Le registe dell’orrore

Quali sono le tendenze registiche femminili nel nuovo cinema horror? E cosa ci dicono sul ruolo della donna nella società contemporanea? Da Babadook a A Girl Walks Home Alone at Night, da Jennifer’s Body a Una donna promettente, su Scenari, un estratto di Nuovo cinema horror di Emanuele Di Nicola.

Ancora troppo poche 

Premessa doverosa: non si intende certo racchiudere qui tutto il cinema horror girato dalle donne negli ultimi anni, sarebbe impossibile, non c’è pretesa di completezza né la folle ambizione di mappare l’universo femminile di genere dietro alla macchina da presa. D’altronde l’horror più importante diretto da una donna, Titane di Julia Ducournau, viene trattato a parte [nel libro]. Proviamo invece a rilevare i fatti, analizzare tendenze, gettarsi nell’esame dei singoli titoli. Un’altra premessa, altrettanto dovuta, è che gli horror girati da donne sono pochi perché i film girati da donne sono pochi. Il ritardo è eclatante, storicamente sedimentato, e rende il cinema un’arte ancora decisamente maschile soprattutto se parliamo di regia. Lo vediamo, per spirito di rovesciamento, proprio negli anni in cui si registrano miglioramenti: il Center of Study of Women in Television and Film dell’università di San Diego, che studia la materia, nel 2020 ha annunciato trionfalmente che il 16% dei film americani con maggiori incassi dell’anno era diretto da donne1. Un dato positivo, certo, se paragonato al 12% del 2019 e perfino al 4% del 2018. Ma dall’altra parte è un numero che rileva il profondo divario tra uomini e donne nella direzione dei film, un solco ad oggi ancora incolmato. Per non parlare dell’Italia, dove nello stesso periodo solo il 12% dei titoli a finanziamento pubblico era diretto da donne, secondo le stime della ricerca “Dea – Donne e audiovisivo” a cura dell’Irpps, Istituto di ricerche sulla popolazione e le politiche sociali, che fa capo al Cnr2. Tutte cifre che inevitabilmente si riversano sul numero delle registe horror, che sono una nicchia nella nicchia. Il discorso cambia quando si applica alle attrici, che da sempre nei film di genere vengono lanciate e in cambio li valorizzano con le loro interpretazioni, per tutti un caso recente è quello di Mia Goth con la magistrale interpretazione in X e soprattutto Pearl, entrambi diretti da Ti West nel 2022. Certo, nel corso della storia ci sono stati casi fortunati di donne al timone, che infatti si citano spesso ma ben vedere sono sempre gli stessi; il classico case study riguarda il debutto vampiresco di Kathryn Bigelow, Il buio si avvicina (Near Dark, 1987), l’horror che valse per innescare il percorso della sua carriera poi trionfale e oscarizzata. Ma è appunto un caso isolato, l’eccezione che conferma la regola e non fa statistica. 

Da Babadook al presente 

Anche così, comunque, davanti agli orrori dell’oggi alcune registe hanno fatto sentire la loro voce, o meglio la forza della loro narrativa affidata ai movimenti della macchina da presa. Dieci anni fa è stato girato l’horror pioniere in tal senso: Babadook dell’australiana Jennifer Kent (The Babadook, 2014). Una visione che a stretto giro è diventata un autentico cult, partendo dal budget di due milioni dollari per superare i dieci milioni incassati in tutto il mondo. Merito della notevole intelligenza nel manovrare un archetipo, quello dell’uomo nero, il boogeyman, la creatura che vive in cantina. La protagonista Amelia è una ragazza che cresce da sola il figlio di sei anni, Samuel, dopo la morte del marito nel classico incidente stradale. Inchiodata in casa, nel grigiore di una città australiana, a rischio depressione, la donna si sforza comunque di sostenere il bambino creando attorno a lui una corazza protettiva che lo aiuti a superare il lutto. Il problema è che il piccolo riferisce di vedere dei mostri, che sarebbero in agguato proprio negli angoli della dimora; la sorgente è Mister Babadook, uno strano libro per bambini che potrebbe non essere ciò che sembra. In un film che supera appena i novanta minuti, prendendo le mosse da un’unica situazione, la regista si dimostra estremamente abile nel disegnare uno scenario incerto tra realtà e fantasia, rendendo difficile scegliere cosa sia reale e cosa frutto di un’immaginazione segnata dalla perdita. Il topos del mostro nascosto in casa viene portato a nuova vita, con tutte le conseguenze psicanalitiche che la figura comporta. Kent sfodera una valida conoscenza del meccanismo orrorifico, semplice, diretto, comprensibile a tutti e in grado di colpire duro. Inoltre, ecco un altro punto chiave, inquadrandola da uno sguardo femminile azzecca la descrizione di una mamma rimasta sola col proprio bambino, in teoria più vulnerabile ma non nella pratica, che dunque presta il fianco all’avanzare del terrore. 

Vampire, streghe, ex mogli 

Nel tempo più recente, con gli occhi pieni di nuove guerre e pandemia, altre registe si sono cimentate con l’horror vantando risultati meritevoli. Una delle grandi novità degli ultimi anni è stata Ana Lily Amirpour, britannica nata da genitori iraniani, a sua volta naturalizzata americana: il titolo che l’ha lanciata nel firmamento cinematografico è A Girl Walks Home Alone at Night (id., 2014), girato in persiano nella città iraniana immaginaria di Bad City, una sorta di Sin City in territorio arabo, compreso il bianco e nero. La storia della vampira solitaria, incarnata da Sheila Vand, che affonda i canini negli uomini che incontra per la sua strada, ha conquistato tutti ottenendo in breve tempo un alone di culto. Da una parte c’è la condizione della donna nella società araba, penalizzata e umiliata ancora più che in Occidente; una suggestione che ottiene una resa particolare proprio perché inscenata da una regista apolide, il cui albero genealogico è iraniano ma scolora in Europa e perfino negli Stati Uniti, creando così lo sguardo peculiare dell’ibrido. Dall’altra Amirpour è molto abile a operare sul livello iconografico, nascondendo la creatura della notte dietro un chador che ha funzione di mantello, cioè ricollegando l’ultra-centenaria tradizione vampiresca alla realtà iraniana di oggi. In tutto ciò, viene da pensare, quanto A Girl è davvero un horror e quanto punta a stimolare riflessioni di altro tipo, sociali, politiche e di genere, osservate da un potente sguardo femminile? Non importa, tutto sommato, se teniamo in considerazione che la figura del vampiro è stata manovrata nel tempo per adattarla ai temi più svariati: Abel Ferrara in The Addiction (id., 1995) la usava come metafora della tossicodipendenza negli anni Novanta, fino ad estendere il discorso e arrivare perfino all’Olocausto. Secondo Pablo Larraín i dittatori sono vampiri, come attesta El Conde, lo vedremo più avanti. Allora perché non immaginare anche una vampira dark che abbia le fattezze di una giovane iraniana? Dopo questo successo, peraltro non ripetuto, Amirpour paradossalmente ha battuto strade più puramente di genere, dove il significato altro e la potenza del discorso si impongono tratti, fondendosi con le norme dell’horror: The Bad Batch (id., 2016) è un post-apocalittico ambientato in Texas con i classici personaggi che si scannano tra loro allo scopo di restare vivi, debitore del cinema di Tarantino; Mona Lisa and the Blood Moon (id., 2021) segue la parabola di una ragazza coreana con poteri mentali soprannaturali che fugge dall’istituto in cui è rinchiusa, lanciandosi per le strade violente della società americana. In entrambi i casi due progetti costruiti sull’accumulo e sulla citazione, nell’intento di risvegliare immaginari, che non sfiorano il successo dell’opera prima ma in cui svetta indiscutibile la ricchezza dello sguardo registico. L’autrice, quando viene convocata “in levare”, dà il meglio di sé. Alle prese con la corta distanza di The Outside, quarto episodio della serie antologica The Cabinet of Curiosities (id., 2022) creata da Guillermo Del Toro, il risultato torna ad essere strabiliante: nell’arco di 64 minuti disegna la storia di una donna non bella, anzi decisamente “brutta”, che prova una crema miracolosa per migliorare e va incontro a conseguenze agghiaccianti. Poco più di un’ora per comporre una riflessione spietata sulla solitudine femminile, lo sguardo degli altri e la dittatura della bellezza, tutto immerso in un gusto di genere che arriva addirittura a creare una “creatura di crema” degna di Brian Yuzna e Stuart Gordon. 

Emanuele Di Nicola, Nuovo cinema horror, Mimesis Edizioni, 2024, 180 pp, 18€.

Karyn Kusama, americana di origini giapponesi, si era fatta conoscere oltre quindici anni fa con Jennifer’s Body (id., 2009), scritto da Diablo Cody. Il film sulla famelica Megan Fox diventò per molti un cult, sia per la talentuosa applicazione del genere sia per le riflessioni ironiche che seminava, quella primaria legata al corpo stentoreo della protagonista. L’altro titolo in tempi più prossimi è The Invitation (id., 2015), tecnicamente un thriller ma venato di horror e soprattutto di angoscia. Kusama si tuffa nel cuore nero di una setta: un’ex moglie invita a cena l’ex marito, entrambi con i nuovi partner e in compagnia di alcuni amici della nuova coppia. Da parte loro, i protagonisti si sono lasciati dopo la tragica morte del figlioletto, che la loro unione non è mai riuscita a superare. Nel corso del pasto, simboleggiato dal bicchiere di vino rosso sangue che campeggia nel poster, affiorano lentamente particolari inquietanti che suggeriscono l’adesione dei padroni di casa ad una sorta di setta. Ben presto al consueto brindisi seguono sintomi di avvelenamento, così diventa chiaro che è in corso un’opera di uccisione di massa… Come uso nel presente, la regista tematizza la credulità diffusa ai nostri giorni e la impasta con l’inquietudine escatologica di chi pensa che l’apocalisse sia dietro l’angolo; ne trae uno spartito inquietante, dove – ancora una volta – interviene chiaramente uno sguardo registico femminile, a partire dalla premessa in cui una donna contatta il marito passato per quella che sembra solo una tranquilla cena di riconciliazione. 

L’uomo invisibile e le donne mangiate 

Con un minimo detour dal sentiero principale, bisogna notare per completezza che esistono horror dedicati alla rappresentazione della donna girati da registi uomini, che trovano risultati alterni: il più potente è L’uomo invisibile di Leigh Whannell (The Invisibile Man, 2020), già produttore e sceneggiatore dei film di Saw, che propone una rilettura del celebre romanzo di H.G. Wells in chiave femminile, affidato alla memorabile interpretazione di Elizabeth Moss. Torna qui il grande mostro primario, che tante volte ha attraversato lo schermo, a partire dalla versione di James Whale del 1933 con Claude Rains, passando novant’anni dopo perfino per le mani di John Carpenter con Avventure di un uomo invisibile (Memoirs of an Invisible Man, 1992); nella recente resurrezione diventa un uomo violento che dopo la morte apparente torna a perseguitare la compagna, ovviamente in forma invisibile. Un simbolo devastante della violenza domestica che troppo spesso viene occultata o minimizzata, avvolta appunto nell’invisibilità. 

Negli ultimi anni altre registe si sono poi applicate alle forme del genere, declinandole in veste “pura” oppure impastandole con suggestioni di altra natura. Una giovane da tenere d’occhio è la regista indie Roxanne Benjamin, autrice di There’s Something Wrong with the Children (id., 2023) che rinnova la tradizione horror sulla dislocante ambiguità dei bambini, qui scomparsi nel bosco durante una gita con i genitori e poi riapparsi, iniziando a comportarsi in modo strano. Una piccola svolta interessante, da verificare in futuro, si è avuta nell’apertura alla produzione horror da parte della Disney con i titoli rilasciati direttamente sulla piattaforma streaming Disney+. Così, ognuno a suo modo valido, abbiamo visto Fresh di Mimi Cave (id., 2022), storia di una ragazza che viene sequestrata da un uomo per essere mangiata, inserendosi nel nuovo cannibalico di oggi che inevitabilmente è anche politico; Clock di Alexis Jacknow (id., 2023), horror su una donna che subisce una sperimentazione clinica perché non riesce ad avere figli, la cui originalità sta proprio nel tema della childfreeness, ovvero la scelta consapevole di non procreare che viene messa all’indice dal mondo intorno; Appendage di Anna Zlokovic (id., 2023), in cui i pensieri negativi e l’ansia di una donna prendono forma concreta in una creatura mostruosa. Frammenti di registe dell’orrore, che naturalmente trattano i temi a loro più vicini, come il maschilismo intrinseco nella società, metaforizzato dagli uomini che mangiano le donne, ma anche il ruolo della donna ancora costretta ad avere figli per realizzarsi, o più in generale le pressioni e i cattivi pensieri, che con una trovata abbastanza geniale si materializzano in un mostro. 

Una postilla su Una donna promettente 

Va detto a margine che il film di genere che ha più sintetizzato lo sguardo delle donne negli ultimi anni non è un horror, ma un thriller: Una donna promettente (Promising Young Woman, 2020) di Emerald Fennell, girato dalla regista poco sopra i trent’anni, in grado di riscuotere un successo notevole sino a vincere l’Oscar come migliore sceneggiatura originale. Il dispositivo teorico è semplice: una ragazza che frequenta l’università di medicina viene violentata e si suicida, la sua migliore amica elabora una complicata vendetta che porterà a termine con mano implacabile. È il principio di un revenge femminile dall’esecuzione matematica, esaltato dalla prova di Carey Mulligan chiamata Cassie, che coltiva la pratica del twist ending, il finale a sorpresa: guardando a certo cinema degli anni Novanta, in particolare all’abilità nel costruire una sequenza finale che obbliga alla rilettura a posteriori di quanto abbiamo visto, perché solo all’ultimo fotogramma si forma il piano complessivo. Legittimamente amato e criticato, attraverso la sua storia decide di prendere una posizione forte e apertamente politica, evidentemente spiazzante in un’era pilatesca e di sostanziale ignavia generalizzata. Per questo è importante registrare un tale uso del genere e in particolare questo film, che funge da possibile epitome per il cinema femminile nell’epoca del MeToo, un cinema che vive nel proprio tempo e si confronta criticamente con esso. Non un horror, dunque, ma un titolo centrale girato da una regista già premiato e storicizzato, che ha guadagnando un piccolo spazio nel cinema degli ultimi anni. 


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