Sull’imprinting fenomenologico di Salvatore Veca

Torno alla Milano dei primi anni settanta e a me che con Veca avevo fatto un esame di Filosofia teoretica all’Università Statale, via Festa del Perdono, quando Salvatore era, insieme a Pier Aldo Rovatti, giovane assistente di Paci e osservava perplesso gli sforzi del maestro di conciliare Husserl e Marx (del resto, perché no, se Elizabeth Anscombe in quello stesso torno di tempo cercava di tenere insieme san Tommaso e Wittgenstein, erano anni audaci!).

Così scriveva Francesca Rigotti. Ecco, lo studio di Fenomenologia della percezione (soprattutto della “Premessa”), di Maurice Merleau-Ponty, la cui traduzione in italiano destò un particolare interesse proprio in Enzo Paci, mi porta a scorgere una sorta di “fiume carsico” che sottilmente congiunge il pensiero fenomenologico a Salvatore Veca. La mia ipotesi non si riferisce in maniera specifica al capolavoro del filosofo francese, che ha piuttosto il merito di condensare nelle brevi righe introduttive il travagliato, tortuoso e fecondo percorso di senso della fenomenologia di matrice husserliana.

Su un punto Veca è inequivocabile: «(Ho una persistente gratitudine nei confronti di Paci che mi ha insegnato la passione per la filosofia, ma non ho mai condiviso il suo tentativo eclettico di tenere assieme Husserl e Marx)». E, scavando nei ricordi, egli aggiunge: «In ogni caso, dopo l’esame con Paci decisi risolutamente di passare a filosofia. I rapporti con Paci divennero molto stretti. Lui faceva un’ora di lezione il giovedì, il venerdì e il sabato mattina. Prima della sua ora, il sabato c’era un seminario tenuto da noi studenti. Tra di loro spiccavano Andrea Bonomi, che lavorava su Merleau-Ponty […]. Alla fine delle lezioni di Paci nell’aula 111, molto spesso il gruppo più stretto degli studenti si trasferiva da Panarello, un bar vicino alla Statale. Paci prendeva sempre il vermut, mentre le cassiere non si stupivano più delle nostre discussioni animate sull’epochè, la riduzione eidetica e la fenomenologia». Nel mio piccolo, poi, posso testimoniare di uno scambio “impressionistico” di battute con lui, per iscritto, nel quale scherzosamente affermava di essere “d’accordo sulla dieta parsimoniosa nei confronti di fenomenologia ed esistenzialismo. per evitare casi di malnutrizione intellettuale e spreco” (23 giugno 2015).

Poniamoci in ascolto di Merleau-Ponty, a proposito della nozione di intenzionalità.

Husserl riprende la Critica del Giudizio quando parla di una teleologia della coscienza. Non si tratta di sdoppiare la coscienza umana in un pensiero assoluto, che, dal di fuori, le assegnerebbe i suoi fini. Si tratta invece di riconoscere la coscienza stessa come progetto del mondo, destinata a un mondo che essa non abbraccia né possiede, ma verso il quale non cessa di dirigersi, – e il mondo come quell’individuo preoggettivo la cui unità imperiosa prescrive alla conoscenza il suo scopo. Ecco perché Husserl distingue l’intenzionalità d’atto, che è quella dei nostri giudizi e delle nostre prese di posizione volontarie, la sola di cui la Critica della Ragion Pura abbia parlato, e l’intenzionalità fungente (fungierende Intentionalität), quella che costituisce l’unità naturale e ante-predicativa del mondo e della nostra vita, che appare nei nostri desideri, nelle nostre valutazioni, nel nostro paesaggio più chiaramente che nella conoscenza oggettiva, e che fornisce il testo di cui le nostre conoscenze cercano di essere la traduzione in linguaggio esatto. Il rapporto al mondo, così come si pronuncia instancabilmente in noi, non è qualcosa che possa essere reso più chiaro da una analisi: la filosofia può solo ricollocarlo sotto il nostro sguardo, offrirlo alla nostra constatazione.

È anche tale concezione del rapporto fra essere umano e mondo che intravedo dietro le idee di incertezza e di incompletezza di Veca. Non semplici assonanze; piuttosto consonanze, legate naturalmente ad altre influenze e ad altri contributi. 

L’idea di incertezza rende conto della “domanda” rivolta da tutti gli umani (filosofi e scienziati compresi) ai filosofi, agli scienziati, agli artisti, più in generale agli intellettuali riguardo al carattere almeno in apparenza magmatico, informe, indecifrabile o caotico della realtà e delle questioni che ci toccano. E l’autore non si stanca di evocare le due principali passioni legate, spinozianamente, a tale incertezza: la paura e la speranza, variamente combinate.

Del corpo a corpo o del negoziato fra i miei punti di vista nel tempo, per questo è forse rimasta qua e là, in queste pagine, qualche traccia. Il libro è articolato in tre parti. Nella prima meditazione sono affrontare questioni di verità e di significato a proposito dei nostri modi di dire ciò che vi è nel mondo. Lo scopo principale è quello di saggiare l’importanza di cose come il linguaggio, la traduzione, l’interpretazione e la comunicazione per esseri quali noi siamo. Per questo la prima meditazione verte su ciò che vi è. La seconda meditazione verte su ciò che vale. […] Nella terza meditazione cerco di rispondere alle domande su chi noi siamo. Questioni di identità, per cui affronto l’esame della qualità e del significato della vita per esseri quali noi siamo. Lo scopo principale è quello di saggiare l’importanza di cose come la ragione e le emozioni, i desideri, le capacità e i funzionamenti di esseri che hanno vite mortali da vivere, in un mondo di incessante deformazione.

L’incertezza, in definitiva, corrisponde alle “questioni”, alle nostre “interrogazioni” più o meno radicali. L’idea di incompletezza, dal canto suo, caratterizza le “risposte”, i nostri tentativi di comprendere, elaborare teorie, formulare ipotesi. L’insieme di tali ipotesi, teorie, abbozzi di spiegazioni è, infatti, insaturo: non esaurisce, non può esaurire e comprendere (nel senso etimologico di “abbracciare”, “afferrare”) il mondo. E ciò fa da pendant proprio al riconoscimento, per dirla con Merleau-Ponty, del fatto che la coscienza è «destinata a un mondo che essa non abbraccia né possiede, ma verso il quale non cessa di dirigersi». Anzi, tale movimento incessante è l’altro volto dell’incompiutezza, del carattere insaturo dei conati di “risposta”, dell’incompletezza. Ma ascoltiamo di nuovo Veca.

Credo che la questione centrale delle tre meditazioni filosofiche di Dell’incertezza, alla fin fine, sia questa: quali sono le circostanze che chiedono teoria? […] La questione centrale nelle ricerche sull’idea di incompletezza, i cui esiti sono consegnati a questo libro, L’idea di incompletezza, è la seguente: qual è la natura delle teorie con cui rispondiamo all’incertezza? L’incompletezza di teorie è esaminata ed esplorata, ancora una volta, in ambiti distinti. Nell’ambito del valore, nell’ambito dei metodi di giustificazione del valore, nell’ambito dell’interpretazione e nell’ambito della dimostrazione, nel caso paradigmatico dei sistemi formali. L’esame della natura dell’incompletezza di teorie mette in luce affinità e differenze nei differenti ambiti. Emergono isomorfismi e connessioni, così come distinzioni e differenze. Viene da dire: un concetto di incompletezza, più concezioni della stessa. Il paradigma dell’incompletezza, in ogni caso, ci induce a riflettere sui limiti e, quindi, sull’apertura e l’insaturazione di qualsiasi tentativo di affidare a una teoria il privilegio durevole dell’ultima parola. Ci induce, sia nella ricerca filosofica sia in quella scientifica, all’inquietudine e all’indagine accurata dei varchi dell’inaspettato e del mutamento. Della metamorfosi.

Non a caso l’autore amava citare Ovidio. E un po’ si dispiaceva di aver posto in esergo a quest’opera solo la prima parte della frase del poeta relativa alla metamorfosi: Omnia mutantur. Si riconosceva appieno, piuttosto, nell’intera frase: Omnia mutantur, nos et mutamur in illis

E, per estensione, alla luce di un libro come Il senso della possibilità. Sei lezioni, possiamo sicuramente affermare che tale insaturazione, per Veca, non riguarda solo le teorie e, più in generale, le conoscenze umane, bensì il mondo stesso. La “possibilità” di cui egli scrive non è, semplicemente, la contingenza: ciò che è, e potrebbe non essere, oppure ciò che non è, ma potrebbe essere. Pur prendendo le mosse dal discorso kantiano sulle modalità (a cui aveva dedicato la tesi di laurea), l’autore le rivisita – rivisita, in particolare, il possibile, l’attuale, il necessario – concependo il possibile come l’intorno delle cose. Come evidenziato dai paradigmi dell’incertezza e dell’incompletezza, non tutti gli “oggetti” sono “saturi”. Per molti di essi, anzi, la mutevolezza è la norma. I “mondi possibili”, in base a tale prospettiva, non andrebbero concepiti come lontane galassie da osservare con il telescopio, bensì come una sorta di alone che ci circonda; come l’intorno delle cose. Detto altrimenti: le cose in genere sono eccentriche, possono scostarsi da se stesse.

E qui traspaiono in maniera nitida gli influssi della fenomenologia, delle filosofie dell’esistenza (pur preferendo egli, di gran lunga, l’aggettivo “personale” a quello “esistenziale”), dell’antropologia filosofica. 

Non solo. Veca, come Kant, prende le mosse dalla constatazione della priorità dell’“attuale” sul “possibile”, per poi procedere oltre.

Torniamo per un istante a Merleau-Ponty.

Il mondo fenomenologico non è l’esplicitazione di un essere preliminare, ma la fondazione dell’essere, la filosofia non è il rispecchiamento di una verità preliminare, ma, come l’arte, la realizzazione di una verità. Ci si chiederà come questa realizzazione è possibile, ci si chiederà se essa non raggiunge nelle cose una Ragione preesistente. Ma il solo Logos che preesista è il mondo stesso, e la filosofia che lo fa passare all’esistenza manifesta non comincia con l’essere possibile: essa è attuale o reale, come il mondo di cui fa parte, e nessuna ipotesi esplicativa è più chiara che l’atto stesso con il quale noi riprendiamo questo mondo incompiuto per tentare di totalizzarlo e di pensarlo.

Ecco, è come se Veca, con “il possibile” inteso come “l’intorno delle cose”, provasse a “ricomprenderlo” nell’attuale, nel reale, pur conservando la distinzione fra il mondo (il reale), che è là fuori indipendentemente da noi, e la realtà, frutto della nostra interazione con il mondo, dei nostri approcci, dei nostri tentativi di comprenderlo.


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