con estremo favore la meritoria iniziativa della casa editrice Società aperta di riunire in un volume alcuni discorsi di tre grandi oppositori del fascismo, pronunciati in aperto e coraggioso dissenso nei confronti di un regime che si stava apprestando a eliminare ogni opposizione con l’intimidazione e la violenza. Questo volume, i Discorsi contro il fascismo pronunciati in diverse occasioni da Giacomo Matteotti, Antonio Gramsci e Benedetto Croce, curato da Gabriele Giacomini e con una prefazione di Gianfranco Pasquino, offre una preziosa opportunità per ricavare un insegnamento che non andrebbe lasciato cadere: la transizione da una democrazia liberale a un democrazia “illiberale”, una democratura, una post-democrazia o una qualche forma di autoritarismo dei maggioranza o comunque la si voglia chiamare non si verifica necessariamente attraverso una brusca rottura, ma, come scrive Giacomini nella Introduzione. Il coraggio della voce, «applicando la formidabile tecnica della “rana bollita”». Una rana cade in una pentola d’acqua bollente e salta subito fuori. Un’altra entra in una pentola di acqua fredda e vi si trova a suo agio. Qualcuno però accende il fuoco e la temperatura dell’acqua sale poco per volta. La rana continua a trovare la situazione piacevole e non smette di nuotare, perché non avverte il graduale cambiamento di temperatura come un pericolo. Quando se ne accorge è troppo tardi e finisce per morire bollita. Qual è la morale di questa storia? Che se un cambiamento è lento e graduale tende a rimanere inavvertito e suscita una reazione solo quando è troppo tardi. Così, ed è questa la lezione da apprendere, è avvenuto con il fascismo. E come i discorsi di queste tre straordinarie figure morali e intellettuali avevano lucidamente annunciato.
Naturalmente, questi discorsi vanno considerati singolarmente, poiché sono pronunciati da un socialista, Giacomo Matteotti, che per questo pagherà con la vita, da un comunista, Antonio Gramsci, che finirà in carcere, e da un liberale, Benedetto Croce, che dopo una iniziale collaborazione con il nascente regime, si trasformò in uno dei suoi più attivi avversari, promuovendo nella primavera del 1925 il Manifesto degli intellettuali antifascisti, in risposta a un parallelo Manifesto degli intellettuali fascisti.
Il primo dei discorsi contro il fascismo riportato nel volume è di Matteotti che, già nel 1921, dunque un anno prima della marcia su Roma, aveva preso la parola alla Camera dei deputati per denunciare le violenze degli squadristi compiute con la tacita connivenza di Giolitti. Un secondo discorso è del 30 maggio 1924, quando Matteotti interviene per lanciare un durissimo atto d’accusa contro le ripetute violazioni della libertà di voto compiute dai fascisti in occasione delle elezioni appena tenute. Nel discorso viene documentata e stigmatizzata l’irregolarità delle elezioni, denunciata la violenza in cui si erano svolte e condannata senza appello la dichiarazione del governo in carica, deciso a rimanere al suo posto qualunque ne fosse stato l’esito. Sarà questo il discorso che spingerà i sicari del regime ad assassinarlo, il 10 giugno dello stesso anno.
Antonio Gramsci interviene invece in occasione della discussione sul disegno di legge contro le società segrete, in particolare la massoneria. Nel suo discorso del 16 maggio Gramsci utilizza l’occasione del dibattito per svelare il «segreto di Pulcinella», ovvero che la messa al bando della massoneria non rappresenta nient’altro che un pretesto per intensificare la presa del fascismo sulla intera società italiana. Dal momento che la società segreta, afferma Gramsci, è una organizzazione rappresentativa degli interessi della borghesia italiana, attaccarla significa, in quel momento, attaccare il liberalismo e la tradizione politica della borghesia italiana.
I discorsi di Matteotti e Gramsci, che pagheranno con la vita e con il carcere le loro dichiarazioni, rappresentano la testimonianza di un coraggio civile che non arretra dinanzi alla violenza e alla brutalità estrema e che, seppure da posizioni diverse, sono accomunati dalla difesa della libertà. Di quella stessa libertà che anche, per Benedetto Croce, nonostante qualche esitazione iniziale, va realizzata, sul piano concreto, associando il consenso alla forza. Croce, in effetti, condivide con l’intera classe liberale un clamoroso abbaglio, che lo porta ad «accettare e riconoscere il bene da qualunque parte sia sorto» – il bene, cioè, della «pace sociale» anche a spese della libertà. I tre discorsi proposti nel volume evidenziano però come l’atteggiamento di Croce nei confronti del fascismo muti nel corso del tempo. Nel primo, Croce respinge la legge sulla massoneria poiché la ritiene organica a un disegno politico più ampio, volto a introdurre misure legislative sempre più antiliberali; nel secondo, pronunciato quattro anni più tardi, si dichiara contrario al Concordato tra la Santa Sede e l’Italia, poiché lo considera lesivo dei principi laici e liberali dello Stato nato dal Risorgimento. Nel terzo, pronunciato nel 1945 pochi mesi dopo la Liberazione, celebra le figure di Matteotti e Gramsci e ne esalta l’impegno, spinto sino all’estremo sacrificio, per l’affermazione della libertà e dei valori democratici.
Leggendo questi discorsi, che vanno dunque considerati singolarmente provenendo da ispirazioni politiche diverse, è difficile dubitare della loro attualità. Non certo per sostenere che l’attuale maggioranza di governo stia riproponendo un modello politico che discende o si ispira al cosiddetto “fascismo storico” e stia progettando di riportare l’Italia al Ventennio. Tuttavia, non mancano elementi che sembrano ricordare l’atteggiamento del primo Croce, che guarda con favore a Mussolini nel momento in cui lo considera come un utile strumento per tenere a bada le rivendicazioni economiche e politiche dei sindacati e dei lavoratori e per riportare «la pace sociale» contro la presunta «anarchia» scatenata dalla libertà di associazione e dalla espressione pubblica del dissenso. È a questo “liberalismo” inegualitario e gerarchico, poi tolto di mezzo proprio da quegli squadristi che i liberali si erano illusi di governare e gestire, che occorre piuttosto guardare con preoccupazione, poiché sembra coerente con l’indebolirsi dei principi fondamentali della democrazia (libertà, uguaglianza, solidarietà) e delle istituzioni della liberaldemocrazia (centralità del parlamento e separazione dei poteri). Il rischio, infatti, è che quella che oggi si preferisce chiamare “governabilità” non sia altro che una cortina fumogena volta a nascondere la propensione per un autoritarismo di maggioranza le cui caratteristiche appaiono sempre più chiare: la volontà da parte dei leader autoritari di vanificare le regole del gioco democratiche in modo da ridurre l’incertezza della competizione elettorale; l’indebolimento dei contro-poteri allo scopo di trasformare le istituzioni non politiche in strumenti a disposizione del vincitore o della maggioranza; l’uso e il controllo dei media per sfruttare le emozioni dell’opinione pubblica in altrettanti vettori di consenso elettorale; l’emanazione di provvedimenti che limitano le libertà civili di espressione della propria opinione, di riunione, di associazione. Rileggere i discorsi di queste tre grandi figure dell’antifascismo rappresenta perciò una opportunità da non trascurare per continuare a difendere e proteggere la sacralità repubblicana e antifascista della nostra Costituzione.