Italo Calvino. Impegno letterario e impegno politico

Quale impegno letterario, e quale impegno politico, attraversa le pagine di Le città invisibili? In che modo le opere di Calvino sono intrise di una profonda politicità? Per il centesimo anniversario della nascita di Italo Calvino, Scenari propone un estratto di L’atlante dell’immaginario. Un viaggio attraverso Le città invisibili di Italo Calvino di Dario Lanzetti.

...a ogni secondo la città infelice contiene una città felice che nemmeno sa d’esistere. [1]

In una conferenza tenutasi nel 1976, Calvino affronta il delicato tema degli usi politici giusti e sbagliati della letteratura. Gli avvenimenti occorsi durante gli anni Sessanta hanno condotto a un profondo cambiamento nel significato di molti concetti con cui si aveva a che fare e, sebbene a distanza di una decina d’anni non gli sia possibile prevedere a cosa porterà questo cambiamento, quel che è certo è che c’è stata una svolta intellettuale, una rivoluzione della mente. Calvino riassume questo processo dicendo che l’idea di uomo come soggetto della Storia è finita. Quest’uomo è stato detronizzato da un antagonista che si deve ancora chiamare uomo, ma che è ben diverso da com’era prima, è “il genere umano dei “grandi numeri” in crescita esponenziale in tutto il pianeta, l’esplosione delle metropoli, l’ingovernabilità della società e dell’economia a qualsiasi sistema esse appartengano, la fine dell’euro-centrismo economico e ideologico, e la rivendicazione di tutti i diritti da parte degli esclusi, dei repressi, dei dimenticati, degli inarticolati.” [2]

A fronte di uno sconvolgimento di tali proporzioni, non c’è d’aspettarsi molto da una letteratura della negazione, che invece di cercare di proporre una svolta, di dare un insegnamento positivo, si accontenta d’essere un mero segnale del punto in cui siamo giunti. 

Vi è un paradosso nella letteratura: pare che essa mostri i suoi veri poteri di sfida all’autorità soltanto quando è perseguitata, mentre nella permissiva società contemporanea tende a limitarsi a proporre qualche gradevole contrasto in un panorama d’inflazione verbale generalizzata. Vivendo in una situazione di libertà letteraria, sappiamo che a questa corrisponde un contesto sociale in continua mutazione. Ciò che conta è quindi il rapporto tra messaggio e società, anzi, più precisamente, tra il messaggio e la possibilità di creare una società che lo riceva. 

Calvino intende la letteratura come uno strumento di autoconsapevolezza del corpo sociale, non l’unico, certo, ma essenziale, giacché le sue origini si connettono alle origini di vari tipi di conoscenza, di codici e di forme della capacità critica dell’uomo. Essa è come un orecchio in grado di ascoltare al di là del linguaggio che la politica intende, o come un occhio che può vedere una scala cromatica più ampia di quella che la politica percepisce, perché allo scrittore, proprio grazie all’individualismo solitario che il suo lavoro implica, può capitare di esplorare zone, dentro di sé o fuori di sé, che nessuno ha esplorato prima, di fare scoperte che prima o poi si riveleranno campi essenziali per la consapevolezza collettiva. [3]

L’utilità sopra descritta non è sempre intenzionale. Un tempo si vedeva la letteratura come uno specchio del mondo o come una diretta espressione dei sentimenti di chi scrive, oggi sappiamo che “ciò che i libri comunicano resta talvolta inconscio allo stesso autore, che i libri dicono talvolta qualcosa di diverso da ciò che si proponevano di dire, che in ogni libro c’è una parte che è dell’autore e una parte che è opera anonima e collettiva”. [4]

Questo genere di consapevolezza può essere utile anche alla politica, può farle prendere coscienza di quanto di essa è solo mito, costruzione verbale, topos letterario, può aiutarla a conoscere se stessa e innanzitutto a diffidare di se stessa, perché quando ci rendiamo conto delle nostre motivazioni segrete, abbiamo già cominciato a metterle in crisi; da questo momento l’importante è il modo in cui le accettiamo e viviamo la loro crisi. Questa è infatti l’unica possibilità che abbiamo per diventare diversi da come siamo, l’unica condizione in cui possiamo provare a inventare un modo nuovo di essere. [5]

Le città invisibili nasce in un’epoca in cui, certamente a Parigi dove viveva Calvino, ma non solo, si respirava politica a pieni polmoni, soprattutto negli ambienti intellettuali, e non c’è da stupirsi che il romanzo abbia suscitato nel tempo diverse letture in tale chiave. 

Che cosa sarebbero queste città invisibili se non fosse per l’attrito che provocano nel confronto con quelle visibili del presente, città che, più che abitare, siamo costretti ad abitare, ormai ridotte a un intrico di segni merceologici, verbali e corporali, dove ciascuno parla per non ascoltarsi e vive per non ricordarsi di vivere? È proprio questo attrito, sottolinea Bonura, questa occulta frizione sullo sfondo della lettura che conferisce all’opera un’impalpabile e struggente bellezza. [6]

Se leggessimo questo romanzo con candido trasporto, esso ci restituirebbe di sé un’immagine monca, o peggio, fiabescamente consolatoria. Una lettura appropriata ci mostra invece che non c’è problematica attuale che non vi trovi spazio, pur sempre nei termini metaforici e ambigui che caratterizzano l’espressione artistica. 

Procedendo con la lettura, ci accorgiamo di scendere, all’interno del “corpo” del libro, “dalla testa ai piedi, quasi obbedendo al desiderio marxiano di riportare la speculazione filosofica alla terra facendola precipitare dal cielo, dove l’avevano confinata gli idealisti tedeschi”. [7] Non è un caso che le “città” dell’ultimo capitolo sono le più somiglianti alle città del presente, città orribili, spersonalizzate, inabitabili ma abitate per forza d’inerzia, nonostante tutto. 

Pasolini vede ne Le città invisibili l’opera di un uomo anziano, che ha vissuto “l’esperienza dell’aver visto passare la vita, [il che] equivale all’esperienza dell’aver visto passare tutta la possibile vita, la vita del cosmo” [8]. Per questo motivo il futuro si allarga smisuratamente e tutte le proporzioni del reale, la sua razionalità e la sua morale non contano più. 

Non sono solo i desideri ad essere divenuti ricordi, ma ogni strumento intellettuale per vivere: nozioni, notizie, informazioni, esperienze, ideologie e logiche. Decaduta ogni illusione culturale, ciò che però rimane a Calvino è la sua cultura, che fornisce il materiale, in forma di ricordi, con cui può esprimere il nuovo mondo, quello che ora vedono i suoi occhi abbacinati di vecchio-ragazzo seduto sul muretto. Questa cultura “sopravvissuta” include tutto, compreso il marxismo, con la sua retorica e le sue esigenze praticistiche d’intervento, perché è soprattutto questo che, secondo Pasolini, il libro ingloba, nega ma non abiura. 

Egli ritiene che l’autore abbia voluto semplicemente immergere l’idea di una Città Migliore, conquistata, mettiamo, con la vittoria della lotta di classe, in una diversa idea, non della storia, ma proprio del tempo. Inoltre rileva che molte delle città da lui sognate ad un certo punto raggiungono la perfezione e il fatto che poi la riperdano è un discorso che riguarda le generazioni di un remoto futuro. Immersa in un consapevole disincanto, la sua cultura personale, pur sotto forma d’illusione, “ha raggiunto la perfezione formale di un oggetto, di un meraviglioso fossile”. [9]

Certamente, osserva Falaschi, Calvino non ha mai creduto che il capitalismo sia in grado di razionalizzare la società, “che sia un meccanismo perfetto in cui ogni opposizione è apparentemente tale (questa specie di teoria è propria, tra gli altri, di scrittori irrazionalisti e neodecadenti come Pasolini, […] al contrario ha parlato di anarchia capitalistica” [10], mostrando invece grande consapevolezza della realtà delle contraddizioni interne a questo sistema. 

A distanza di anni è più facile considerare la prospettiva politico-sociale de Le città invisibili al di fuori dell’opposizione marxismo-capitalismo: se si prende ancora in considerazione Leonia, mostro destinato a sommergere il futuro, che più di altre ha attirato l’attenzione dei critici, il problema sembra piuttosto riguardare il rapporto tra uomo e mondo. La mostruosità di Leonia è il frutto amaro di una eventuale futura fase terminale del consumismo, riflesso sì dell’individualismo che la cultura capitalista si porta come corollario, ma ancor più profondamente dell’antropocentrismo, bersaglio contro cui, come si vedrà, Calvino non ha mancato di scagliarsi esplicitamente. 

La figura del percorso 

Se si considera l’evoluzione del punto di vista “interiore” che si può scorgere tra le righe di ogni singola città, si può notare che muove dalla sfera del singolo soggetto, dove domina una sensazione del fluire della vita, del rischio di ritrovarsi a non averla vissuta appieno; in seguito si sposta gradualmente verso l’ambito intersoggettivo, degli archetipi e dell’immaginario collettivo, fino a prendere in considerazione problematiche ancor più vaste, relative al genere umano nel suo rapporto con la natura. [11] L’ordine tematico suggerito dalla serie delle rubriche accompagna questo percorso: la memoria e il desiderio, elementi costitutivi del soggetto, sono le prime due. Poi vengono le città e i segni e quelle sottili, in cui il soggetto incontra l’altro: seguono gli scambi. Le città e gli occhi è la rubrica in posizione centrale, poi il nome, già in una sfera intersoggettiva che presuppone un riconoscimento collettivo. A queste fanno seguito le città e i morti, che ci connettono con quelle del cielo. Le ultime due rubriche si allargano ulteriormente verso altre dimensioni: le città continue, mostri di alienazione disumanizzante, e quelle nascoste, dove possiamo scorgere le tracce dell’“utopia” di Calvino. 

Un analogo percorso dal microcosmo al macrocosmo si riscontra nell’ordine da 1 a 5 delle città all’interno della stessa rubrica: Diomira (Le città e la memoria. 1.) contiene tutto ciò che il viaggiatore ha già visto altrove, Zaira (Le città e la memoria. 3.) è fatta di “relazioni tra le misure del suo spazio e gli avvenimenti del suo passato” [12], mentre a Maurilia (Le città e la memoria. 5.), protagonista è la memoria stessa della città: al visitatore vengono mostrate allo stesso tempo la città com’è oggi e le cartoline che la ritraggono com’era prima. 

All’altro capo della serie delle rubriche, Olinda (Le città nascoste. 1.) nasce costantemente nuova al centro invece che alla periferia, ma nella sua descrizione non si trova alcun elemento che non sia neutrale, quasi didascalico: gli emblemi sono quelli della vita quotidiana. In Marozia (Le città nascoste. 3.), troviamo ancora il tema della relazione, anche qui associato al numero 3, la posizione centrale, ma nel regno animale: le due città che la compongono, quella del topo e quella della rondine, cambiano nel tempo; ma ciò che non cambia è il loro rapporto. Ultima, Berenice (Le città nascoste. 5.), è una città matriosca che alterna infinitamente una città dei giusti dentro quella degli ingiusti, o viceversa. 

D’altra parte, come osserva Barenghi, la struttura fondamentale per Calvino non è il labirinto, che cerca di sfidare, ma il reticolo, l’intrico, che a sua volta è frutto dell’elaborazione intellettuale di un’attitudine percettiva a lui peculiare: la tendenza a cogliere la realtà prestando particolare attenzione ai suoi aspetti dinamici. 

La figura del percorso, che, per accumulo di alternative poste dalla molteplicità del reale, si ramifica in quella di intrico e poi, per mancanza di prospettive storiche, si metastatizza in quella di labirinto, non è altro che “la traduzione in termini figurativi dell’idea di progetto. Progetto significa sostanzialmente azione” [13], ribadendo ancora una volta quel primato del fare sull’essere che Calvino condivideva con Pavese e Vittorini. 

In tale agire, tuttavia, la volontà non è libera in senso assoluto, bensì deve sottoporsi ad una ragione il cui compito risiede innanzitutto nel salvaguardare “il principio di realtà […] e quindi l’attrito con la realtà stessa, la polarità dialettica e tensiva fra la soggettività del giudizio e dei fini individuali e l’oggettività del dato sociale e storico”. [14] L’azione è per l’autore la prova per antonomasia, cammino iniziatico che conduce ad una dimensione adulta dell’esistenza, già in precedenza trasfigurato narrativamente attraverso la fiaba. 

Osservando il lavoro dell’ebanista, la grana del legno, le sue porosità e anomalie, la quantità di cose che Marco Polo scorge nel quadratino della scacchiera sommerge sia il Kan sia il lettore, entrambi impegnati nel titanico tentativo di ricondurre una volta per tutte la molteplicità degli emblemi a un senso stabile, definito. La libertà, completa e senza restrizioni, che Calvino ci propone, ci costringe per sua natura a rinunciare a un ordine precostituito e rassicurante: “dobbiamo comporre e ricomporre senza sosta le infinite direzioni del possibile che il testo promuove”. [15]

D. Lanzetti, L’atlante dell’immaginario. Un viaggio attraverso Le città invisibili di Italo Calvino (Mimesis Edizioni, 132 pp., 14€, 2017)

Il problema trattato ne Le Città invisibili non è perciò quello della scrittura, bensì quello del testo che il soggetto deve ogni volta affrontare, un problema di scelte, direzioni e strutture su cui quella coscienza è di volta in volta chiamata a decidere. [16]

A proposito del ruolo della “prova” e della scelta, così come dell’idea di progetto all’interno dell’opera calviniana, Barenghi ritiene pertinente esclusivamente una divisione di ordine temporale: vi è un primo momento in cui una prova che possa realmente segnare il destino di un individuo si offre come possibilità effettiva, superabile benché impegnativa. “Poi le barriere s’innalzano, le strade si confondono, scompaiono prima i margini positivi di successo, poi gli stessi presupposti di un esame in cui l’individuo possa esprimere le proprie capacità” [17].Non si danno più strade da percorrere, ma un groviglio intricato di segni, indicazioni senza senso che la ragione può solo provare a ordinare e classificare, cercando la regola che le ha prodotte. 

A mano a mano che questa parabola si consuma, emerge significativamente a più riprese un sobrio quanto struggente rimpianto per quel momento iniziale, gravido di tutte le scelte possibili, in cui era ancora possibile compiere un atto autentico, il cui significato fosse in perfetto accordo con l’affermarsi di una individualità personale e irripetibile, emblematicamente rappresentata dal segno nello spazio tracciato dal Qfwfq delle Cosmicomiche

Con l’allontanarsi degli echi delle illusioni ormai perdute del dopoguerra, le raffigurazioni di quella prova iniziale, gravida di potenzialità, si fanno sempre più remote e astratte, ma si fa al contempo “anche più intransigente il rifiuto della nostalgia privata, elegiaca e regressiva, e quindi ineludibile il ricorso a situazioni narrative poco “realistiche”, non compromesse con una realtà più vischiosa che concreta” [18].

La crisi dell’idea di progetto non sfocia perciò in una fuga nel passato, nella memoria. Si traduce, invece, in un rinnovato impegno costruttivo finalizzato a calcolare e a cercare una possibile rappresentazione di tutte le concatenazioni e combinazioni possibili, iniziando proprio dai percorsi della scrittura. 

Alle riflessioni sulla letteratura come fatto combinatorio e agli interessi per la semiologia, si affianca a più riprese in Calvino un altro motivo, del quale gli oggetti-segni, o emblemi, sono la più clamorosa manifestazione: è la sua volontà di comunicare, lo sforzo di stabilire un contatto dialogico a diversi livelli, di far riflettere su ciò che è umano anche nel momento in cui le condizioni esteriori diventano ostili [19].

Chi parla o chi scrive può, attraverso l’intensità della sua voglia di comunicare, caricare di senso gli oggetti e farli così diventare simboli. La scelta di questo modulo espressivo conferma il carattere tensivo, energetico della concezione calviniana della realtà; e ribadisce la centralità della nozione di progetto, come rifiuto da un lato del soggettivismo sterile e ripiegato su di sé, dall’altro, di un’oggettività indifferente, estraniante, amorfa, in cui l’io non sa riconoscersi come tale, perché non sa imprimervi un contrassegno autenticamente umano [20].

Non c’è da stupirsi che l’autore ricerchi la manifestazione dell’umano proprio nei suoi punti di attrito con il non-umano, non già dove si mescolano, ma proprio dove il contrasto tra i due termini è più esplicito e stridente. Se l’individuo è tenuto a superare delle prove per realizzarsi e farsi artefice del proprio destino, dovrà innanzitutto sopravvivere all’impatto con il “mare dell’oggettività”, resistervi mostrando di saper fare tesoro di tutte le armi di cui dispone. Ciò che contraddistingue l’essere umano è infatti un nocciolo duro di volontà, di lucida ed energica tensione progettuale, che dovrà anche imparare ad accogliere le sue debolezze, imperfezioni e mancanze, ma che non potrà mai tradire la propria natura. 

Calvino è dunque coerentemente giunto al termine di una parabola: egli constata, nella società che lo circonda, una paralisi che si estende ben oltre l’ambito strettamente individuale, ragion per cui le sue opere, incluse le più rarefatte, mostrano tutte una peculiare, intrinseca politicità, tratto distintivo e qualificante anche agli occhi dei suoi lettori [21].

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[1] I. Calvino, Romanzi e racconti, cit., vol. II, pp. 495-496. 
[2] I. Calvino, Saggi, cit., vol. I, p. 352. 
[3] Cfr. ibid., pp. 357-359. 
[4] Ibid., p. 360. 
[5] Cfr. Ibid.
[6] Cfr. G. Bonura, Le città invisibili ovvero il “corpo” di Calvino, «Uomini e libri», IX, 1973, p. 28. 
[7] Ibid., p. 29. 
[8] P. P. Pasolini, Descrizioni di descrizioni, «Tempo», 28 Gennaio 1973, p. 36. 
[9] Ibid., pp. 36-37. 
[10] G. Falaschi. Italo Calvino, cit., p. 603. 
[11] Sul tema dell’iter dalla dimensione soggettiva a quella storica, cfr. F. Bernardini Napoletano, I segni nuovi di Italo Calvino, cit., pp. 178-179. 
[12] I. Calvino, Romanzi e racconti, cit., vol. II, p. 365. 
[13] M. Barenghi, Italo Calvino e i sentieri che s’interrompono, cit., p. 135. 
[14] Ibid. p. 136.
[15] M. Lavagetto, Le carte visibili di Italo Calvino, cit., p. 143
[16] Cfr. Ibid.
[17] M. Barenghi, Italo Calvino e i sentieri che s’interrompono, cit., p. 137.
[18] Ibid.
[19] Cfr. Ibid., p. 141.
[20] Ibid., p. 142.
[21] Cfr. ibid., pp. 143 e 149. 


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