In che modo i giocatori stranieri sono stati accolti nel mondo del calcio? E questo cosa ci dice sull’Italia di ieri e di oggi? Oggi su Scenari la Prefazione di Sergio Giuntini, Presidente della Società Italiana di Storia dello Sport, al volume di Alberto Molinari e Gioacchino Toni, I migranti del pallone. I Calciatori stranieri in Italia, Un secolo di storia, (Le Monnier, 2023).
In una delle sue più famose e scandalose interviste, concessa il 2 agosto 1958 a Sandro Valentini del torinese “Tuttosport”, il presidente del CONI Giulio Onesti si lasciò andare a questo irrefrenabile sfogo:
«Eppure, fra questi dirigenti ci sono spesso degli operatori economici che si ingegnano con assiduità e intelligenza per creare nuove possibilità di lavoro nelle ditte e nelle aziende cui presiedono. È ammissibile che nel medesimo tempo essi importino lavoratori dall’estero a condizioni folli? E come si conciliano le spese da nababbi con le disastrose situazioni dei bilanci sociali? Oggi noi ci facciamo ridere dietro da mezzo mondo come i “ricchi scemi” del calcio italiano. E come se non bastasse è venuta fuori la trovata dell’oriundo che ha ormai una sua letteratura.»
Mai in precedenza Onesti, capace di reggere da grande equilibrista le sorti dello sport nazionale per oltre un trentennio, si era scagliato con tanta veemenza contro il calcio e il suo establishment. Quei “ricchi scemi” messi alla berlina rispondevano, tra gli altri, ai nomi di Umberto Agnelli, Angelo Moratti, Andrea Rizzoli, rispettivamente presidenti di Juventus, Inter e Milan: il Gotha del football e dell’economia italiana avviata verso il boom economico. Gli “azzurri” in quel fatidico 1958 erano stati estromessi dai campionati del mondo, cedendo nelle qualificazioni alla modesta Irlanda del Nord, e Onesti addebitava un tale disastro alle dissennate politiche societarie che, a detrimento del vivaio interno, sperperavano danaro nell’acquisto milionario di calciatori esteri o dei cosiddetti oriundi. Calciatori, spesso neppur d’eccelso valore, prodotti dall’emigrazione italiana in America del sud e reclutati a man bassa in Argentina, Brasile Uruguay. E proprio uno di loro, Dino Da Costa, aggiungendo al danno la beffa, nell’incontro con i nordirlandesi aveva siglato l’unica rete di quell’ingloriosa eliminazione.
Diversi decenni dopo, transitati nella seconda Repubblica, fu la Lega Nord a denunciare un siffatto, inutile scialacquare del nostro calcio ammalato d’esterofilia. Preparata con una serie di articoli apparsi sull’organo leghista “la Padania” tra il novembre e il dicembre 2002 (“Salviamo i nostri vivai”; “Basta stranieri: uccidono i vivai”; “Ė sparito il campionato italiano”; “Passa lo straniero”), la crociata ”xenofoba” del movimento di Umberto Bossi culminò, il 6 febbraio 2003, con la diretta chiamata in correo dell’allora presidente del CONI Gianni Petrucci: “Incredibile delibera del Consiglio federale. Il CONI ha deciso: per il 2003 1850 atleti extracomunitari”. «Lo sport in Italia – tuonava “la Padania” – lo debbono fare soprattutto gli italiani, non il battaglione di cubani, ghanesi, jugoslavi e via discorrendo che sbarra ai nostri ragazzi un futuro sportivo»; e per scongiurare il pericolo incombente, l’eurodeputato leghista Francesco Speroni si spinse persino a proporre una ricetta ancor più radicale: la modifica tout court della «regola europea che prevede la libera circolazione sul territorio dell’Unione dei lavoratori comunitari, causa della famigerata sentenza Bosman».
Calando nel presente queste polemiche sembra quasi di sentire, con toni è ovviò più pacati e solo allusivi, alcune uscite dell’attuale allenatore della nazionale Roberto Mancini. Ovvero le sue frequenti lamentazioni circa il poco spazio che, in ragione dell’invasione straniera, trovano in campionato i calciatori autoctoni chiamati poi a comporre l’“undici” azzurro. Strepiti peraltro subito contraddetti dal ricorso, cui anch’egli non ha mai saputo né voluto sottrarsi, a quegli elementi che una volta si dicevano per l’appunto oriundi. Da Jorginho a Emerson Palmieri, campioni d’Europa nel 2021, fino all’ultimo arrivato: l’italo-argentino Mateo Retegui. Il salvatore della patria arruolato per risolvere l’assillante problema del gol in un Paese che non “è per giovani” ma “nemmeno per punte”, facendo le nostre da semplici riserve alla selva di campioni d’oltre frontiera importati dai loro club.
Insomma, sul tema dei calciatori stranieri in Italia ci si è sempre accapigliati e divisi in partiti di favorevoli e contrari, esterofili e autarchici. Una querelle infinita, già manifestatasi agli albori del Novecento. Da un lato sostenendo arbitrariamente la derivazione del football dal calcio rinascimentale fiorentino o addirittura dall’arpastum romano; dall’altro attraverso le mire espansionistiche della Federazione ginnastica che voleva appropriarsene, facendolo rientrare nella propria ampia sfera d’influenza, per “nazionalizzarlo”. E poi proseguita, quando sorsero le sue prime autonome strutture organizzative, nella transizione dalla Federazione Italiana Football (FIF) alla Federazione Italiana Giuoco Calcio (FIGC). La quale programmaticamente, a cominciare dalla denominazione datasi, fece intendere la propria volontà nazionalistica di rivendicare un’italianità sin lì negata dall’egemonia culturale esercitata dalle colonie di pionieri anglo-svizzeri che avevano svezzato il movimento calcistico nella penisola. Svizzeri più che inglesi, a onor del vero e come ben documenta il saggio di Alberto Molinari e Gioacchino Toni, smentendo uno dei numerosi luoghi comuni diffusi sulla genesi del football in Italia. Fu dunque, da subito, uno scontro durissimo culminato nel 1908 nella disputa di due diversi campionati: uno “indigeno” riservato ai soli, veri calciatori italiani, e un altro “federale” a cui potevano partecipare anche giocatori stranieri purché residenti in Italia. L’apartheid, in pratica, applicato al calcio, che non poteva altro che sfociare in una scissione annunciata. L’invenzione degli oriundi è invece un tipico escamotage all’italiana dovuto all’ipocrisia del fascismo. Regime che del nazionalismo autarchico faceva un dogma, ma nel contempo predicava il suo indissolubile legame con l’emigrazione transoceanica. Ecco pertanto come a questi italiani, costretti a lasciare la terra natia dalla fiacca e povera “italietta” pre-mussoliniana, il fascismo offriva una seconda patriottica chance accogliendoli come dei “figliol prodighi” nelle file del suo calcio proiettato – col loro sostanzioso apporto – alla conquista di due coppe “Rimet” (1934 e 1938).
Su questo fenomeno di lungo periodo, ideologico oltreché strettamente tecnico, in naturale evoluzione nelle diverse età del calcio italiano (risentendo delle ristrettezze del secondo dopoguerra, degli anni affluenti del miracolo economico e sino allo spartiacque della legge Bosman del 1995) ma anche soggetto a periodici corsi e ricorsi storici, si continua a dibattere accesamente. Sia nella “chiacchiera sportiva” spicciola (televisiva o da “Bar Sport”, e di sovente le due cose coincidono) che sulla stampa popolare e specializzata, trovando il proprio acme e la propria sostanziale vacuità in occasione delle sessioni – ormai permanenti – del calciomercato o delle epocali dèbacle della nazionale, clamorosamente respinta dalle due edizioni dei mondiali del 2018 e 2022. Ma a fronte della ridondante centralità occupata nel discorso pubblico, da Diego Armando Maradona a Cristiano Ronaldo per limitarsi ai due più iconici degli ultimi decenni, mancava sino a oggi ogni sua seria, approfondita ricostruzione storiografica. Un’autentica storia, capace di superare l’aneddotica con cui si è in genere sempre trattato il problema banalizzandolo.
A farne finalmente il punto, un punto fermo vien da soggiungere, provvede questo prezioso volume corroborato da un robusto apparato bibliografico e archivistico. Di Molinari e Toni ricordiamo un brillante lavoro sul ’68 dello sport italiano nel quale traspariva la loro cura nel maneggiare la storia sociale e politica, rendendo con persuasività il quadro d’una stagione densa di movimenti, conflitti, contestazioni che seppero contaminare la stessa – per atavica e falsa vocazione neutrale – dimensione sportiva. L’identica cifra affiora in I migranti del pallone. I calciatori stranieri in Italia. Un secolo di storia che offre una rilettura critica davvero esauriente di questo tema, il cui svilupparsi, come detto, alterna continuità e rotture determinati dalle condizioni politiche ed economiche salienti della realtà italiana e dai suoi rapporti col più vasto contesto europeo e internazionale. Una dialettica intensa fatta via via di aperture e chiusure, liberismo e protezionismo, pesanti interventi delle istituzioni di governo (il famoso “veto Andreotti”) e di quelle sportive. Ne emerge un affresco che racconta, tramite la lente dei calciatori e allenatori esteri approdati in Italia, una convincente storia della società e del costume nazionali. Dal razzismo sempre minimizzato o negato (mirabili in questo senso le pagine dedicate ai tecnici ebrei colpiti dalle leggi antisemite del 1938, alla triste vicenda del calciatore brasiliano Germano de Sales negli anni ’60, agli atteggiamenti razzisti e discriminatori di molte curve ultrà odierne) all’uso politico del pallone da parte di presidenti d’assalto in cerca di visibilità, popolarità e consensi elettorali (Achille Lauro e l’acquisto dello svedese Hasse Jeppson, costato nel 1952 oltre 100 milioni di lire e ribattezzato dai tifosi partenopei ’O Banco ‘e Napule; Silvio Berlusconi e i tre olandesi Gullit-Rijkaard-Van Basten, ecc.), sino al “caso Zico”, precursore di quelle spinte ora secessioniste ora federaliste che da lì a breve avrebbero iniziato a propagarsi e far proseliti nelle ricche regioni del Nord-est e del Nord-ovest.
I migranti del pallone, in conclusione, aiuta a capire meglio il calcio, le sue tendenze e contraddizioni storiche, e dimostra quanto questo “gioco”, a sua volta, possa concorrere a spiegare in modo efficace ed emblematico il nostro Bel Paese.