Pragmatismo come sfida. Recensione di “L’estetica pragmatista in dialogo” a cura di Nicola Ramazzotto

L’estetica pragmatista in dialogo (2022), volume curato da Nicola Ramazzotto, si presenta come una miscellanea di voci pronte a mettersi in gioco nel campo dell’estetica filosofica. Il volume, come si evince dal titolo, non vuole di certo imporre il pragmatismo su altre posture più tradizionali dell’estetica, bensì proporlo come una filosofia in grado di stabilire un dialogo aperto con altri approcci e stili filosofici, in un senso non solo retrospettivo, ma anche orizzontale e prospettico. Gli otto contributi che costituiscono la tessitura del dialogo sono infatti rivolti, da una parte, alla tradizione – come nel caso dei saggi La continuità di logica e ontologia nell’estetica di John Dewey di Rosa Maria Calcaterra (pp. 9-24), Husserl, Dewey e l’esperienza dell’arte di Danilo Manca (pp. 25-44) e Esperienza estetica e orizzonti di significato. Per un dialogo tra Heidegger e Dewey di Nicola Ramazzotto – e, dall’altra, ad alcune posizioni dell’estetica occidentale più recenti – come nel caso dei saggi Arte come interazione. Sul rapporto tra opera d’arte e pubblico in Gadamer e Dewey di Elena Romagnoli, dedicato a un parallelismo fecondo fra Gadamer e Dewey (pp. 63-78), e Migliorismo o utopia: la sfida estetica dell’arte popolare tra pragmatismo e teoria critica di Stefano Marino, ispirato dall’estetica dell’arte popolare inaugurata da Schusterman (pp. 79-96). A ciò si aggiungono anche altri saggi, dedicati ad alcuni orizzonti dischiusi da discipline efflorescenti in campo estetico, come quelli di Anita Merlini Teoria dell’immagine e ideologia. Una critica pragmatista ai visual studies e alla Bildwissenschaft (pp. 97-110), di Alberto Siani Landscape Character Assessment”: una proposta pragmatista (pp. 111- 125) e, infine, di Giovanni Matteucci, la cui summa sull’argomento è affidata a un intervento esplicitamente intitolato La sfida estetica del pragmatismo

È Rosa Maria Calcaterra ad avviare il dialogo, ponendo l’estetica di Dewey come punto di incontro fra pragmatismo e tradizione analitica. Di fatto, come sottolinea l’autrice, il pensiero dewyano non è lontano dall’idea di “libertà incatenata” insita nel concetto di ‘trascendentale’ kantiano, ma allo stesso tempo è più radicale di Kant nel denunciare che l’esperienza del mondo, se vuole essere concreta, deve discostarsi dalla dicotomia fra soggetto-attivo e oggetto-passivo. Infatti, l’estetica deweyana si dichiara esplicitamente interconnessa all’esperienza ordinaria, poiché l’arte è viva, attiva e trasformativa, e l’opera non ha termine nell’esposizione sul piedistallo dei musei come prodotto finito – anche se questo, al giorno d’oggi, resta un suo rischio. In realtà, sotto alcuni punti di vista Dewey non sembra riuscire svincolarsi fino in fondo dal soggetto kantiano, poiché continua a esprimersi in termini di ‘esperienza’, usando cioè una parola troppo radicata proprio in quell’equilibrio polare fra soggetto e oggetto che pure vorrebbe criticare. È proprio su questo punto che si muove infatti la critica di Richard Rorty a Dewey (p. 20). Tuttavia, secondo Calcaterra, l’intenzione pragmatica di Dewey va colta più seriamente, e in questo senso il dialogo fra Dewey e Kant può mostrare in tralice un altro dialogo possibile, cioè quello fra il pragmatismo di stampo deweyano e il pragmatismo di stampo peirciano, più vicino a una svolta filosofica anche in senso linguistico. Del resto, questo secondo livello di dialogo, come mostra Calcaterra, è a sua volta prolifico, perché invita a trovare punti di conversione all’insegna del pierciano ‘sinechismo’; in questo modo, l’autrice apre la tavola rotonda filosofica sotto il segno simposiale della continuità nella differenza. 

Quasi immettendosi sui passi tracciati dal primo intervento, il saggio di Danilo Manca si sofferma ancora sui mancati incontri fra la filosofia tradizionale e il pragmatismo, proponendo un incontro possibile fra due autori apparentemente lontani come Dewey e Husserl. In gioco non vi sono semplicemente due approcci filosofici differenti, ovvero pragmatismo e fenomenologia, ma anche due campi d’indagine differenti, rispettivamente l’estetica e la gnoseologia. Eppure, Manca individua buoni argomenti di conversazione, in primo luogo il concetto di ‘esperienza’, comune a entrambi, anche se sviluppato diversamente. Infatti, se Dewey lo utilizza per limare la linea fra soggetto e oggetto, Husserl lo considera una via per accedere alla conoscenza senza dimenticare il mondo. In questo modo, da un punto di vista meramente estetico, per Dewey la creatività dell’opera d’arte è sempre un plus di esperienza rispetto al reale, nell’ottica del “sapere come”: per chiarire meglio il punto, egli utilizza il termine ‘espressione’ secondo la radice latina del ‘condurre fuori’ qualcosa che, altrimenti, rimarrebbe appunto inespresso. Per Husserl, invece, l’arte mostra solo per via negationis quello che la realtà di fatto è, secondo un “sapere che” (p. 34). Tuttavia, come ricorda Manca, sia nel caso dell’aggiunta che nel caso della defezione, entrambi gli autori insistono sull’aspetto critico dell’esperienza dell’arte: ciò viene esplicitamente dichiarato da Dewey, il quale afferma che l’arte è testimone di un’epoca e portatrice di una dialettica generatrice di nuovi significati (p. 43). Ad ogni modo, pur nelle differenze e, anzi, all’insegna delle stesse – secondo lo stesso sinechismo di cui si diceva prima – il saggio mostra come l’incontro fra pragmatismo e fenomenologia non sia affatto impossibile. 

A questo punto, dopo aver messo a confronto Dewey con Kant e Husserl, il volume prosegue con il terzo saggio, di Nicola Ramazzotto, il quale ci presenta Dewey in dialogo con Heidegger. Quest’ultimo sembra il più lontano di tutti dal pragmatismo deweyano per via di una questione piuttosto dirompente, ovvero perché se l’uno è portatore dell’arte come esperienza, l’altro afferma invece che “l’esperienza è ciò in cui l’arte muore” (p. 59). Chiunque conosca Heidegger, però, sa bene che il punto potrebbe giocarsi su una mera questione di termini; del resto, come ricorda Ramazzotto riguardo al pensiero del filosofo tedesco, l’esperienza può essere detta in due modi e, quindi, questo concetto va in primo luogo disambiguato. Essa è Erlebnis, dove la dimensione soggettiva non può circoscrivere l’arte, ma in un altro e diverso senso è Erfahrung, dove l’oggettività ha una portata anche intersoggettiva e diviene comunicabile. Sotto questa seconda sfumatura, Dewey e Heidegger potrebbero anche trovarsi in accordo, perché entrambi ritengono in un certo senso che l’arte sia la più grande forma di comunicazione. In particolare, Ramazzotto approfondisce anche alcune linee di possibile integrazione che potrebbero arricchire lo statuto dell’esperienza artistica, costruendo un ponte fra Heidegger e Dewey sulla capacità dell’arte “di istituire orizzonti di significato”, dove ‘orizzonte’ e ‘significato’ sono due termini comuni a entrambi i pensatori e vicendevolmente arricchiti. 

Nicola Ramazzotto (a cura di), L’estetica pragmatista in dialogo, Edizioni ETS, 140 pp., 2022.

Il quarto saggio della raccolta, di Elena Romagnoli, invita a questo punto alla conversazione con Dewey anche l’ermeneutica di Gadamer. Il saggio verte, in modo simile al precedente, su una possibile integrazione di termini, intrecciando i concetti dewyani di ‘organismo’ e ‘ambiente’ con quelli gadameriani di ‘gioco’ e ‘opera d’arte’. In entrambi i casi, si tratta di mettere in discussione la linea che separa soggetto e oggetto, dove ognuno dei succitati termini mostra che l’esperienza modifica colui o colei che la fa: vale a dire che, di fatto, l’organismo e il gioco coinvolgono il soggetto, che non è mai completamente passivo, e l’ambiente e l’opera d’arte sono il risultato mai sopito di questa interazione. In questo senso, secondo Romagnoli, si può ripensare anche l’ermeneutica di cui Gadamer è portavoce, in un senso antielitario e democratico, contrariamente alle letture più conservatrici del pensiero gadameriano che ne hanno reciso le possibilità più prolifiche. 

L’incalzante saggio di Stefano Marino, quinto della raccolta, si apre sotto il segno della filosofia della musica, mostrando direttamente il movimento integrativo dell’estetica pragmatista rispetto a ogni approccio dicotomico e totalizzante. Se, infatti, le teorie critiche più recenti rischiano di costruire un mero schieramento di musica ‘buona’ contro musica ‘cattiva’, musica ‘seria’ contro musica ‘popolare’, Marino segue invece Schusterman nella riabilitazione di un’esperienza dell’arte che può aprirsi a una fruibilità maggiore, mai definitiva, e, quindi, trovarsi in un dialogo dialettico fino in fondo aperto ai rovesciamenti del presente. Del resto, il pragmatismo è dichiaratamente pronto a mettere in discussione tutte le etichette che seguono la polarizzazione perfettamente esemplificata dal titolo di una canzone di Tom Petty and the Heartbreakers, All or Nothin’. Equiparare forme musicali anche molto diverse tra loro – inserendole semplicemente all’interno di un’unica categoria livellante e omogeneizzante come quella di popular music astrattamente intesa, anziché analizzandole in modo più pragmatico nella loro singolarità concreta – può essere paragonato infatti al gesto, palesemente assurdo, di accostare il nome di un regista come Bergman a quello dei registi di cosiddetti ‘cinepanettoni’ per il semplice fatto che, in fondo, sia le opere dell’uno che quelle degli altri possono essere inserite nella categoria del cinema. Un filosofo pragmatista come Schusterman – e con lui Marino – promuove viceversa una moltiplicazione di criteri non generalizzanti per riflettere su un’arte popolare che possa essere anche buona, anche critica, anche profetica, anche attiva a livello sociale. 

I contributi di Anita Merlini e Alberto Siani, in un modo differente ma egualmente stimolante, suggeriscono invece come l’approccio pragmatista possa offire validi contributi, in un caso, nei campi dei visual studies e della Bildwissenschaft, nell’altro caso, nel campo dell’estetica del paesaggio. In entrambi gli interventi, gli autori cercano di svincolare queste discipline recenti dal dualismo minaccioso di soggetto e oggetto, attivo e passivo, assicurandosi uno sviluppo di questi settori che sia genuino e non intellettualizzante e promozionale solo in campo accademico. In altri termini, se l’iconografia e il paesaggio vengono sussunti sotto termini ideali, il rischio che viene segnalato è quello di perdere l’esperienza viva che l’umano deposita carsicamente sul mondo e che una filosofia come il pragmatismo, invece, ci invita costantemente a riscroprire. 

Infine, il saggio di Giovanni Matteucci costruisce una perfetta chiusura per questo ampio dialogo sviluppato nel corso del volume, dapprima riflettendo su alcuni punti emersi direttamente o trasversalmente negli interventi precedenti, e poi – da buon simposista – lasciando aperte nuove finestre di conversazione, forse anche per pubblicazioni future. Nel suo saggio, Matteucci presenta infatti il pragmatismo come una sfida, sia rispetto ad altre posizioni filosofiche nel campo dell’estetica, sia nei confronti di quelle di stampo più squisitamente teoretico. Fra i diversi spunti di riflessione avanzati da Matteucci, mi soffermerò qui, in conclusione, solo su quello che ritengo il più dirompente anche rispetto agli altri interventi: l’estetica pragmatista, per Matteucci, non conduce denotativamente a un significato, non approda a teorie significanti, ma è nel suo stesso movimento di pensiero significativa, e si conferma “energia” e “concettualità operativa” (p. 138). Chiunque sarà incuriosito dagli argomenti di questo volume, alla fine della sua lettura non potrà di certo affermare che la filosofia è astrazione fumosa, bensì dovrà riconoscere che essa è prassi dinamica, ricca ed eloquente nei confronti di chi le chiede parola.  


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