In questi giorni si sta svolgendo la 59a edizione della Mostra internazionale del Nuovo Cinema di Pesaro. Il festival, nato nel 1964 da un’idea di Lino Miccichè e Bruno Torri, è da sempre attento al cinema dei margini e alle cinematografie diverse e indipendenti. Il ricco programma di quest’anno alterna visioni per il grande pubblico, come l’omaggio al cinema di Tornatore, al cinema di ricerca, come ad esempio le Lezioni di Storia dedicate ai film sperimentali di Romania, Polonia e Ungheria, curate da Federico Rossin, o il concorso internazionale, composto quest’anno da 16 film, tra i quali soltanto tre della durata superiore a un’ora. Di quest’ultima sezione ne abbiamo parlato con Raffaele Meale e Cecilia Ermini, membri del comitato di selezione assieme a Paola Cassano, Federico Rossin e Pedro Armocida.
Quali sono i criteri di selezione dei film in concorso? Oltre ai film che si sono iscritti, quali sono i circuiti dai quali attingete per costruire il programma?
RM. I film iscritti sono sempre una cifra notevole, data dal fatto che la competizione è aperta a film di ogni durata e formato. Quest’anno per la prima volta abbiamo collaborato con due pre-selezionatrici che ci hanno aiutato nello scegliere i film più adatti al festival tra quelli pervenuti. Il nome stesso del festival – la Mostra del Nuovo Cinema – dà un’idea della direzione che intraprendiamo nel processo di selezione dei film. Il concorso è formato quindi in piccola parte dai film iscritti e dai film che scegliamo.
CE Nel 2021, ad esempio, il film vincitore (Un Bananero no es casualidad di Luiza Gonçalves) si era iscritto spontaneamente e l’abbiamo scoperto così. A volte invece capita che un film che attrae la nostra curiosità si iscriva indipendemente, a dimostrazione del fatto che alcuni registi vedano il festival di Pesaro come lo spazio adatto per mostrare i loro lavori.
RM Per quanto riguarda i nostri bacini di riferimento, ormai abbiamo rapporti consolidati con determinati autori ma anche con determinate realtà. Ad esempio il Collectif Jeune Cinéma di Parigi o altri festival di ricerca, a cui prestiamo sempre molta attenzione, non per copiare ovviamente ma perché questi sono gli spazi in cui un determinato tipo di cinema viene mostrato. Alcuni film invece sono di autori che magari abbiamo scartato negli anni scorsi per problemi di spazio ma che secondo noi meritano di essere mostrati al pubblico di Pesaro. In questo modo riusciamo a mappare un territorio che diventa sempre più frammentato.
CE Ci sono alcuni festival che hanno un’attitudine simile a quello di Pesaro, ovvero tentare di promuovere i nuovi modi di espressione attraverso l’immagine ed essere allo stesso tempo una testimonianza di un cinema in continua evoluzione. Oltre al Festival des Cinémas Différents et Expérimentaux de Paris organizzato dal già citato Collectif Jeune Cinéma, guardiamo anche all’Inghilterra dove si svolge il Berwick Film and Media Arts Festival o al festival S8 de La Coruña che hanno una missione simile. Inoltre, come sottolinea Raffaele, alcuni autori erano già stati a Pesaro con la loro opera prima e sono tornati a presentare il loro secondo lavoro, in continuità con ciò che la Mostra del Nuovo Cinema di Pesaro è stata fin dall’inizio, agevolando il lavoro degli autori in cui credeva, soprattutto quelli che provenivano da zone del mondo poco battute come l’America Latina, dalle quali non arrivava nulla in Italia. Questo legame con la tradizione si è mantenuto e quindi continua l’attenzione per cinematografie che ancora, a distanza di anni, hanno bisogno di essere esplorate, magari anche retrospettivamente, anche se quest’ultimo è un lavoro che fanno altri curatori.
Da qualche anno nel concorso non fate distinzione tra corti, medi o lungometraggi e tra formati. Com’è nata questa formula ibrida? Rispetta la vostra idea di cinema?
RM Oltre alla nostra idea di cinema, credo che selezionare film con diverse durate a formati sia una condizione sine qua non. Volendo lavorare su un certo tipo di cinema che esplori il linguaggio e le possibilità di visione e di racconto attraverso le immagini, non si può pensare di affidarsi solo al lungometraggio, un forma cinematografica che produttivamente comporta determinate scelte. A volte ci si imbatte in due o tre lungometraggi che sono adatti al concorso, ma non sarebbe possibile concepire un concorso fatto solo di lunghi. Secondo me non è un caso che nelle ultime due edizioni abbiano vinto due cortometraggi, anche se ovviamente non è stata una nostra scelta dato che le giurie sono libere di premiare il film che reputano migliore. È evidente però che una mostra del nuovo cinema non possa esimersi da contemplare film di qualsiasi durata e che una certa tipologia di cinema debba esplorare diverse distanze affinché il lavoro di noi curatori non diventi asfittico.
CE Tra l’altro l’idea di inserire film di qualsiasi durata è venuta al direttore del festival Pedro Armocida e anche altri festival come il Filmaker a Milano e il Cinéma du réel a Parigi non hanno barriere in questo senso. Fino a qualche anno fa il regolamento ci vincolava a scegliere opere prime e soltanto lungometraggi, ma questo si è rivelato un forte limite. Come si fa a testimoniare di un cinema in evoluzione perenne focalizzandoci solo sui lunghi? Inoltre i lungometraggi di oggi sono co-produzioni che coinvolgono un vasto numero di case di produzione, o vengono alla luce grazie a fondi vinti nei pitch, alle varie academy dei festival che inevitabilmente influenzano il cineasta e lo indirizzano a rispettare determinate strutture per le quali hanno ottenuto un determinato finanziamento. Quest’anno invece, osservando i film in concorso a Pesaro, la maggioranza di questi è stata prodotta senza questa sorta di intermediari, e sta lì la testimonianza di un cinema libero. Il nostro lavoro è appunto quello di mettere insieme un programma che presenti opere nuove che dialoghino fra loro ma che allo stesso tempo abbia una certa coerenza interna.
Cosa vedremo quest’anno? Introducendo il programma Federico Rossin ha parlato di “cartografia del cinema contemporaneo”…
RM: Le categorie di film che si muovono in direzione della nostra ricerca tendono spesso a replicarsi, ci sono sono dei film che possono assomigliarsi, e per cercare di mantenere uno sguardo più ampio possibile sul panorama, e avendo un numero di programmazione limitato alla durata del festival, ci siamo dati come indirizzo quello di non sovrapporre troppo i vari immaginari. Per fare giusto qualche esempio tra i film visti finora, Howling di Awa Kawazoe, The Apocalyptic is the Mother of all Christian Theology di Jim Finn e Unabridged Maneuver di Bruno Delgado Ramo sono tre modi totalmente diversi di lavorare con le immagini, ma ci permettono di testimoniare l’ampiezza di linguaggi presenti nel nuovo cinema contemporaneo. Per noi è difficile avere dei film con delle narrazioni canoniche perché di solito non si spingono nella direzione che ci interessa. Ci riuscimmo qualche anno fa con A Metamorfose dos pássaros di Catarina Vasconcelos che poi vinse il concorso, ma fu una cosa rara. Quest’anno abbiamo dei film che ragionano sul rapporto tra alto e basso e in questo caso il film di Jim Finn è eloquente. Sono film che ci interessano perché rappresentano l’attività ludica del rapporto con le immagini, liberi da quel senso di ampollosità veicolata spesso da chi si fa un’idea sbagliata di nuovo cinema. Credo che sia difficile per gli spettatori quest’anno dire di essersi annoiati e che le opere in concorso dimostrino la freschezza del cinema di ricerca e della sua capacità di parlare al pubblico.
Uno dei temi emersi dal programma dell’edizione passata è stato quello dell’estinzione, e anche quest’anno nei film visti finora si respira un’aria di apocalisse, di un mondo che perde pezzi e inevitabilmente riflette sui modi di fare cinema;come se la scomparsa del cinema come lo conosciamo lasci spazio alla nascita di altre forme di narrazione tramite le immagini. È ciò che avevate in mente durante la stesura del programma?
CE La costruzione del programma è stata sempre in divenire. Noi siamo già partiti prima del bando da film che avevamo visto in alcuni festival o ci erano stati segnalati da altri curatori, ma non avevamo un tema specifico in mente e non volevamo necessariamente restituire un’immagine di ciò che sta succedendo nel mondo. È ovvio però che la volontà di intercettare ciò che di nuovo viene proposto nel mondo delle immagini in movimento ci porta a trovare film che nella loro diversità dialogano in questo modo, magari a discapito di opere che dal punto di vista filmico siano più suggestivi o interessanti.
RM Ovviamente certe scelte nella selezione sono anche influenzate dal punto di vista pratico, può accadere che alcuni film che noi vorremmo presentare in concorso non possano o non vogliano essere mostrati per volontà dell’autore. Il processo è sempre in divenire e non potremmo mai impostarlo attorno a un tema come può essere ad esempio il deperimento della pellicola.
CE È stato però interessante constatare come l’anno scorso cineasti importanti come Carlos Casas e Rita Azevedo Gomes, presenti in giuria, abbiano sottolineato l’emergere di certi temi nel discorso di motivazione al premio del miglior film a Les images qui vont suivre n’ont jamais existé di Noé Grenier e alla menzione speciale a Herbalia di Lisandro Listorti. Anche gli studenti in giuria continuarono a stupirci per il loro acume, che col premio a un film complesso come Festina Lente di Baya Medhaffar hanno compiuto un piccolo atto di resistenza.
Questa tensione fra l’estinzione e il nuovo che emerge pone una domanda fondamentale sul futuro del cinema. Come lo immaginate? Pensate che i film in concorso quest’anno facciano parte del cinema dell’avvenire e possano quindi avere un pubblico più vasto?
RM Forse bisognerebbe fare una distinzione tra i vari tipi di cinema. Il cinema attuale che si vede nella maggior parte dei festival più importanti, anche quello più interessante, è frutto di dinamiche che potremmo sintetizzare con la parola loghificio. La ricerca del logo, e quindi di un finanziamento, si riflette nei titoli di testa dei film, ormai zeppi dei loghi delle istituzioni che hanno concesso dei fondi in fase di produzione. A noi ad esempio questo tipo di cinema non interessa, nonostante a volte produca delle buone opere, e siamo alla ricerca di film che siano più liberi, non essendo prodotti di mercato. Questa secondo me è la distinzione maggiore. Credo che i film che abbiamo presentato possano influenzare anche un cinema più commerciale, ma non è detto, e non credo sia necessariamente importante, che lo facciano. Negli anni ‘70, ad esempio, il cinema underground dimostrava altre vie possibili e il cinema cosiddetto mainstream attingeva da pratiche più avanguardiste, sia dal punto di vista visivo, sia cooptando i registi in produzioni più grandi. Questo rapporto osmotico tra i vari strati del cinema, al quale contribuiva anche la nuova Mostra del cinema di Pesaro mostrando un cinema meno visibile, ora si fa più complicato. Il cinema mainstream è ormai completamente avulso dal cinema underground, essendo diventato un mero ciclo produttivo concentrato sulla ricerca di finanziamenti che fa passare il film in secondo piano. Negli ultimi cinque anni i film più noti che abbiamo selezionato in concorso sono stati What Do We See When We Look at the Sky? di Alexandre Koberidze e il già citato A Metamorfose dos pássaros che addirittura fu la scelta portoghese per l’Oscar come miglior film straniero. Quella del Portogallo fu una scelta atipica rispetto ad altre nazioni europee dove ormai c’è uno scollamento enorme tra cinema popolare e cinema di ricerca, e la maggior parte dei film più importanti sono ormai prodotti ministeriali che dipendono dai finanziamenti delle istituzioni. Anche la durata dei film che selezioniamo non rientra nelle logiche distributive. Quest’anno abbiamo solo tre film superiori alla durata di un’ora, e dei tre solo Ciompi di Agnès Perrais potrebbe essere distribuito in Francia, mentre gli altri non sono distribuibili. Questo è dato dalla disaffezione del pubblico a pensare che esista un cinema diverso. Se un film come Broken View di Hannes Verhoustraete uscisse in sala domani, non solo probabilmente la gente non correrebbe a vederlo ma una parte del pubblico non saprebbe come “maneggiarlo”. Allo stesso tempo credo che l’interesse per un cinema diverso sia ancora molto vivo, come dimostrano le sale piene per le lezioni di storia di Federico Rossin che mostra il cinema d’avanguardia d’oltre cortina durante il periodo sovietico. La responsabilità di un festival come Pesaro è appunto quella di dare spazio a un certo tipo di cinema, di tutelarlo, e di renderlo più popolare.