Dopo l’evento: la memoria. L’11 settembre come trauma ineffabile

Cosa rimane dell’11 settembre, dopo oltre vent’anni dagli eventi che hanno scolpito l’inizio del nuovo millennio? In quale modo l’attacco alle torri gemelle ha modificato il rapporto tra realtà e finzione? E questo rapporto in che modo si interseca con la tragedia greca? Mauro Carbone in L’evento dell’11 settembre 2001. Quando iniziò il XXI secolo traccia le coordinate per convivere con quello che resta.

1. Ma è arte?

Non sono ancora trascorsi sette giorni dall’evento dell’11 settembre 2001: a New York le macerie del World Trade Center continuano a fumare, tutto il mondo è ancora sotto shock, quando le agenzie giornalistiche battono la notizia che il 16 settembre, nel corso di una conferenza-stampa ad Amburgo, il celebre musicista tedesco Karlheinz Stockhausen ha definito quell’evento “la più grande opera d’arte possibile nell’intero cosmo” [1]. In appendice ho cercato di ricostruire come, nel corso di quella conferenza stampa, Stockhausen sia arrivato a formulare un simile giudizio. In ogni caso, la sua dichiarazione fa il giro del mondo, ovviamente suscitando scalpore e indignazione generali. Tre giorni dopo egli protesta che la sua affermazione è stata stravolta [2]. Tuttavia il critico d’arte italiano Francesco Poli la riprende due settimane dopo commentando: “in effetti, nel caso della catastrofe di Manhattan, non si può negare che quasi tutti (anche molti che si rifiutano di ammetterlo) siano stati affascinati dalla grandiosa spettacolarità dell’avvenimento, dalla allucinante perfezione dell’azione distruttiva, dalla densità simbolica (quasi assoluta) dei bersagli e dalla devastante efficacia del risultato”. Insomma, l’evento ha per Poli “tutte le caratteristiche per rientrare a pieno titolo nella categoria estetica del sublime” [3].

Fra le voci che si alzano a polemizzare con la dichiarazione attribuita a Stockhausen, c’è quella dell’importante scultore statunitense Richard Serra, che in una lettera pubblicata sul New York Times e significativamente intitolata Estetizzare il terrore [4], lo accusa di aver smarrito “la distinzione tra arte e realtà”[5].

Karlheinz Stockhausen può a pieno titolo essere definito “musicista d’avanguardia”[6]: le sue intenzioni e le sue sperimentazioni artistiche si collocano senz’altro nel solco inaugurato dalle “avanguardie storiche” e approfondito poi da quelle che si sono succedute per tutto il corso del Novecento. Al fondo di questo solco, al di là delle differenti modalità con cui è stato percorso, sembra riconoscibile un solo intento: produrre appunto lo smarrimento della distinzione tra arte e realtà di cui abbiamo sentito Serra accusare Stockhausen. Anche l’installation art – con cui quel solco si è prolungato oltre la fine del XX secolo – non mira che a questo, per esempio cercando l’interazione con l’ambiente e con i fruitori, ovvero l’unicità di ogni gesto artistico [7]. Per lo stesso motivo l’arte contemporanea in generale, piuttosto che di “opere”, preferisce esprimersi in termini di “eventi”. Che precisamente questo sia il vocabolo con cui viene abitualmente designato quanto accaduto l’11 settembre 2001, anziché casuale, risulta allora profondamente significativo. Tale significato risulta indicato da alcune parole del filosofo e sociologo sloveno Slavoj Žižek, le quali lo ricavano da quelle attribuite a Stockhausen. Scrive Žižek:

Consisterebbe in questo l’elemento veritiero dell’affermazione provocatoria di Karlheinz Stockhausen che gli aerei che colpiscono le torri sono l’opera d’arte definitiva: si può effettivamente immaginare il crollo delle torri gemelle come la chiusura in climax della “passione per il Reale” dell’arte del XX secolo. [8]

Tale passione – va aggiunto – nell’evento dell’11 settembre 2001 ha visto la sua inappellabile sconfitta: anche questo è un “elemento veritiero” della dichiarazione attribuita a Stockhausen circa il conseguimento da parte dei terroristi dell’obiettivo sempre sognato dall’arte – per lo meno da quella novecentesca – e mostratosi irrealizzabile.

È Baudrillard che sembra aver meglio colto tale aspetto:

Peraltro – e in questo senso la dichiarazione di Stockhausen è giusta – l’evento è stupefacente in sé, al di là di ogni commento. È irrappresentabile, perché assorbe e racchiude tutta l’immaginazione, perché non ha senso. […] Non ha equivalente alcuno. La sola eco si avrebbe forse in certe forme dell’arte moderna, forme che si possono definire terroristiche, e quindi annunciatrici di un evento del genere, ma mai come rappresentazione – e mai dopo. Dopo un evento del genere, è troppo tardi per l’arte, troppo tardi per la rappresentazione. [9]

Non dunque che un artista si sia espresso in termini che evocano lo smarrimento della distinzione tra arte e realtà, ma che la distinzione tra immaginario e reale sembri essersi smarrita nell’evento dell’11 settembre 2001, addirittura essere collassata insieme con le Torri gemelle, sembri cioè cancellata non dall’arte, che pure da un secolo si era data quell’obiettivo, ma dal terrore: questo deve turbare [10]. Perché impone d’interrogarsi intorno alla relazione fra reale e immaginario che l’evento dell’11 settembre 2001 segnala o addirittura inaugura.

Al riguardo, l’opinione di Baudrillard è netta: “gli eventi di New York, come hanno radicalizzato la situazione mondiale, così avranno radicalizzato il rapporto dell’immagine con la realtà” [11]. Non perché abbiano prodotto – come qualcuno ha preteso – “una risorgenza del reale e della violenza del reale in un universo che si spacciava per virtuale” [12], spiega. Con l’evento dell’11 settembre – egli si chiede – “la realtà supera veramente la finzione? Se sembra farlo, è perché ne ha assorbito l’energia, divenendo essa stessa finzione. Si potrebbe quasi dire che la realtà sia gelosa della finzione, che il reale sia geloso dell’immagine…” [13], risponde. In “una sorta di duello tra loro, a chi sarà il più inimmaginabile” [14], consiste allora quella radicalizzazione del “rapporto dell’immagine con la realtà” che abbiamo sentito Baudrillard annunciare poco fa: “reale e finzione sono inestricabili”, continua poi, “perché la realtà è un principio, ed è questo principio che è andato perduto” [15].

Beninteso: non è con l’evento dell’11 settembre 2001 che, secondo Baudrillard, quel principio è andato perduto. Sin dalle prime pagine di Lo scambio simbolico e la morte egli spiegava infatti che “il principio di realtà ha coinciso con uno stadio determinato della legge del valore” [16]: lo stadio in cui quest’ultimo ancora rivestiva anche una funzione referenziale. Tramontata tale funzione, “è un principio di simulazione quello che ormai ci governa al posto dell’antico principio di realtà” [17], affermava Baudrillard, per simulazione intendendo “che tutti i segni si scambiano ormai tra di loro senza scambiarsi più con qualcosa di reale” [18], come del resto avevamo trovato diagnosticato già negli scritti di Deleuze, Guattari e Lyotard dei primi anni Settanta.

Mauro Carbone, L’evento dell’11 settembre 2001. Quando iniziò il XXI secolo, Mimesis Edizioni, 2021, 236 pp, 20€.

Evidentemente non è dunque con l’evento dell’11 settembre 2001 che il principio di realtà sia andato perduto. Tale evento sembra però aver messo quella perdita, letteralmente, sotto gli occhi di tutti – questo Baudrillard sembra suggerire – nel momento stesso in cui, sotto gli occhi di tutti, i terroristi hanno fatto irrompere nel sistema di dominio occidentale, in cui il principio di simulazione fa tutt’uno con l’ideale “azzeramento della morte” [19], l’evento “di una violenza simbolica che gli è vietata, della sola violenza che [quel sistema] non possa esercitare: quella della propria morte” [20]. Giacché la morte, la propria morte, è con ogni evidenza il grande rimosso dell’Occidente. Con cui peraltro, dopo l’11 settembre 2001, né l’emergenza climatica né la pandemia di Covid-19 sono davvero riuscite ad imporgli di fare i conti.

2. Ma quale sublime?

Sia chiaro: non s’intende qui sostenere che quello dell’11 settembre 2001 sia stato un evento sublime. Anche perché la più importante elaborazione filosofica del tema del sublime – quella di Immanuel Kant, con cui ci si sta per confrontare – avverte che, propriamente, a essere sublime non è quanto osserviamo, ma il sentimento che ciò ci suscita.

Né ovviamente s’intende qui sostenere che l’evento dell’11 settembre 2001 abbia suscitato o possa suscitare sentimenti di per sé sublimi. Forse in un romanzo su cui avremo occasione di tornare spesso sta la definizione più appropriata di quanto l’evento dell’11 settembre 2001 ha prodotto: “trauma ineffabile” [21]. E proprio in un dolore tale da eccedere la nostra capacità di espressione e da esercitare nel contempo una misteriosa fascinazione verso quanto ce lo suscita sta una componente decisiva di quell’esperienza che la filosofia ha messo a tema con il termine “sublime”. Ma ciò non può certo bastare a qualificare di per sé sublimi i sentimenti suscitati dall’evento dell’11 settembre 2001. Tuttavia può indurre a confrontarsi con la tematizzazione filosofica del sublime per interrogarsi sulle emozioni suscitate da certe immagini di quel “trauma ineffabile”, sulle loro eventuali implicazioni etiche e politiche, nonché su quelle della memoria che le ha raccolte.

Si sa che non è stato Kant il primo a tematizzare il sublime in filosofia. Si sa inoltre che, prima della sua, la più importante indagine filosofica moderna sul tema del sublime, quella di Edmund Burke [22], presenta alcuni aspetti per i quali, più dell’elaborazione kantiana, può agevolmente essere assunta a riferimento di una riflessione sull’evento dell’11 settembre 2001, a partire dal più stretto legame che essa stabilisce tra terrore e sublime. Ma si sa anche come nell’opera di Burke, “attraverso una ‘psicologia delle passioni’ l’accento posto sul sentimento del terrore fa del sublime la trasmutazione e insieme l’avvicinamento estetico al dolore e, ancora più profondamente, alla morte”, laddove nella kantiana Critica del Giudizio, “invece, si giunge alla tensione etica – al sublime come passaggio dall’estetica all’etica” [23].

Se dunque è con l’elaborazione kantiana del tema del sublime che ci si sta per confrontare, uno dei motivi decisivi consiste appunto nella tensione etica che la contraddistingue e che, al di là dei suoi stessi esiti, mi pare non cessi d’interrogarci.

È noto infine come la riflessione filosofica sul tema del sublime erediti quella sulle emozioni tragiche di ascendenza aristotelica [24], cui si connette il problema della distanza da mantenere rispetto all’intensità di certe passioni: quel problema esemplificato dalla metafora lucreziana del “naufragio con spettatore” di cui stiamo per occuparci [25].

Questo sotterraneo rinvio alla tragedia mi pare vada tenuto presente in quanto, come evidenzia ancora il romanzo cui prima facevo riferimento, quello dell’11 settembre 2001 è stato non solo un evento tragico [26], ma anche – e simultaneamente – qualcosa

come una tragedia greca, in cui tutti sappiamo cosa deve accadere, ma dobbiamo soffrire in silenzio, finché anche il coro, gradualmente, non perviene alla stessa conoscenza. “Non so cosa vedremo quando il fumo si diraderà”, 77dice il cronista, con un tono così innocente da sembrare quasi infantile, “ma ho paura che forse non resterà più nulla”[27].

Un evento tragico e simultaneamente qualcosa “come una tragedia greca” svoltasi davanti a una polis allargata al mondo intero: questa è la peculiarità dell’evento dell’11 settembre 2001, con tutti gli interrogativi circa le emozioni tragiche e le loro implicazioni politiche che tale peculiarità non ha smesso di rivolgerci.

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1.  Cfr. per esempio l’articolo non firmato dal titolo Attacks Called Great Art, “The New York Times”, 19 September 2001, p. E3. Esso cita una nota della France-Presse la quale a sua volta riferisce che, secondo l’agenzia giornalistica DPA, durante la conferenza stampa d’apertura dell’“Hamburg Musikfest”, Stockhausen rispose a una domanda circa gli attacchi subiti dagli Stati Uniti l’11 settembre dicendo: “Quello che là è successo – adesso devono tutti riordinare la testa – è la più grande opera d’arte di tutti i tempi. Che qualcuno possa realizzare in un colpo quello che in musica noi non possiamo nemmeno sognarci, che della gente provi come pazza per dieci anni, in modo totalmente fanatico, per un concerto e poi muoia. Questa è la più grande opera d’arte possibile nell’intero cosmo. […] Io non sarei in grado di farlo. Non potrei farlo. Al confronto, noi compositori non siamo niente.” Cfr. K. Stockhausen, “La più grande opera d’arte possibile nell’intero cosmo”, infra, testo n° 6 dell’“Appendice”. 

2.  Cfr. https://it.qaz.wiki/wiki/Karlheinz_Stockhausen#11_September_attacks (ultima consultazione 14 aprile 2021). 

3. F. Poli, Tra Stockhausen e Lucifero, “Il manifesto”, 5 ottobre 2001, p. 5. Debbo la segnalazione di questi passi dell’articolo di Poli a quello – ricchissimo di informazioni e di suggestioni – di S. Chiodo, “Memoria di un sublime. ‘Ground Zero’ di Libeskind”, in C. Cappelletto e S. Chiodo (a cura di), La traccia della memoria. Monumento – rovina – museo, Cuem, Milano 2004, pp. 159-189. Colgo qui l’occasione per ringraziare Simona Chiodo della documentazione e delle indicazioni ulteriori che mi ha fornito. Va segnalato che anche Baudrillard riferisce il giudizio attribuito a Stockhausen riconducendolo alla categoria di “sublime” (cfr. J. Baudrillard, Power Inferno, cit., p. 16). Così inoltre M. Belpoliti, Crolli, cit., p. 62. 

4.  R. Serra, Aestheticizing Terror, “The New York Times”, 21 October 2001, S2, p. 2, tr. it. di G. C. Carbone e M. Carbone, Estetizzare il terrore, infra, testo n° 7 dell’“Appendice”, p. 209. 

5. Ibidem

6.  Così S. Chiodo, art. cit., in C. Cappelletto e S. Chiodo (a cura di), La traccia
della memoria, cit., p. 181. 

7.  “Ogni occorrenza, ogni attualizzazione di una installazione è unica e non
riproducibile”, scrive Anne-Marie Duguet, che spiega: “l’installazione è realizzata per essere esplorata dal visitatore che, facendo ciò, non solo ne costituisce progressivamente la percezione, ma anche mette in gioco quella degli altri visitatori. L’esistenza stessa di certe opere, e in particolare delle installazioni interattive, esige un’attività particolare da parte del visitatore per potersi manifestare pienamente. Questi esegue dunque una performance che diviene spettacolo per gli altri”. E prosegue: “Bisogna insistere sulla temporalità specifica di queste opere che sono innanzitutto dei processi, che esistono solamente nella durata della loro esperienza, nel qui e ora della loro attualizzazione. Esse appartengono a un’arte di presentazione e non di rappresentazione” (A.-M. Duguet, Installazioni video e interattive: definizioni e condizioni di esistenza, tr. it. di A. Lissoni, in V. Valentini (a cura di), Visibilità Zero, Graffiti, Roma 1997, pp. 13-14).

8. S. Žižek, Welcome to the Desert of the Real: Five Essays on September 11 and Related Dates, Verso, London-New York 2002 tr. it. di P. Vereni, Benvenuti nel deserto del reale. Cinque saggi sull’11 settembre e date simili, “Postfazione” di M. Senaldi, Meltemi, Roma 2002, p. 16. Il capitolo del libro di Žižek da cui è tratta questa citazione è riprodotto nel presente volume quale testo n° 8 dell’“Appendice”.

9.  J. Baudrillard, Power Inferno, cit., p. 16. 

10.  Cfr. S. Catucci, “L’arte è un progetto?”, in G. Ferrario (a cura di), Estetica
elementare, Pearson, Milano 2021, p. 246. 

11.  J. Baudrillard, Lo spirito del terrorismo, cit., p. 35. 

12.  Ivi, p. 37. 

13.  Ibidem

14.  Ibidem, corsivo mio. 

15.  Ivi, p. 38. Cfr. anche J. Baudrillard, Power Inferno, cit., p. 50: “Ora, di fatto,
noi viviamo già ampiamente in una società negazionista. Nessun evento è più ‘reale’. Attentati, processi, guerra, corruzione, sondaggi: non c’è più niente  che non sia truccato o indecidibile. Il potere, le autorità, le istituzioni sono le prime vittime di questa disgrazia dei princìpi di verità e di realtà”.

16.  J. Baudrillard, Lo scambio simbolico e la morte, cit., p. 12. 

17.  Ibidem

18.  Ivi, p. 18. 

19.  J. Baudrillard, Lo spirito del terrorismo, cit., p. 23. 

20.  Ivi, p. 25. 

21.  L. S. Schwartz, Giochi d’infanzia, cit., p. 81. 

22.  E. Burke, A Philosophical Enquiry into the Origin of our Ideas of the Sublime
and the Beautiful [1757], tr. it. di G. Maglietta, Inchiesta sul Bello e il Sublime,
a cura di G. Sertoli e G. Miglietta, Aesthetica, Palermo 1985, 19955. 

23.  F. Sossi, Ipotesi sul sublime, “aut aut”, n. 231, maggio-giugno 1989, pp.
27-28. 

24.  Cfr. G. Sertoli, “Presentazione” a E. Burke, Inchiesta sul Bello e il Sublime, cit., p. 39, nota 81. 

25.  Come ricorda ancora Sertoli, il lucreziano “naufragio con spettatore” esprime una peculiarità sentimentale individuata già prima delle caratterizzazioni del sublime offerte da Burke e da Kant: “Dennis anticipa Burke anche là dove dice che ciò che terrorizza è ciò che minaccia la ‘preservazione’ (preservation) dell’individuo – nel momento stesso in cui, pure, questi si pone a una distanza di sicurezza da esso” (ibidem, p. 22). 

26.  “Il calzolaio ha appeso un cartello scritto a mano: ‘Chiuso per tragedia’” (L. S. Schwartz, Giochi d’infanzia, cit., pp. 98-99). 

27. Ivi, p. 281. Uno stimolante confronto tra gli stilemi della tragedia greca e quelli di due film dedicati all’evento dell’11 settembre – United 93 (2006) di Paul Greengrass e World Trade Center (2006) di Oliver Stone – è offerto da D. Mendelsohn, L’11 settembre al cinema, “La Rivista dei Libri”, anno XVI, N. 11, novembre 2006, pp. 28-32. 


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