Abbiamo incontrato Eugenio Finardi nella sua casa di Milano, che sorge non lontano dal luogo in cui, come lui stesso racconta, Roberto Vecchioni fu ispirato per Luci a San Siro. L’occasione dell’incontro è nata grazie al suo ultimo album Euphonia Suite e al tour a esso collegato, che segnano settant’anni di vita e cinquant’anni di carriera. Una conversazione di ampio respiro in cui si sono toccati gli argomenti più vari, dall’infanzia all’essere artista, dai suoi successi a un’attenta analisi della musica di oggi, da ciò che ha visto cambiare in cinquant’anni di carriera sino ad arrivare ai suoi progetti futuri e al suo interesse per la trap. Una vita, la sua, dedicata alla musica che non ha bisogno di presentazioni, guidata dall’unica imposizione di una necessità espressiva e artistica.
A ottobre dello scorso anno è stato pubblicato il tuo ultimo album, Euphonia Suite, che ti vede protagonista con Raffaele Casarano ai sassofoni e Mirko Signorile al pianoforte. Come e quando nasce l’idea di questa collaborazione?
Da anni Raffaele Casarano organizza il Locomotive Jazz Festival a Sogliano Cavour, in provincia di Lecce. Nel 2012 Raffaele mi ha invitato al festival proponendomi di fare una serata in cui il suo quintetto avrebbe improvvisato dei pezzi in jazz insieme con me. L’incontro è andato molto bene, anche se non mi sono trovato particolarmente a mio agio con la timbrica del quintetto jazz, e comunque con quella stessa formazione abbiamo poi fatto altre serate, per esempio al Blue Note di Milano. Da allora sono tornato in Puglia quasi ogni anno e ci siamo trovati spesso a suonare ancora insieme con Raffaele e Mirko; l’intesa tra di noi è andata affinandosi via via sempre di più, ogni volta crescevano la fiducia reciproca e lo scambio di idee. Poi è arrivato il Covid e di conseguenza il lockdown. L’ultima data prima della chiusura, il 21 dicembre 2019 al Nuovo Teatro Verdi di Brindisi, è stata una serata bellissima. Per puro caso, lasciando il telefono appoggiato sul leggio, avevo registrato il concerto che poi ho riascoltato durante il lunghissimo silenzio del lockdown; altre musiche più ritmiche che avrei ascoltato normalmente in quei momenti così particolari mi sembravano eccessive e fuori luogo. Durante questi ascolti a un certo punto ho tolto il parlato e mi è venuta l’idea della suite, una forma che mi ha sempre affascinato moltissimo per l’andare di quadro in quadro senza seguire canonicamente schemi prefissati, come quello della forma sonata, e divertendomi a giocare con i cambiamenti di tempo e di atmosfera. È nata così Euphonia Suite, un viaggio non solo musicale ma anche emozionale, la cui ispirazione iniziale proviene dal Köln Concert di Keith Jarrett, che con Raffaele e Mirko ascoltavamo spessissimo in viaggio tra un concerto e l’altro.
Euphonia Suite è un viaggio in 17 tappe, parte da Voglio e arriva a Extraterrestre. Un flusso ininterrotto di musica, proposto anche in un lungo tour dal vivo, che ripercorre diversi momenti della tua carriera accostando alcuni dei tuoi brani più celebri a due omaggi a Battiato e Fossati. Come hai scelto le canzoni?
In realtà le canzoni si sono scelte da sole. Abbiamo sempre iniziato da Voglio perché ha un’introduzione classicheggiante e sognante, che crea una specie di astrazione perché ti chiede di passare immediatamente a un altro livello di ascolto e poi perché parte dall’infanzia, con “Da piccoli ci hanno insegnato…”, e abbiamo sempre finito con Extraterrestre e il suo “Voglio tornare per ricominciare”. In questa narrazione ci sono i miei cinquant’anni di vita, mi piaceva l’idea di dare una circolarità alla storia e volevo che si potesse iniziare ad ascoltare da metà e tornare comunque allo stesso punto. Nasce come un disco utile, per guarire, un po’ come per gli antichi cinesi che consideravano la musica non un’arte ma una medicina. Volevo che Euphonia Suite avesse questo effetto, che a un certo punto fosse eccitante per toglierti dalla malinconia, poi sognante, poi riflessiva e così via…
In questo periodo stai continuando il tour. Vi ho ascoltato due volte dal vivo e l’impressione è che la tua voce si fonda ancora di più con i due musicisti rispetto al disco…
Ti sarai accorta che nessun concerto è uguale all’altro, ogni volta cambiamo qualcosa e ci lasciamo ispirare dal momento. Io vorrei che Euphonia Suite diventasse un format e che potesse evolversi magari con canzoni diverse, non solo italiane, e quindi con altre tematiche. Credo che il senso di fusione che hai notato in concerto sia dovuto soprattutto dalla dinamica alta e fissa della performance dal vivo, che permette di cogliere meglio anche le sfumature più sottili dell’interpretazione.
Euphonia Suite è un viaggio che raccoglie diversi stati d’animo. Ma tutta la tua discografia racconta in realtà di periodi di vita diversi, in La forza dell’amore l’innamoramento, in Occhi la fine di un amore…
Ho sempre avuto l’idea di fare musica che serve e mi sono reso conto che la maggior parte degli artisti è arrivata al successo grazie a una hit iniziale, La mia banda suona il rock per Fossati o Samarcanda per Vecchioni, e da lì è entrata nell’inconscio nazionale, come l’esultanza di Marco Tardelli nella finale dei mondiali del 1982. Io non ho mai ottenuto questo tipo di successo, se non forse con Extraterrestre che però è stato inizialmente un insuccesso – dicevano che avevo tradito Musica ribelle – per diventare il mio più grande successo soltanto nel 1990 con La forza dell’amore. Alle mie canzoni di solito ci si arriva col tempo, non è che sono lì, non le si sente al piano bar, nel momento in cui finisce una relazione è necessaria una canzone come Dopo l’amore oppure quando ti nasce un figlio è utile Amore diverso. Ogni tanto ti serve una canzone, io le scrivo perché mi servono e servono. Purtroppo non sono stato mai capace di fare calcoli e di scriverle a tavolino, ci vuole un talento particolare per farlo, per scrivere Sarà perché ti amo dei Ricchi e Poveri oppure Felicità di Al Bano o Funiculì funiculà. Questa è un’arte che non ho mai posseduto, se non forse per Patrizia e La radio, due canzoni che ho scritto per gioco: Patrizia per provare un delay che era appena arrivato in studio e registrare qualcosa con un ribattuto; La radio l’ho scritta invece su un tram della linea 11 con la chitarra, mentre stavo andando a fare la notte a Radio Milano Centrale. Forse i brani che ho scritto pensandoci di meno sono quelli che hanno avuto maggior successo, invece a volte quelli su cui ho lavorato di più li considerano in pochi, come una canzone che adoro, Il vecchio sul ponte, o tutti gli altri brani di Millennio che è uno dei miei dischi più misconosciuti.
L’album è uscito in un anno particolare per te: settant’anni di vita e cinquanta di carriera. Per festeggiare questo traguardo non hai scelto la solita antologia “Best of” ma hai deciso di dare vita veramente nuova ad alcune delle tue canzoni, cosa piuttosto insolita. È un atto di ribellione alle convenzioni e alle imposizioni del mercato musicale mainstream che riprende il discorso dell’album Acustica?
Non la vedo come una ribellione, io seguo l’ispirazione del momento. Essere artisti è sicuramente un privilegio ma è anche una condanna. Per essere artigiani occorre una grande abilità tecnica e ci sono quelli che sanno scrivere i successi, gli artisti invece sono condannati alla loro visione, all’urgenza di esprimerla: questa è la benedizione e insieme la maledizione dell’essere artista. Non ho mai scritto pezzi per seguire le mode, anche se un pezzo trap oggi mi piacerebbe farlo. Però è vero che Euphonia Suite riprende il discorso di Acustica, registrato nel 1992. Allora stavo vivendo un momento difficile, di svolta, e ho voluto rivedere la mia carriera, benché avessi appena fatto La forza dell’amore, dando nuova vita alle mie canzoni per cercarne l’essenza, per dare seguito alla voglia di ritrovare la voce e ritornare all’infanzia come nel caso di Katia, che ho scritto per quel disco, e di Jamaica Farewell. Acustica è un disco che ho molto amato. Da allora, ogni dieci anni, ho voluto fare il punto guardandomi indietro. Nel 2002 ho fatto Cinquantanni, nel 2012 Sessanta, fino ad arrivare a Euphonia Suite. Adesso mi chiederai: “Perché sempre con le stesse canzoni e non con degli inediti?” Il fatto è che nessuno vuole sentire nuove canzoni, vogliono Finardi con i suoi successi.
Questo lo trovo molto interessante, perché riproponi non le canzoni di altri ma i tuoi brani ogni volta in veste diversa…
È proprio così: sono sempre io, ma ogni volta con dieci anni di più, con maggiore esperienza, in un contesto storico diverso. A trent’anni non avrei avuto la consapevolezza e la capacità tecnica che ho oggi per riuscire a fare Euphonia. Questi album decennali sono un po’ come dei diari, degli specchi. Cinquantanni, forse il mio disco di minor successo in assoluto, mostrava un interesse per la novità dato che non aveva la batteria ma una base elettronica con campionamenti; queste scelte riflettevano alla perfezione come mi sentivo in quel momento. Nel periodo di Acustica, invece, stava finendo il mio primo matrimonio: è un disco riflessivo, forse anche malinconico. E adesso Euphonia Suite, con i miei settant’anni: non credo di essere mai stato così padrone della tecnica vocale ed è strano come nella vita si diventi veramente capaci di fare qualcosa quando non si è più veramente in grado di farla. Diciamo che dove prima arrivavo con la forza ora ci arrivo con la tecnica. E trovo molto poetico poter avere quattro dischi, a distanza di dieci anni l’uno dall’altro, con le stesse canzoni o addirittura, come nel caso di alcuni brani come Trappole, con innumerevoli versioni e letture completamente diverse.
Nella tua carriera non ti sei mai posto limiti, andando controcorrente e dimostrandoti molto aperto alla sperimentazione e alla fusione di vari generi e influenze (blues, rock, jazz, classica). Chi è Eugenio Finardi oggi e che progetti ha per il futuro?
Di solito non ascoltavo i miei dischi ma ultimamente mi capita di ascoltarli come si fa con le vecchie fotografie o mi accorgo che sono molto diversi a seconda dei musicisti con ho lavorato. Mi sono reso conto che il mio strumento sono i musicisti con cui ho suonato e il mio grande talento consiste nell’estrarre da loro il meglio, nel plasmare intorno a loro la mia musica. Sono riuscito a far diventare le mie canzoni come un liquido che si può versare in tante anfore diverse. Si può fare jazz, si può fare contemporanea e così via perché tutte le musiche sono fondibili. Ed è bellissimo. Euphonia Suite mi fa capire perché faccio questo mestiere, mi sento totalmente onesto sul palco. Oggi sono quello di Euphonia Suite ma sto anche preparando un altro Anima Blues. E sto scrivendo canzoni distrattamente, vorrei pubblicarle postume… Poi mi piacerebbe fare molte altre cose. Per esempio, mi piacerebbe avere l’occasione di cantare in napoletano e fare un disco alla Murolo, un’Euphonia Suite 2, incontrare altri musicisti che mi stimolino perché per me la musica è l’arte dell’incontro; magari mi capita di incontrare un armeno che suona il duduk e allora io tiro fuori il mio oud o il bouzouki irlandese, il problema è capire quando arriva l’onda giusta, come per i surfisti. Tu prima parlavi di un mio atteggiamento controcorrente ma in realtà io non ho mai voluto andare controcorrente, semmai è la corrente che ha preso un corso diverso dal mio. Se sono un outsider è perché è la musica a dominare me e non viceversa. Se non credo profondamente in ciò che faccio, tutto crolla come un castello di carta. Da qui naturalmente i miei rapporti non sempre facili con l’industria discografica…
Hai la musica nel DNA: tua madre era cantante, tuo padre ingegnere del suono…
Mio padre Enzo, ingegnere del suono, negli anni Trenta ha contribuito alla scelta del sistema di sonoro del cinema italiano. Mia madre Eloise invece era una cantante lirica e un’insegnante, quindi ho incominciato a sentire la musica già prima di nascere e da lei ho ereditato il dono preziosissimo della perfetta intonazione. Un dono preziosissimo ma anche limitante, perché non riesco a “stonare” e a cantare i quarti di tono. Anzi, addirittura il mio rapporto con le dissonanze della moderna, fino a quando non ho ascoltato Stravinskij e Schoenberg, è stato inizialmente complicato. In casa mia si ascoltava molta musica barocca e romantica, tant’è che all’esame di ammissione in Conservatorio mi diedero da preparare un pezzo da Mikrokosmos di Bartók e io corressi le dissonanze. Naturalmente non fui ammesso, mi urlarono “Ha corretto Bartók a penna!” (ride)… Poi però tutta la mia vita è stata una scoperta di nuova musica.
Quando hai capito che potevi fare della musica una professione?
In realtà non ho mai pensato di fare altro, tant’è che ho fatto il mio primo disco a nove anni. Non so proprio che cosa farei se non facessi questo. Forse avrei fatto lo scrittore…
Chi sono i musicisti che più ti hanno segnato?
Il primo disco di musica nera che ho ascoltato è stato Calypso di Harry Belafonte, dal quale ho tratto Jamaica Farewell. Poi mi hanno segnato Lena Horne, Gershwin e Porgy and Bess, opera straordinaria che ho anche visto alla Scala, il blues e la musica barocca, Bach, Domenico Scarlatti (il primo disco che comprai fu Horowitz che suona appunto Scarlatti), Mozart (tant’è che, secondo Franco Fabbri, avrei scritto canzoni “mozartiane”)… Poi i Rolling Stones, i Led Zeppelin, Keith Jarrett (che ho ascoltato dal vivo in un club di Boston quando suonava con Miles Davis), i Weather Report, Bob Marley. Dischi che sono stati per me fondamentali, alcuni dei quali acquistati direttamente negli Stati Uniti quando non erano ancora disponibili in Italia, sono Live-Evil di Miles Davis, I Sing the Body Electric dei Weather Report, Blue di Joni Mitchell.
Si è tanto parlato di Paolo Conte alla Scala, ma pure tu ci sei andato molto tempo prima con Carlo Boccadoro…
Paolo Conte è stato alla Scala con la sua musica, io ci sono andato come voce narrante (nel Piccolo sarto di Tibor Harsány nel 2010) e poi, dato che lo spettacolo è andato bene, ho avuto l’occasione di cantare. Alla Scala siamo poi ritornati l’anno successivo, per me è stato il punto più alto della mia vita artistica. Mia madre venne in Italia perché il suo più grande sogno era studiare e cantare alla Scala, anche se poi, dato che era albina e ipovedente, non poté esibirsi nei teatri, quindi per lei vedere me su quel palco fu un’emozione incredibile. Ed è in quel momento che, in un certo senso, ho chiuso il cerchio con lei. Con mio padre invece l’ho chiuso quando hanno dato il nome Finardi a un asteroide, perché lui era un grande amante dello spazio.
Com’è cambiata la musica in questi cinquant’anni di lavoro?
Una volta le carriere musicali erano più brevi, non duravano una vita. Da Ma dove vai bellezza in bicicletta (1951), Ghiaccio bollente (1956) e Musica ribelle (1976) ci sono eoni di differenza poi però se ci pensi in fondo la musica non è cambiata poi così tanto mentre il mondo intorno sì, il cambio vero e proprio se vogliamo c’è stato negli anni Duemila con l’arrivo del rap e della trap. Pensa al rock che continua a esistere e ai Måneskin, Damiano mi ricorda me da giovane negli anni Settanta. Oppure alla canzone d’autore. C’è una continuità, mentre una volta, mezzo secolo prima di Musica ribelle c’era una musica veramente diversa. Gli artisti restano attivi per decenni, pensa a Paul McCartney oppure anche a me e al fatto che dopo cinquant’anni sei qui a chiedermi della mia carriera, che qualcuno venga ad ascoltarmi ai concerti e che io sia ancora rilevante. In Italia questo filone è durato e sta durando ancora perché molta della musica di oggi è una rielaborazione di quello che è stato fatto prima. Se la musica non è cambiata è mutata la sua funzione, che per esempio per il rock da trasgressiva è diventata semplicemente divertente, ed è mutato anche lo spirito con cui essa è fruita: le stesse cose rifatte oggi dai Måneskin non hanno la stessa valenza né i giovani la percepiscono nello stesso modo. Vederli in guêpière o con i cerotti sul seno non è più uno scaldalo perché ormai le abbiamo viste tutte. Personaggi affermati della generazione antecedente alla mia come il maestro Gino Latilla o Tony Dallara a un certo momento sono scomparsi completamente; solo adesso i giovani stanno riscoprendo cantautori come Umberto Bindi oppure anche una cantante come Orietta Berti ma in questo caso in chiave estremamente popolare e piuttosto trash. C’è stata una cesura netta nella cultura musicale italiana, che invece non è avvenuta negli Stati Uniti.
Cosa ne pensi della musica di oggi?
La musica pop di oggi se fatta bene può essere bella, a me ad esempio piacciono molto Colapesce Dimartino che per due anni di fila hanno centrato lo Zeitgeist della canzone leggera, anzi per dirla con loro, leggerissima. “Dammi un po’ di musica leggera / perché ho voglia di niente”: Musica leggerissima la dice lunga su questa generazione, su come i giovani bevono, si divertono e su molte altre cose. Anche la canzone di quest’anno, Splash, che recita “io lavoro per non stare con te”, è geniale. Trovo poi interessante la trap: la ricchezza armonica nel rock è realizzata con due chitarre, tastiera e batteria (pensa per esempio a Michelle dei Beatles), mentre nella trap la funzione ritmica e armonica sotto la voce è risolta senza che nulla entri in vibrazione con l’aria ma soltanto grazie a un campionamento della drum machine Roland TR-808, trovando una sintesi con il minimo dei mezzi a disposizione. Questo ingrossamento artificiale delle frequenze gravi crea un’intensità che va molto al di là di una band rock e moltissimo al di là di un quartetto d’archi. E non nascondo che la cosa mi intriga non poco…
Foto in copertina di Fabrizio Fenucci.